Flora feconda. Poema.

An epic poem that celebrates the pregnancy of Vittoria della Rovere.

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            <title>Margherita Costa's Flora Feconda (1640): A Basic TEI Edition</title>
            <author>Galileo’s Library Digitization Project</author>
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                <orgName>the TEI Archiving, Publishing, and Access Service (TAPAS)</orgName>
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              <addrLine>360 Huntington Avenue</addrLine>
              <addrLine>Northeastern University</addrLine>
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            <note>Based on the copy at the Library of Congress</note>
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               <title>Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana. In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori.</title>
               <author>Costa, Margherita</author>
               <pubPlace>Florence</pubPlace>
               <publisher>Massi, Amador; Landi, Lorenzo</publisher>
               <date>1640</date>. 
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            <p>This TEI edition is part of a project to create accurate, machine-readable versions of books known to have been in the library of Galileo Galilei (1563-1642).</p>
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            <p>This work was chosen to maintain a balance in the corpus of works by Galileo, his opponents, and authors not usually studied in the history of science.</p>
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               <p>Lists of errata have not been incorporated into the text. Typos have not been corrected.</p>
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               <p>The letters u and v, often interchangeable in early Italian books, are reproduced as found or as interpreted by the OCR algorithm. Punctuation has been maintained. The goal is an unedited late Renaissance text for study.</p>
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 <docTitle>Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana.</docTitle>
 <docImprint>In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori
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<lb/>Flora 
<lb/>Feconda
<lb/>Poema 
<lb/>di 
<lb/>Margherita Costa 
<lb/>Romana.
<pb n= "unnumbered i"/>
<lb/>Flora 
<lb/>Feconda.
<lb/>Poema 
<lb/>di 
<lb/>Margherita Costa 
<lb/>Romana. 
<lb/>Dedicato all’Altezza Serenissima 
<lb/>di Ferdinando Secondo 
<lb/>G. Duca di Toscana:
<lb/>In Fiorenza
<lb/>Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. 
<lb/>Con Licenza de’ Superiori.
<pb n= "unnumbered ii"/>
<lb/>Serenissimo Grand Duca.
<lb/>Flora feconda 
<lb/>presentasi a V.A.S. che ha
<lb/>potuto secondar di 
<lb/>gratie la mia fortuna, e 
<lb/>dalla bassezza inalzarla a’ 
<lb/>meriti de’ suoi favori. 
<lb/>Turbavasi in me 
<lb/>l’animo, che nelle lodi del gran Parto io non
<lb/>potessi far dimostratione di dovuto
<lb/>ossequio, e di convenevole contentezza,
<lb/>ma dal soave Zeffiro della sua 
<lb/>cortesissima benignità rasserenata, per celebrar
<lb/>l’altezza delle glorie Toscane, sono 
<lb/>uscita anch’io a campeggiare co’l parto del mio 
<lb/>basso ingegno. Per mostrare il mio
<lb/>desiderio, se non le forze, ho destata la mia 
<lb/>Musa a fare il suo sforzo; Onde ho preso 
<lb/>ardimento di formare opera di Poema: ma 
<lb/>se V.A. da altri attenderà saldezza di 
<lb/>gemme di virtù, hora da me, che porto 
<lb/>la fecondità di Flora, si contenti, ch’io 
<lb/>le porga in tributo tenerezza di fiori; più 
<lb/>alto il mio ingegno non si solleva. E 
<pb n= "unnumbered iii"/>
<lb/>però s’ella ha in testa corona d’oro, io questa
<lb/>de’miei fiori a’suoi piedi presento. Ben’ 
<lb/>egli è vero, che con infelicissimo
<lb/>avvenimento morte alle felicità del Mondo il 
<lb/>Sereniss. Gran Principino ha rapito; 
<lb/>ma coronansi anche di fiori le tombe 
<lb/>de’morti Infanti. L’Altezza della Quercia, che 
<lb/>l’ha prodotto, con la sua sublimità l’ha 
<lb/>generato al Cielo, ed il Signore per 
<lb/>pegno delle grandezze Toscane a sè l’ha 
<lb/>chiamato; poiche le primitie devonsi a 
<lb/>Dio. Sicura intanto della fecondità 
<lb/>della Real Consorte prego ne’ miei caldi 
<lb/>voti più stabil vita al futuro Parto, e per sua 
<lb/>maggior consolazione facendole 
<lb/>profondissima riverenza, le auguro dal Cielo
<lb/> altretanta ricompensa di felicità, quante 
<lb/>sono le obligazioni della mia servitù.
<lb/>Di Firenze questo dì 26 di Genaio 1640
<lb/>DiV. A Sereniss.
<lb/>Humiliss. diuotiss. ed obligatiss. Serva.
<lb/>Margherita Costa.
<pb n= "unnumbered iv"/>
<lb/>A’ Lettori
<lb/>Benigno Lettore, nel presente Poema habbi riguardo al 
<lb/>sogetto, se non alle mie fatiche, ed appagati 
<lb/>dell’occasion dell’opera, se non del mio rozo, e poco avventurato talento; 
<lb/>dal quale, se non bene espresso vedrai gli effetti del mio 
<lb/>pensiero, sì quello compatisci, come l’estremità del 
<lb/>tempo; poiche trovandomi occupata in altre compositioni, e 
<lb/>desiderosa anch’io d’uscire con felice augurio all’applauso 
<lb/>delle comuni allegrezze Toscane, in pochissimo Tempo è 
<lb/>stato da me composto. Il Poema era ristretto in nove canti, 
<lb/>che alludevano alli nove mesi del Parto della Serenissima 
<lb/>Gran Duchessa; ma per l’infausto successo della Morte del 
<lb/>Serenissimo Infante, a quelli ho aggiunto il decimo, che è il 
<lb/>rapimento fatto da Giove del Real Bambino. Contentati dunque 
<lb/>di godere nella rozezza del mio canto l’amenità degli due finti
<pb n= "unnumbered v"/>
<lb/>Numi, mentre pregandoti dal Cielo ogni bene, ti ricordo 
<lb/>ancora, che dove troverassi Fato, Fortuna, Destino, Cielo, Dio, e 
<lb/>parole simili s’intende che si parla favolosamente, e per 
<lb/>allettatione poetica, e non per offendere la Pietà Cristiana.
<pb n= "unnumbered vi"/>
<lb/>Argomento
<lb/>Il Poema è distinto in nove 
<lb/>Canti, alludendo a’ nove mesi del Parto 
<lb/>della Serenissima Gran Duchessa: ma poi 
<lb/>per l’avverso avvenimento della 
<lb/>repentina morte del Serenissimo Gran 
<lb/>Principino si è aggiunto il decimo Canto.
<lb/>L’invenzione, acciò sia nota, è appoggiata a persone 
<lb/>e luoghi noti, e Favole chiare.
<lb/>Quì dunque Flora con Zeffiro manchevoli di Prole 
<lb/>(rappresentanti il Serenissimo Ferdinando 
<lb/>Secondo Gran Duca di Toscana, e la Serenissima 
<lb/>Vittoria della Rovere Gran Duchessa) consigliansi con la 
<lb/>Deità di Venere, e d’Amore; passano scontri di 
<lb/>vari casi, e vanno all’Oracolo di Giove nella Caonia, 
<lb/>dove è la Selva Dodonea, che per mezzo di 
<lb/>Colombe, e di Quercie dà risposte certissime al Mondo. 
<lb/>Hanno risposta, e dentro Nave, data loro da Giove, 
<lb/>dove l’Albero è una di quelle Quercie sacre, (e quì 
<lb/>s’allude a Casa della Rovere) ritornano 
<lb/>nell’Etruria, le parole dell’Oracolo si verificano, e si celebra
<lb/>la loro Fecondità. E poi segue la giunta del 
<lb/>rapimento fatto da Giove.
<lb/>CANTO PRIMO
<lb/>Flora, che da Greci fu detta Cloride, e Zeffiro si
<lb/>lamentano, come tutto il Mondo sia per loro
<lb/>fecondo di vaghezze, ed essi nell’Etruria, ove hanno
<pb n= "unnumbered vii"/>
<lb/>posto la loro Reggia, non possino havere 
<lb/>fecondità di Prole. Venere intanto con Amore ne’ giorni
<lb/>lieti di Maggio scorrendo la marina, e ritiratisi su’l 
<lb/>mezzo giorno in un’Antro amenissimo della 
<lb/>Toscana. Quivi giunge Zeffiro, ed ammiratosi degli 
<lb/>scherzi, e pompe della Dea, e poi espostole le sue 
<lb/>querele, da Venere intende, che solo da Giove in 
<lb/>Dodona s’hanno le vere risposte. Zeffiro parte.
<lb/>CANTO SECONDO
<lb/>Zeffiro torna a Flora, e persuasala di andare 
<lb/>all’Oracolo di Giove in Dodona, ove dalle 
<lb/>Colombe, Uccelli di Venere, e dalle Quercie, Arbori di 
<lb/>Giove, s’attendono le vere risposte. Determinano 
<lb/>partire. Zeffiro in un bel mattino fabricata 
<lb/>bellissima nuvola parte con Flora per aria, e trapassando, 
<lb/>e vedendo le vaghezze del mare godono, e giunti 
<lb/>al golfo delle Sirene, mentre queste con suoni, e 
<lb/>canti s’affaticano ritardargli, Zeffiro soavemente spira
<lb/>dalla nuvola, sì che a quel fiato, i Cigni delle 
<lb/>sponde vicine ragunati fanno così dolce armonia, che 
<lb/>confuse le Sirene s’affondano, ed essi salvi, e lieti 
<lb/>trapassano.
<lb/>CANTO TERZO
<lb/>Drizzano il volo verso la Sicilia, e visto uno 
<lb/>amenissimo luogo, ivi smontano, ed erano i 
<lb/>Campi bagnati dal Fonte d’Aretusa: quivi sono accolti 
<lb/>dalla Ninfa, ed essa narra loro gli antichi amori di 
<lb/>Alfeo con lei, ed intanto giungendo Alfeo canta le 
<lb/>vaghezze di Flora, e di Zeffiro, ed i diletti 
<lb/>d’Amore.
<pb n= "unnumbered viii"/>
<lb/>CANTO QUARTO
<lb/>Seguono sovra la nuvola il viaggio in Feacia, dove 
<lb/>è il Re Alcinoo, e da lui inviati a lautissima 
<lb/>mensa; essi in ricompensa gli rendono i Campi ricchi 
<lb/>d’ogni fecondità di piante, e di fiori, sì che il luogo 
<lb/>diviene un’incomparabil’horto di perpetua 
<lb/>amenità, ove si descrive l’eccesso delle maraviglie 
<lb/>terrene.
<lb/>CANTO QUINTO
<lb/>Ultimamente su ‘l mare giungono a vista del lido 
<lb/>della Caonia, dove è Dodona, ove di 
<lb/>ghiande si vive, e si descrive quivi essere l’Età dell’oro 
<lb/>rimasta. Entrano nel luogo dell’Oracolo, e Zeffiro 
<lb/>offerti i doni a Giove, e Flora sparsi i prieghi, le 
<lb/>Quercie, e le Colombe rispondono.
<lb/>	Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole,
<lb/>	Che stenderà l’impero a par del Sole.
<lb/>Dopo haver quivi dimorato molti giorni, e fatte 
<lb/>continue feste al Tempio, tornano al Lido, ed in
<lb/>vece della nuvola, trovano una Nave, che ha per 
<lb/>Arbore una di quelle Quercie sacre: entrano, e 
<lb/>risolcano il mare verso l’Etruria.
<lb/>CANTO SESTO
<lb/>Aquilone inimico di Zeffiro nel ritorno, mentre 
<lb/>questi vogliono entrare nel Faro di Sicilia, 
<pb n= "unnumbered ix"/>
<lb/>opponsi alla Nave, e falla errare altrove. A quel moto 
<lb/>scotesi Nettunno, tranquilla il mare, e 
<lb/>incatenato Aquilone alla Nave, ordina a gli Dei, e Dee 
<lb/>marine, che accompagnino sì felice ritorno de’ vaghi 
<lb/>Amanti alle rive dell’Arno.
<lb/>CANTO SETTIMO
<lb/>Aci, che è uno de’ Dei de fonti, ed era in questa 
<lb/>pompa, visto la bellezza di Flora, e d’amore 
<lb/>fortemente acceso scordasi della sua bella Galatea; 
<lb/>e Polisemo dal monte vedendo la Ninfa, che 
<lb/>abandonata dolevasi, rinova i vecchi amori: giungono in 
<lb/>tanto Zeffiro, e Flora all’Isola Eolia, e visto l’antro 
<lb/>del Re de’ Venti, gli consegnano Aquilone 
<lb/>incatenato; Euro per alcuni giorni li festeggia con varie 
<lb/>danze d’Aure; e di Venti. Aci pentito ritorna a gli 
<lb/>amori di Galatea. Flora, e Zeffiro partono.
<lb/>CANTO OTTAVO
<lb/>Annoiata da gran caldo Flora prova un male, 
<lb/>che le conturba il Parto, e par, che la sparga 
<lb/>d’alcune macchie (e qui s’allude al male del Vaiolo 
<lb/>della Sereniss. Gran Duchessa.) Per il che ritorna 
<lb/>con Zeffiro nell’Eolia, dove per opera di Glauco 
<lb/>Flora risanasi; e da ivi partono, e da Tritone 
<lb/>Araldo del mare sentono le lodi de’ loro Maggiori. 
<lb/>Dopo entrando nel mar Tirreno, Arione sopra un 
<lb/>Delfino li si fa incontro, e canta su la Lira le 
<lb/>grandezze dell’Arno.
<pb n= "unnumbered x"/>
<lb/>CANTO NONO
<lb/>Venere, ed Amore incontrano la pompa degli 
<lb/>Dei marini, e Flora, e Zeffiro; e dopo molti 
<lb/>scherzi, e giochi marini si vide l’Albero di Querica 
<lb/>della Nave germogliare, e partoririe ghiande d’oro; 
<lb/>ed intanto scorto l’Oracolo adempirsi, smontano 
<lb/>su’l Lido, e dentro nobil Tempio dall’Arte, e dalla 
<lb/>Virtù fabricato ripongono la Nave, e l’albero 
<lb/>della Quercia d’oro. Finita sì grand’ opera Flora a piè 
<lb/>della Quercia espone bellissimo fanciullo: 
<lb/>accorrono tutte le Deità, e con doni cantano all’Infante 
<lb/>eternità d’honori.
<lb/>CANTO DECIMO, ET ULTIMO
<lb/>Giove chiama in Cielo il nato Bambino, e dopo 
<lb/>gran lamenti di Zeffiro, e di Flora in virtù 
<lb/>della Quercia d’oro promette loro più stabile Prole, 
<lb/>ed i Numi al decreto divino si consolano.
<pb n= "unnumbered xi"/>
<lb/>Si stampino l’infrascritti Canti se però così piace al 
<lb/>Reverremdissimo P. Inquisitore. D. il di 12. Novembre 1639. 
<lb/>Vincenzio Rabatta Vic: di Firenze.
<lb/>Si possono stampare in Fir. li 13. Novemb. 1639. 
<lb/>Fr. Gio. Inquisit. Gen. di Fir.
<lb/>Alessandro Vettori Senat. Auditore di S.A.S.
<pb n= "1"/>
<lb/>CANTO PRIMO
<lb/>Argomento
<lb/>Privi son Flora, e Zeffiro di Prole,
<lb/>Ond’ ei l’evento a Citherea richiede;
<lb/>Ed ella dice. A Giove haver dei fede,
<lb/>Ch’ in Dodona haver dido oracol suole.
<lb/>I.
<lb/>Musa, dettmai il suono, onde la Prole
<lb/>Di Zeffiro, e di Flora in carte spieghi;
<lb/>E s’altri bere in Helicona suole,
<lb/>Febo di bere in Arno à me non neghi.
<lb/>Ove sono grandezze al Mondo sole,
<lb/>De’ carmi l’armonia l’anime leghi,
<lb/>E, se le chiome altrui cinge l’alloro,
<lb/>Incoroni i miei crin la Quercia d’oro.
<pb n= "2"/>
<lb/>II
<lb/>Già più non veggio a tante gioie amari
<lb/>Spender’ i flutti placido il Terrno;
<lb/>Ma di cor alli rivestiti i Mari
<lb/>Aprir tranquillo a vaghe Ninfe il seno:
<lb/>Già la Diva di Cipro co’ suoi cari
<lb/>Augelli fende il liquido sereno;
<lb/>Apre Giove gli arcani; e da Dodona.
<lb/>Lieti fati la selva à noi risona.
<lb/>III
<lb/>Sù sù, con crine d’oro, e piè di gemme
<lb/>Danzin le Stelle ne l’eterne sfere;
<lb/>Del Tosco mar le nobili Maremme
<lb/>Sien di Tesor non men, che d’onda, altere.
<lb/>Più di smeraldi l’Apennino ingemme,
<lb/>Che di frondi, le piante: a amiche schiere
<lb/>D’aure vezzose, ventilando ardori,
<lb/>Piovin da’ Ciel d’ Amor nembri di fiori.
<lb/>IV
<lb/>Fernando, che de l’Arno il freno reggi,
<lb/>E contra ‘l Mauro vincitore spiri:
<lb/>E ne’ remoti, Orientali seggi
<lb/>Per te la Tracia Luna essangue miri.
<lb/>Con felici a’ miei voti amiche leggi
<lb/>Non sdegnar di far paghi i miei desiri;
<lb/>Per te provi l’oblío superbo crollo,
<lb/>E sii de la mia Musa unico Apollo.
<pb n= "3"/>
<lb/>V
<lb/>Non bramo ne’ miei carmi altro Elicona,
<lb/>Che l’Apennino tuo, dove non verna;
<lb/>Ma sol d’augelli armoniosi suona
<lb/>Maestrevole scherzo, e gara eterna:
<lb/>Poich’ a le glorie tue rimbombo tuona;
<lb/>Che co’l tuo nome gli altrui nomi eterna:
<lb/>E de le lodi tue chiare, e divine
<lb/>L’Oceano, e ‘l mar’ Indico è confine.
<lb/>VI
<lb/>Mentre Flora con Zeffiro feconda
<lb/>Quest’amena d’Italia antica parte,
<lb/>Sia l’alma con bei voti in te gioconda,
<lb/>Come in me son d’Amor liete le carte.
<lb/>Per me de l’Arno sù l’amica sponda
<lb/>Mira tue gioie in questi Numi sparte.
<lb/>E’n un co’l nome di Vittoria impresso
<lb/>Ne l’imagini lor godi te stesso.
<lb/>VII
<lb/>Per tratto d’anni la vezzosa Flora
<lb/>Con Zeffiro in amor giunta vivea;
<lb/>L’una per l’altro hor sospirava, ed hora
<lb/>L’altra da gli ozii altrui pace trahea.
<lb/>Se quegli mira in lei la vaga Aurora;
<lb/>Questa in quei chiari lumi il Sole havea.
<lb/>Né v’era parte in lor senza vaghezza;
<lb/>E son cambi tra lor luce, e bellezza.
<pb n= "4"/>
<lb/>VIII
<lb/>Ambo traggon da Numi origin degna,
<lb/>E ‘n un co’l Mondo nacquero a’ Mortali.
<lb/>L’una à vestir di fiori i campi insegna,
<lb/>E diffonder d’odor nembi vitali;
<lb/>L’altro del bel seren ne’ campi regna,
<lb/>E di rose odorate impenna l’ali:
<lb/>Ma sovra l’Arno, che di gioie ondeggia, 
<lb/>Hanno unito il piacer, commun la Reggia.
<lb/>IX
<lb/>Ond’ è, che Flora à Zeffiro rivolta
<lb/>Dice. O’ de l’alma mia parte gradita,
<lb/>Non fia, chi veggia la mia fè disciolta,
<lb/>Ove il tuo fido amore à me fia vita:
<lb/>A te donata, ed à me stessa tolta
<lb/>Serbo quest’ alma, che sol teco unita
<lb/>In me se n’ vive, e dolcemente prova,
<lb/>Che ne’ cambi del cor gioia si trova.
<lb/>X
<lb/>Del chiaro memorabile Metauro
<lb/>Le sponde famosissime albergai,
<lb/>E co’ tesori miei di fertil’ auro
<lb/>Fin l’infeconde Roveri indorai.
<lb/>Ma quì del placido Arno al bel tesauro
<lb/>Amo per te rivolger’ i miei rai;
<lb/>E godo, che l’altissimo Appennino
<lb/>Sia de gli amori miei dolce destino.
<pb n= "5"/>
<lb/>XI
<lb/>Per te, Zeffiro mio, tempro il mio foco,
<lb/>E l’ale tue, co’l ventillar, mi sono
<lb/>Sì bel ristoro, c’ho le fiamme a gioco,
<lb/>Ed aure di contenti hò per tuo dono:
<lb/>In me sereno sol di pace hà loco,
<lb/>Ed hò posto ogni cura in abbandono;
<lb/>Se non quanto al mio seno è dolce cura
<lb/>Di Zeffiro d’amor soave arsura.
<lb/>XII
<lb/>E ben’ il sanno questi colli intorno,
<lb/>C’hor per te vesto di fioriti argenti;
<lb/>Hora di pompe d’or vivace adorno,
<lb/>Ed hor gli’ ingemmo di rubin ridenti:
<lb/>Applaudon vagamente al mio soggiorno
<lb/>Co’ pinti vanni amorosetti i venti:
<lb/>Sempre spuntan gli odori, ove m’aggiro,
<lb/>E, per te, Dea di Primavera spiro.
<lb/>XIII
<lb/>Ma del nome, per altri, io fertil vivo,
<lb/>E, per te, manca son d’amata prole:
<lb/>Non è ‘l monte, per me, di parti privo,
<lb/>E spunto mille Figli a’ rai del Sole:
<lb/>Ha fertili, per me, le sponde il Rivo,
<lb/>Per me, d’amor languiscon le viole;
<lb/>Ed odorati Germi, e ricchi Figli
<lb/>Son l’auree rose, e gli argentati gigli.
<pb n= "6"/>
<lb/>XIV
<lb/>E pur Madre non son di picciol Nume,
<lb/>Che scherzi à te bambolleggiando innanti:
<lb/>Cieca à me sono, se per altri hò lume,
<lb/>E vie più, che d’honor, degna di pianti.
<lb/>Ah che la Deitade in van profume
<lb/>In me de l’alte glorie i sommi vanti,
<lb/>E và per l’aure leggiermente à vuoto
<lb/>Più di Zeffiro lieve ogni mio voto.
<lb/>XV
<lb/>Disse; e grondar da gl’ occhi de la Diva
<lb/>Anco fur viste numerose stille;
<lb/>E sì calde del duol le vene apriva,
<lb/>Che sembravan le gote arse faville.
<lb/>Onde beltà languía, qual sù la riva
<lb/>L’alga si mira, cui da cento, e mille
<lb/>Scosse di flutti è ripercosso il crine,
<lb/>E da l’onde, ove hà vita, hà le ruine.
<lb/>XVI
<lb/>Zeffiro all’hor, cui l’altrui duolo, e pena,
<lb/>Altamente sospira, e quasi anch’ esso
<lb/>Da’ lumi fuor versando amara vena,
<lb/>Havea tutto al dolor dato se stesso.
<lb/>Ma, perch’ altri consoli, egli serena
<lb/>Il ciglio dagli affanni in se dimesso;
<lb/>Scaccia a forza il cordoglio, e con l’aspetto
<lb/>Invita Flora à tranquillare il petto.
<pb n= "7"/>
<lb/>XVII
<lb/>Anzi ei di propria mano il pianto terge
<lb/>Da gl’ occhi della Diva; e dolci baci 
<lb/>In quel volto imprimendo, i pensier’ erge
<lb/>A serenar le cure in lei mordaci.
<lb/>E dice. Altera Dea, non ben s’immerge
<lb/>L’animo in aspre pene; à te vivaci
<lb/>Dato hà gli spirti eternamente Giove;
<lb/>E in noi le gioie sol di Dei son prove.
<lb/>XVIII
<lb/>Sù sù le stille, che turbaro il core,
<lb/>Fuggan dal Cielo del divin sembiante;
<lb/>Nè più d’affanni tempestoso horrore
<lb/>L’animo ingombri di piaceri amante.
<lb/>Non hà due giorni, che la Dea d’Amore
<lb/>Da Cipro in questo mar volte hà le piante,
<lb/>E quì co’l figlio è giunta in sù ‘l Tirreno,
<lb/>Per recar’ al mar Tosco almo sereno.
<lb/>XIX
<lb/>Come ben sai, sù ‘l cominciar di Maggio,
<lb/>Ella se n’ viene à queste rive amica,
<lb/>Riveste i rami suoi la Quercia, e ‘l Faggio
<lb/>Nuovi fior sù la sponda il Rio nudrica.
<lb/>E ‘l Sole, sol per lei vi stende il raggio,
<lb/>E d’amori, e di rami il bosco implica.
<lb/>Là vuò stender’ i passi, e da Ciprigna
<lb/>Saper, s’ha ‘l Ciel per noi sorte benigna.
<pb n= "8"/>
<lb/>XX
<lb/>Ella oracol ne fia; qual’ à sua Prole,
<lb/>Giove a lei diè d’amori esser Nodrice,
<lb/>E quanto di facondo hà questa mole,
<lb/>Tutto degli amor suoi parto è felice.
<lb/>Onde, se’l Ciel tra noi mentir non suole,
<lb/>Sol la gratia da lei sperar ne lice:
<lb/>E, s’ a lei produciam frutti d’odore,
<lb/>Ella ne renda à noi parti d’amore.
<lb/>XXI
<lb/>Consolosi la Diva, e come in stelo
<lb/>Languente fiore, se vi giunge il lampo 
<lb/>Del Sole amico, s’erge lieto al Cielo,
<lb/>Ed arricchisce di sue gemme il campo,
<lb/>Sì Flora del suo duol ritolta al gelo
<lb/>Rinvigorissi a’ detti, e caldo vampo
<lb/>Al cor l’augurio le stillò di lei,
<lb/>Che de gli huomini è Madre, e de gli Dei.
<lb/>XXII
<lb/>Al nominar di Venere si sente
<lb/>Flora riprender lena, e al suo Consorte
<lb/>Volgendo ciglio di seren ridente,
<lb/>Spira à quei voti favorevol sorte.
<lb/>Al gioir de la Dea partir repente
<lb/>Furon viste le nebbie à l’aria forte,
<lb/>E ‘l Ciel da le caligini ritolto
<lb/>Puro a le Stelle d’or render’ il volto.
<pb n= "9"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Lieto più, che mai suol, Zeffiro a l’hora
<lb/>Di rose più vermiglie impenna l’ale,
<lb/>E benche parta, pur congiunto a Flora
<lb/>Nel cor porta di lei l’alma immortale.
<lb/>Tronca da speme acceso ogni dimora,
<lb/>E ratto al suo desio và  più di strale.
<lb/>Lieve se n’ vola, e al suo passaggio senti
<lb/>Formar l’onde, e gli augelli emuli accenti.
<lb/>XXIV
<lb/>Ogni nube da lui fugata cede,
<lb/>E ‘l Sol nel Cielo più sereno torna;
<lb/>L’argento a’ rivi più purgato riede,
<lb/>E di novi smeraldi il prato s’orna.
<lb/>Ovunque il volo indirizzar si vede,
<lb/>Primavera di fiori ivi soggiorna;
<lb/>E al dolce sospirar d’ aura gentile
<lb/>Di vive gemme s’incorona Aprile:
<lb/>XXV
<lb/>Giunge alfin, dove argheggia antro frondoso
<lb/>Lussureggiante d’hedere, e di rose,
<lb/>E con volo, c’hà suono armonioso,
<lb/>Trascorron’ a la cura Aure vezzose.
<lb/>L’albergo è sol de’ pregi suoi pomposo,
<lb/>Ed hà per suoi tesor gioie amorose.
<lb/>Quindi lunge se n’ và Tuono, e Baleno,
<lb/>E v’è la Pace, e scherzavi il Sereno.
<pb n= "10"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Pura è la fonte, che serpeggia fuori,
<lb/>Di muti pesci albergo innamorato:
<lb/>Vi sono di Piacer misti gli ardori;
<lb/>E di tranquillità messaggio è ‘l Fato.
<lb/>Non vi posan’ augei, se non canori,
<lb/>E sol ripieno di bei Cigni è ‘l prato;
<lb/>E ‘l Mare al suono del famoso speco
<lb/>E’ di gratie, e d’ amori anima, ed Eco,
<lb/>XVII
<lb/>In ricco seggio di bei fior tessuto
<lb/>Stava di Pafo la ridente Diva;
<lb/>Parla di sua beltà l’ albergo muto,
<lb/>Ed ogni pianta à quegli sguardi è viva.
<lb/>L’ Aura istessa, che vola, in suono arguto
<lb/>Di scherzi favellar vaga s’udiva;
<lb/>E ‘l Mar, ch’ è tal’ hor fiero, ivi soave
<lb/>Chiamava a gli otij suoi lieta ogni nave.
<lb/>XXVIII
<lb/>Ben’ egli è ver, che nel più crudo verno,
<lb/>A l’hora ch’ Aquilon crudo tempesta,
<lb/>E armato il forte sen di ghiaccio eterno
<lb/>Le selve scote, e le campagne infesta,
<lb/>La Diva, che de gli animi hà ‘l governo,
<lb/>Entro il sen de l’ Egeo passa l’ infesta 
<lb/>Stagion de l’anno, e tra piacevol riti
<lb/>Suol de l’Isola sua gioir ne’ liti.
<pb n= "11"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Stà nel suolo nativo ella, ch’ a Gnido
<lb/>Le leggi impone, ed in quei Ciprij campi
<lb/>De le delitie sue tenendo il nido,
<lb/>De le vittime ardenti hà cari i lampi.
<lb/>E diffusi a la Dea dal popol fido
<lb/>Sono ben mille odori, onde sù gli ampi
<lb/>Spatij del verde pian veggonsi immensi
<lb/>A le Stelle fumar globi d’incensi.
<lb/>XXX
<lb/>Chi di Colombe i doni offerti haveva,
<lb/>E di sacrato vin sparsi gli altari:
<lb/>E chi diserti di bei fior godeva
<lb/>Haver’ appesi ordin superbi, e vari.
<lb/>Quando cessati i voti, ecco si leva
<lb/>Sovra alto carro a volo, e varca i mari;
<lb/>E per temprar del caldo Ciel la noia,
<lb/>Posar ne’ Toschi lidi hà per sua gioia,
<lb/>XXXI
<lb/>Perche dopo c’hà scosso il sommo Toro
<lb/>La sua Virtù da l’infiammato volto,
<lb/>E ‘l Sole diffondendo i raggi d’oro,
<lb/>Con giorni più sereni à noi s’ è volto,
<lb/>Ella ama in compagnia del vago choro,
<lb/>Che forman gl’ Amoretti a volo sciolto,
<lb/>Varcare, ove d’Etruria il mar spumeggia,
<lb/>E ne’ lidi Tirreni hà la sua Reggia.
<pb n= "12"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Quì soggiorna la Dea, come in suo trono,
<lb/>E quì gode Cithera, ed Amathunta;
<lb/>E pon l’istesso Cipro in abbandono,
<lb/>Pur che non sia da’ Toschi ella disgiunta.
<lb/>Hà l’Italico Cielo per miglior dono,
<lb/>E quivi sol per lui d’amore è punta;
<lb/>E gode, che per sede a lei novella
<lb/>Sia trono di beltà l’Italia bella.
<lb/>XXXIII
<lb/>Qui si scorge la Diva in lieto aspetto
<lb/>Fugar dal lieto sen l’ombre di noia,
<lb/>Con piè di molle avorio intorno al tetto
<lb/>Vedeasi à gara saltellar la Gioia.
<lb/>Il Canto fuor d’armonioso petto
<lb/>Note disciorre contra ‘l duol, ch’ annoia,
<lb/>E ‘l Suono co’ suoi musici concenti
<lb/>Arrestar l’onde, e inprigionare i venti.
<lb/>XXXIV
<lb/>Il Ballo anch’ esso discioglieva intorno
<lb/>Di salti, e di rivolte arti novelle,
<lb/>E dilettoso ancor, del Tempo a scorno,
<lb/>Il Gioco vi spendea l’hore più belle.
<lb/>E la Pace tra loro à par del giorno
<lb/>Cingea candida veste; e le ribelle
<lb/>Cure lasciano in preda agli otij amici,
<lb/>Di pene, e di pensier stuoli nemici.
<pb n= "13"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Ma sovra gli altri festeggiando in giro
<lb/>Scotonsi gli Amoretti à cento, à mille;
<lb/>E vaghi di dolcissimo martiro
<lb/>Chi strali ministrava, e chi faville.
<lb/>Mandavan dal lor sen più d’un sospiro,
<lb/>Con l’acque confondevan le scintille,
<lb/>E tesson per la Dea cinti superbi
<lb/>Di gioie estreme, e di dolori acerbi.
<lb/>XXXVI
<lb/>Chi sovra un sasso raffinar lo strale
<lb/>Ingegnavasi ardent; e chi le piume
<lb/>Al Sol tergeva; e, con dibatter l’ale,
<lb/>Aure spirava à l’amoroso Nume.
<lb/>E chi di varij fior nembo vitale
<lb/>In quel dì radoppiava oltre il costume,
<lb/>Quasi presago, ch’ ivi il Dio de’ fiori
<lb/>Giunger doveva, ad impetrare Amori.
<lb/>XXXVII
<lb/>Meraviglie dirò. Visto il sembiante
<lb/>Di Zeffiro, quei fiori in belle guise
<lb/>Ricolorirsi; e al lor’ aspetto amante
<lb/>Con bei spirti d’odor l’Aria sorrise;
<lb/>E con Cupido Venere festante
<lb/>Ad ischerzare, à vezzeggiar si mise,
<lb/>Sì che del Tosco mar sovra le sponde
<lb/>S’ammutirono i venti, e tacquer l’onde.
<pb n= "14"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Quando Zeffiro volto al Nume ardente
<lb/>Disse. O de l’alme eccelsa Genetrice,
<lb/>Creato in seno a l’acque Idol possente,
<lb/>De la Terra, e del Mondo alma Nodrice,
<lb/>Sotto l’imperio tuo sorge ridente
<lb/>Quanto di vago hà Giove, e di felice.
<lb/>E sol per tua cagion, de’ ghiacci in ira,
<lb/>Nascer dal sen del Verno il fior si mira.
<lb/>XXXIX
<lb/>Solo per te fù Cerere feconda,
<lb/>E produsse per te regia la Prole.
<lb/>Latona de’ suoi parti andò gioconda
<lb/>Madre a la Luna, e Genitrice al Sole.
<lb/>E Theti ancor sù la cerulea sponda
<lb/>Di figli riempì l’ondosa mole:
<lb/>Regnano i parti tuoi sù l’aureo trono,
<lb/>E i chori de gli Dei sono tuo dono.
<lb/>XXXX
<lb/>Anzi fin partorir fai questi campi,
<lb/>A cui diè nome il tumido Tirreno;
<lb/>E cento Ninfe nascer sù per gli ampi
<lb/>Regni de l’onde sue miri non meno.
<lb/>Hora steril per me tra ghiacchi avvampi,
<lb/>Ed infelice hà la mia Flora il seno;
<lb/>Provo ne’ parti miei fato infecondo,
<lb/>E nome più, che Nume, io sono al Mondo.
<pb n= "15"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Io non offesi già l’altera Giuno,
<lb/>Che contra me, qual’ Hercole, s’adiri:
<lb/>Nè di Cinthia turbai già fonte alcuno,
<lb/>O’ à l’onde, aspersi di veleno, i giri.
<lb/>Nè già macchiar di Pallade inportuno
<lb/>Ardij gli honori, o i tumidi desiri
<lb/>Adeguai di Tifeo, ch’in campo d’ire
<lb/>A le Stelle inalzò monti d’ardire.
<lb/>XXXXII
<lb/>Pur’, ò Venere, amico a te le piante
<lb/>De’ cari mirti io vesto, e ‘l bosco adombro;
<lb/>E più de’ tuoi, che de’ miei beni, amante 
<lb/>Sol di placido sonno il cor t’ingombro;
<lb/>E, quando Sirio in Cielo arde anhelante,
<lb/>L’arsa vampa del Sol da te disgombro,
<lb/>E vane son de gli Amoretti l’ale,
<lb/>Se non hai da’ miei vanni aura vitale.
<lb/>XXXXII
<lb/>Amore istesso, che tra ‘l foco acceso
<lb/>Del zoppo Dio s’avvolge, accorto anch’ ei,
<lb/>Che da le proprie piume è in van difeso,
<lb/>Hà sol per refrigerio i fiati miei.
<lb/>Tal’ hor sù ‘l colle, o sovra il pian disteso,
<lb/>Dopo haver riportato alti trofei,
<lb/>Languido giace, e sol da le mie piume
<lb/>Spera i sonni addolcir lo stanco Nume.
<pb n= "16"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Anzi se dopo il Verno, o Diva altera,
<lb/>Fai ritornar la Primavera a noi,
<lb/>E vaga dopo la stagion più fiera
<lb/>L’aria intorno addolcisci à gli Amor tuoi.
<lb/>Io non men, che mi sia di Primavera,
<lb/>Di te son nuntio, e quanto al mondo poi
<lb/>Mostri di bello, io presagisco à pieno,
<lb/>Di Venere, e d’Amor nuntio sereno.
<lb/>XXXXV
<lb/>E pur, come in me sian prove ribelle,
<lb/>Tu me di prole genitor non fai:
<lb/>Inutili per me giran le Stelle,
<lb/>Ed infecondi il Sol distende i rai:
<lb/>Ma, s’a’ tuoi cenni son mie brame ancelle,
<lb/>Propitia a’ voti miei mostrati homai,
<lb/>E chi fior ti produca, ed aure spiri,
<lb/>Di bei parti d’amor fertil si miri.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Da gli oracoli tuoi, Venere, io pendo,
<lb/>Bramo risposta a’ voti miei seconda;
<lb/>E da le voci tue già spirto prendo,
<lb/>E spero amica del Tirren la sponda.
<lb/>Ch’ altro, che dolci note, io non attendo
<lb/>Da Diva, ch’ è d’ Amor Madre gioconda;
<lb/>Nè speme altra di pregio me si serra,
<lb/>Che fecondar de’ parti miei la terra.
<pb n= "17"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Venere a l’hor con un sorriso disse
<lb/>Volto à lui, ch’attendea gioconde note,
<lb/>Ciò, che il Tonante per tue gioie scrisse
<lb/>Ne’ gran volumi de l’eterne rote;
<lb/>E ciò, che servo di quei cenni fisse
<lb/>Là fra le Stelle il Fato, à me non puote
<lb/>Esser sì noto, ch’ à te chiaro sveli
<lb/>I gran decreti de gli occulti Cieli.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>A me la cura di rotare è dato,
<lb/>E tra Pianeti annoverarmi anch’io.
<lb/>Ma chiare penetrar l’arti del Fato
<lb/>E’ pregio sol del fulminante Dio:
<lb/>Egli, ch’ impera sovra il Ciel Stellato,
<lb/>Move, e frena quei lumi à suo desio;
<lb/>E sono in terra di sua voglia ancelle
<lb/>Sovra gli alti Zaffir l’eterne Stelle.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Così dunque gli Oracoli da lui
<lb/>Attender devi, ò Zeffiro amoroso,
<lb/>Che senza fallo à le proposte altrui
<lb/>Apre da l’alte rote il tempo ascoso.
<lb/>Ch’ io sol di rinfiammar gli spirti tui
<lb/>Vaglio a’ placidi scherzi, e sol gioso
<lb/>Hor tu provi per me con la Consorte
<lb/>Tra gli amplessi il tenor de la tua sorte.
<pb n= "18"/>
<lb/>L
<lb/>Ma non fia vano, che tu volga il piede
<lb/>Ver me, Zeffiro amato, e sciolga il volo:
<lb/>Queste Colombe mie, ch’ entro la sede
<lb/>Amoreggiando temprano il lor duolo;
<lb/>E, dove in aria il mio desir richiede,
<lb/>M’alzan tal’ hora sù le nubi al Polo,
<lb/>Voce, ch’ a gli altrui voti il ver risona,
<lb/>Tra fatidiche Quercie hanno in Dodona.
<lb/>LI
<lb/>Ivi il Tonante da quei boschi scioglie
<lb/>Note, che sono altrui nuntie del vero,
<lb/>E con stupor de le spiranti foglie
<lb/>V’ hà la sicura Fè nido sincero.
<lb/>Ond’ ivi co ‘l tuo vol’ drizza le voglie,
<lb/>Ch’ egli d’ogni decreto è Padre altero;
<lb/>E l’eccelso destin fia chiaro al die
<lb/>Fra le sue Quercie, e le Colombe mie.
<lb/>LII
<lb/>A queste voci entro lo speco liete
<lb/>Le Colombe di Venere gioiro,
<lb/>E impatienti de la loro quiete
<lb/>Concepiron nel sen novo desiro;
<lb/>Nè più de le lor brame hebber per mete
<lb/>O gemito formare, o scior martìro:
<lb/>Ma co’ vezzosi augei garrir festanti,
<lb/>E di gemito in vece hebber’ i canti.
<pb n= "19"/>
<lb/>LIII
<lb/>Quì Mergo non s’udìo snodare accento,
<lb/>E chiamar sovra il lido altre procelle:
<lb/>Nè presaghe di pena, e di tormento,
<lb/>L’Upupe errar sotto notturne stelle:
<lb/>Ma l’Alcioni in note di contento
<lb/>Liete invocar del Sol l’auree facelle;
<lb/>E de’ Cigni felici à l’armonia
<lb/>Sonar la spiaggia, e rimbombar la via.
<lb/>LIV
<lb/>L’Arno con le sue Ninfe in un seguaci
<lb/>Inver l’Etrusco mar volsero l’onde,
<lb/>E scotendo di perle urne vivaci,
<lb/>Fer de’ tesori lor ricche le sponde.
<lb/>Così scotendo l’amorose faci
<lb/>Là, dove ha ‘l Ciprio mar rive feconde,
<lb/>Seguon le Ninfe sù le conche in schiera
<lb/>L’innamorato Dio, ch’ a l’alme impera.
<lb/>LV
<lb/>Onde l’Etrura à la sembianza vaga
<lb/>Di Zeffiro, e di Flora anch’ essa è lieta,
<lb/>Di pace a quei ppiacer’ gode presaga,
<lb/>E ne’ diletti altrui l’animo accheta.
<lb/>E ben’ in Flora, e in Zeffiro s’appaga
<lb/>Il regno d’Arno; poi ch’ in lui, qual meta,
<lb/>(Cinto il crin d’odorifere corone)
<lb/>Zeffir’ con Flora la sua Reggia pone.
<pb n= "20"/>
<lb/>LVI
<lb/>Tra così varij scherzi il Vento amico
<lb/>Inchinando colei, che l’alme frena,
<lb/>Move da l’antro, e sovra il lido aprìco
<lb/>Ver Flora indirizzando, il Ciel serena.
<lb/>Sì, che parte per lui Borea nimico,
<lb/>Ride tra fiori la campagna amena;
<lb/>E ‘l mar con l’aure, e ‘l campo con gli augelli
<lb/>Son di fausto gioir nuntij novelli.
<lb/>Il fine del primo Canto.
<pb n= "21"/>
<lb/>Canto Secondo
<lb/>Argomento
<lb/>Sovra nube con Zeffiro gioconda
<lb/>Flora sen parte. Ad arrestarli intanto
<lb/>Van le Sirene; ma de’ Cigni al canto,
<lb/>Vinte moion’ infide in seno a l’onda.
<lb/>I
<lb/>Flora in herboso pian volta à la cura
<lb/>De begli horti Tirreni, ivi cogliea
<lb/>Con ma vie più di bianche nevi pura
<lb/>L’ardente fior de l’amorosa Dea.
<lb/>E vie più viva la spirante arsura
<lb/>Sotto le mani sue far si vedea;
<lb/>E d’insolito odor l’Aere intorno
<lb/>Diffonder vago, e innamorare il giorno.
<pb n= "22"/>
<lb/>II
<lb/>E non meno de’ gigli anco gli avori
<lb/>Con gli alabastri de la mano prende,
<lb/>E di corona in guisa, onde gli odori
<lb/>Spargansi a l’alto Ciel, torti li rende:
<lb/>Ma de la destra sua prede maggiori
<lb/>Vedeansi le Peonie; onde s’accende
<lb/>Il campo di fin’ ostro e ‘l suo tesoro
<lb/>La ricca piaggia non invidia à l’oro.
<lb/>III
<lb/>Amica la Viola ancor vi coglie,
<lb/>Che de’ pallidi Amandti il volto imìta.
<lb/>Il Tulipan, che con gemmanti spoglie
<lb/>De’ bei tesori le richezze addìta:
<lb/>Il Gelsomin, che de l’argento accoglie
<lb/>Entro gli argenti suoi l’età gradita.
<lb/>E prede son de la fiorita mano
<lb/>Ciò, che ‘l Messico odora, e ‘l Peruano.
<lb/>IV
<lb/>E dicea. Deh che val cangiar di Cielo,
<lb/>E del Metauro haver lasciati i campi,
<lb/>Se splende à me da lo Stellato velo
<lb/>L’infausto Ciel con infecondi lampi?
<lb/>E Sol ne gli horti, sù ‘l materno stelo
<lb/>Son de’ miei vanti honor superbi, ed ampi
<lb/>Mirar con vane pompe dilettose
<lb/>Nascer’ i gigli, e germogliar le rose?
<pb n= "23"/>
<lb/>V
<lb/>Ma perche sono vagamente al mondo 
<lb/>I parti miei di vive gemme ornati,
<lb/>E mentre il Cielo folgora infecondo,
<lb/>D’odorate ricchezze ingemmo i prati,
<lb/>E rendo a l’Alba, ed a gli Dei fecondo
<lb/>L’horto immortal de’ regni bei stellati,
<lb/>Se prego unqua di merto al Cielo ascese,
<lb/>Io spero Cielo a’ voti miei cortese.
<lb/>VI
<lb/>Quanto l’alato Zeffiro se n’ giunge
<lb/>A lei messaggio de la Dea d’Amorel
<lb/>E come alto desire il cor gli punge,
<lb/>Sì ratto à lei spiegò gli accenti fuore.
<lb/>E disse. Ogni aspro duol da noi sia lunge,
<lb/>Poich’ è lieto piacer scorta a buon cuore.
<lb/>Vidi l’antro di Venere; e da lei
<lb/>Hebbi saggia risposta a’ desir miei.
<lb/>VII
<lb/>Ella, ch’è figlia del sovran Tonante,
<lb/>A cui son chiari i più riposti arcani,
<lb/>Ama, che sol dal Nume fulminante
<lb/>La fé s’attenda de’ destin sovrani;
<lb/>Onde per suo consiglio inver Levante
<lb/>Forza è, ch’ i passi indirizziam lontani;
<lb/>Ed amici in Dodona a’ nostri affetti
<lb/>Tra Quercie, e tra Colombe udiamo i detti.
<pb n= "24"/>
<lb/>VIII
<lb/>La bella Citherea propitio affetto
<lb/>Promesso a’ nostri voti ella hà clemente.
<lb/>Onde in noi può di gioia empirsi il petto,
<lb/>E l’alma tranquillarsi in noi ridente.
<lb/>Ch’ ella di Giove è figlia, ed à l’aspetto
<lb/>Di lei se n’ fugge ogni pensier dolente.
<lb/>Ove sien giunti in un Venere, e Giove
<lb/>Gioia si sparge, e contentezza piove,
<lb/>IX
<lb/>Di Dodona le Quercie a te fian care,
<lb/>Se spesso in sù ‘l Metauro ombra ti furo.
<lb/>Al suono de la Dea placossi il Mare,
<lb/>Fiorì la Terra, ed hor’ il Cielo è puro.
<lb/>Ciò, ch’ a le luci di presagio appare
<lb/>E’ nostro invito; e già nel cor figuro
<lb/>Udir tal suono, ch’ in risposte liete
<lb/>I sembianti tranquilli, e l’alme acchete.
<lb/>X
<lb/>Con me, Flora, convienti a la gran via
<lb/>Prepararti bramosa, e sciorre i voti,
<lb/>Che deve a l’alto Nume anima pia;
<lb/>E sacrare al gran Padre i cor devoti:
<lb/>Fra Toschi più dimora hor non si fia,
<lb/>Drizziamo in altri lidi à noi remoti.
<lb/>Tra Quercie care, e tra Colombi amati
<lb/>Giove, e Venere amici habbin’ i fati.
<pb n= "25"/>
<lb/>XI
<lb/>Al nominar de le sue Quercie Flora,
<lb/>Ov’ ella à l’ombra riposar si suole,
<lb/>Gli spiriti rinfranca, e ‘l sen ristora,
<lb/>Nè brame nel cor lieto altre più vuole.
<lb/>Sdegna ne’ campi suoi far più dimora,
<lb/>Fatta antiosa di novella Prole;
<lb/>E tra le Quercie di Dodona altera
<lb/>Facile a’ voti suoi Giove ne spera.
<lb/>XII
<lb/>Zeffiro al bel piacer de l’alma Dea,
<lb/>Che già si scorge al gran viaggio accinta,
<lb/>Soave pace in se d’amore havea,
<lb/>E d’alte gioie la sembianza tinta.
<lb/>Con riflessi di sguardi si scorgea
<lb/>L’allegrezza fra lor starsi indistinta.
<lb/>L’uno ne l’altra scintillava, e fuori
<lb/>Non meno dei desiri ardean gli amori.
<lb/>XIII
<lb/>E già dal mare se n’ tornava a noi
<lb/>Nuntia del Sol la rugiadosa Aurora,
<lb/>E di se colorando i prati Eoi,
<lb/>Rassomigliava in Ciel novella Flora.
<lb/>Ond’ à lo scintillar de’ lampi suoi
<lb/>Quà il Rio s’imperla, e là ‘l Mone s’indora;
<lb/>E ciò, che ‘l Mondo in se chiuder si mira,
<lb/>Gioia nudre, ardor move, e vita spira.
<pb n= "26"/>
<lb/>XIV
<lb/>Oltre l’usato, sù nel Ciel sereno
<lb/>Giove stendeva il manto suo lucente;
<lb/>Euro non si scotea, ch’ a l’aria il seno
<lb/>Vaglia con l’ale sue fender nocente;
<lb/>Taccion le frondi dentro il bosco ameno,
<lb/>E mormorìo soave ha ‘l Rio corrente:
<lb/>Di vivaci rubini il Dì scintilla,
<lb/>E Giuno senza nubi il Ciel tranquilla.
<lb/>XV
<lb/>Del Tosco regno il sen varcano i Numi,
<lb/>Hor’ i colli passando, ed hor’ i piani;
<lb/>Si coronan di Gigli intorno i Dumi,
<lb/>E riveston le Rose ostri sovrani.
<lb/>Perle da l’urne lor versan’ i Fiumi,
<lb/>E modi v’ hà la Gioia alteri, e strani:
<lb/>E le Città, dove i lor piè drizzaro,
<lb/>D’oro, e di gemme i Regij sogli ornaro.
<lb/>XVI
<lb/>Sì nel varcar del Nume trionfante,
<lb/>Che de le viti hà dilettevol cura,
<lb/>Gioir colà nel florido Levante
<lb/>Si vide l’odorifera pianura:
<lb/>Di novelle vaghezze il suo sembiante
<lb/>Adornò preziosa la Natura;
<lb/>E per far ricca mostra in gemme espresso
<lb/>Tutti i tesor vi sparse il Cielo istesso.
<pb n= "27"/>
<lb/>XVII
<lb/>Riconoscon gli Amanti in più di un lato
<lb/>L’Arno, che per quei campi s’attraversa,
<lb/>Ov’ Era, ed Elfa corre; e ‘n più d’un prato
<lb/>Arbia il tesor de le sue linfe versa;
<lb/>E quanto bagna à breve tratto nato
<lb/>L’Ombrone, che la via nel mar conversa,
<lb/>(Abbandonando il letto suo nativo)
<lb/>Del corso in breve, de la vita è privo.
<lb/>XVIII
<lb/>Giungono al fin, dove il Tirreno abonda
<lb/>D’argentee spume, e d’humidi Zaffiri;
<lb/>Ed havvi porto, ch’ in ricurva sponda
<lb/>Imprigiona de l’acque i vasti giri.
<lb/>Placida starsi, e senze crespe l’onda
<lb/>In seno tranquillissimo vi miri;
<lb/>E l’ancore riposte, e avvolto il lino
<lb/>Non aleggiano i remi, e posa il pino.
<lb/>XIX
<lb/>Quivi Zeffiro, e Flora il piè ritenne,
<lb/>E frenò ‘l tratto de la lunga via.
<lb/>Raccolse in se le volatrici penne,
<lb/>E pose in opra ciò, ch’ il Ciel desia.
<lb/>Da le miniere più pregiate ottenne,
<lb/>Ove stassi l’argento, l’or vi sia,
<lb/>Purissime le nebbie; e in un da’ prati
<lb/>Trasse vapor di nuvoli odorati.
<pb n= "28"/>
<lb/>XX
<lb/>Anco da’ fiori più pregiati ei trasse
<lb/>Sottilissimi humor, perche più lieve
<lb/>La pretiosa nuvola formasse,
<lb/>Onde gir sovra l’aria à volo deve.
<lb/>La nube à quei vapor, lucida fasse,
<lb/>E nel sen puro il guardo altrui riceve,
<lb/>E par’ aria, ed è nube; ed è si mista,
<lb/>Ch’ in un vi si confonde anco la vista.
<lb/>XXI
<lb/>Dal seno spande chiari lampi intorno,
<lb/>E par, che lo splendor’ ivi s’annidi:
<lb/>Al balenare di quel raggio adorno
<lb/>Vaghi scintillan ripercossi i lidil
<lb/>E sembrano, ch’ il Sol da quel soggiorno
<lb/>A noi rinato il dì novello guidi;
<lb/>Se non, ch’aure spargendo d’odor care,
<lb/>Può la nube del Sole anco avanzare.
<lb/>XXII
<lb/>Del Porto à vista, che sù ‘l lido è posto,
<lb/>Poggian sovra la nube i Numi amanti,
<lb/>Erran con plauso di chi mira; e tosto
<lb/>S’erge la nube a l’altrui luce inanti.
<lb/>Ma pur non cela il suo tesor nascosto,
<lb/>C’ hà di sembianza luminosa i vanti.
<lb/>E la sede, ch’ a lor ne l’aria porge,
<lb/>Tanto più chiara appar, quanto più sorge.
<pb n= "29"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Se n’ varcan lieti; e veggion sovra l’onda
<lb/>Là scogli contra il Cielo armar la fronte,
<lb/>E quà vie più d’ un’ Isola feconda
<lb/>Verdeggiante sù ‘l dorso haver’ un monte.
<lb/>Co’l pondo ivi Città gravar la sponda,
<lb/>Quivi sgorgare in mar vie più d’ un fonte;
<lb/>E con ondosi, rapidi volumi
<lb/>Varij in sen del Tirren correr’ i Fiumi.
<lb/>XXIV
<lb/>Passan sù l’aria il mar’ Etrusco à volo,
<lb/>E miran poi, dove il gran Latio impera,
<lb/>E rinchiude Cittadi in ampio soulo,
<lb/>Che di gran Reggia hanno sembianza altera.
<lb/>Con l’ampia mole lor s’ergono al Polo,
<lb/>E con lor’ ombre adombran l’alta sfera,
<lb/>E non men, che Città ne’ campi sui,
<lb/>Rassembrano Provincie a gli occhi altrui.
<lb/>XXV
<lb/>E dicevan gli Amanti. A questa parte
<lb/>Quanti, deh quanti popoli rivolti
<lb/>Vedransi paventar l’armi di Marte,
<lb/>E in lacci andran di servitude avvolti.
<lb/>Gli habiti augusti lor posti in disparte,
<lb/>Ed à la libertà fin’ i Re tolti,
<lb/>Dal Latio astrtti in sanguinosa guerra
<lb/>Riveriran la Reggia de la Terra.
<pb n= "30"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Tributo il Mondo fia del chiaro impero;
<lb/>Servo il Partho fra nodi andrà non meno;
<lb/>Incatenato fia l’Arabo arciero,
<lb/>E ‘l carro seguirà vinto l’Armeno:
<lb/>Gli Afri in se scossi dal lor fasto altero,
<lb/>Del giogo soffriranno il grave freno;
<lb/>E l’Egitto obliando opre, e costumi,
<lb/>Nel Latio inchinerà più degni Numi.
<lb/>XXVII
<lb/>Anco il Britanno indomito, e feroce
<lb/>Accrescer deve il numero a’ trofei;
<lb/>Il Batavo, ch’ in guerra hà spirto atroce,
<lb/>Adorerà l’Imperio de gli Dei.
<lb/>Verran del Tebro à l’honorata foce
<lb/>Gli habitanti de’ gelidi Rifei.
<lb/>E tra ‘l rigore placidi, e graditi
<lb/>Dal Latio apprenderà la Scithia i riti.
<lb/>XXVIII
<lb/>Fin’ i mari deposti i loro orgogli,
<lb/>E raffrenati i flutti, e gli odij loro;
<lb/>Per li trofei del Tebro i duri scogli
<lb/>Ravvolgeran di trionfante alloro:
<lb/>Il mar’ Egeo da’ suoi cerulei sogli
<lb/>E ‘l Caspio manderà servil tesoro;
<lb/>E di Cipro la sponda; e l’Oceano
<lb/>Sarà trofeo del vincitor Romano.
<pb n= "31"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Vedeansi in tanto sù per l’onde amare
<lb/>Solcare i flutti veleggianti i pini;
<lb/>E, quasi ombrando il Sol, nel vasto mare
<lb/>Spandersi à l’aura numerosi lini,
<lb/>Sì che liete in mirar l’Anime care
<lb/>Predicevano à se dolci i destini;
<lb/>E ne la nube con gentil maniere
<lb/>Colmavano il lor sen d’alto piacere.
<lb/>XXX
<lb/>Scogevan poscia, ove del Sol la Maga
<lb/>Prole in belve cangiava i corpi humani;
<lb/>E d’offuscar la ragion nostra vaga
<lb/>Godea Mostri mirar sù ‘l lido insani.
<lb/>Ma, perche il Ciel de la virtù s’appaga,
<lb/>Fur contra Ulisse gli artificij vani;
<lb/>Ed al canto per lui le voci sparte
<lb/>Fù vil di Circe incantatrice l’arte.
<lb/>XXXI
<lb/>Vider poi, dove Enea sopra pendic
<lb/>D’alte rupi honorò di nobil tomba
<lb/>La gravosa d’età cara Nudrice,
<lb/>Sì che la fama ancor chiara rimbomba.
<lb/>E ‘l luogo rimirar, per cui felice
<lb/>Di Virgilio rammentasi la tromba,
<lb/>Mentre chiaro à noi fe di Palinuro
<lb/>Al suono de la Fama il fato oscuro.
<pb n= "32"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Indi si scorge, ove in gran tomba giace
<lb/>Di Partenope bella il corpo algente,
<lb/>Ed ogni lingua sol per lei loquace
<lb/>Nel sen de l’onde rimbombar si sente:
<lb/>Il mar sonante, che per lei non tace,
<lb/>Hà ne le lodi sue flutto eloquente;
<lb/>E da quell’ urna escon del giorno a’ regni
<lb/>Mille Fenici d’immortali ingegni.
<lb/>XXXIII
<lb/>Giungono intanto, dove in secche arene
<lb/>Di beltà micidiale horridi mostri,
<lb/>Albergano vaghissime Sirene,
<lb/>Piacere infausto di quei salsi Chiostri.
<lb/>Per far difesa da nocenti pene,
<lb/>Non fia chi contra lor saldo si mostri,
<lb/>Che fin ne’ vezzi han flebili le sorti,
<lb/>E vincon, co’ lor canti anco i cor forti.
<lb/>XXXIV
<lb/>Di fetide ossa è ricoperto il lido,
<lb/>E per mille cadaveri è nocente,
<lb/>Ne le vaghezze acerbamente infido,
<lb/>Ove sin l’herba giacesi languente:
<lb/>Più, che ne l’Orco, alberga in questo nido
<lb/>La Parca, horror del Tartaro cocente;
<lb/>E ‘l Fato con la Morte ivi a tutt’ hore
<lb/>Adopra l’ira, e essercita il furore.
<pb n= "33"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Ergono le Sirene in alto i guardi,
<lb/>E mirano la nube errar volante;
<lb/>Ond’una con accenti a l’hor men tardi 
<lb/>Si reca harpa sonora al petto inante,
<lb/>E saettando, quai veloci dardi,
<lb/>Note, che di piacer fin l’aria errante
<lb/>A quel suono arrestaro; e i proprij venti
<lb/>Languiro imprigionati à quelli accenti.
<lb/>XXXVI
<lb/>Ove, Zeffiro, il volo amico stendi,
<lb/>Ove, Flora, t’aggiri, alma vezzosa?
<lb/>Sù l’aria variabile à che prendi
<lb/>Strada, ò leggiadra Coppia, altrui dubbiosa?
<lb/>Ah più facil ti fia, se ‘l vero intendi,
<lb/>Dimora trarre in sù ‘l terren gioiosa.
<lb/>E ‘n letto d’herbe tra lo scherzo, e ‘l gioco
<lb/>Temprar del seno inamorato il foco.
<lb/>XXXVII
<lb/>E chi non fia, ch’ à musica dolcezza
<lb/>Non ami essercitar gli atti d’amore?
<lb/>E, s’arde il core a la gentil bellezza,
<lb/>Non gli sien refrigerio aure canore?
<lb/>Sù ‘l campo con soave placidezza
<lb/>Scherzano l’aure, ed amoreggia il fiore;
<lb/>Mà tra concenti di ruscel sonoro
<lb/>Han le lor contentezze, e gli amor loro.
<pb n= "34"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Non pria ritorna Primavera à noi,
<lb/>E coloriti ne ridona i prati;
<lb/>E, vezzeggiando con gli amori suoi,
<lb/>I poggi rende di sue gemme ornati,
<lb/>Se tu, vago Usigniol, co’ canti tuoi
<lb/>Non habbia i regni del seren purgati,
<lb/>E teco Progne dolcemente snodi
<lb/>Musice tempre, e dilettosi modi.
<lb/>XXXIX
<lb/>Venere presso il mare hà sede eletta,
<lb/>E de l’impero suo stende il confine;
<lb/>Perche, se ‘l Figlio à dolce ardor l’alletta,
<lb/>E le spira d’amor vampe divine,
<lb/>Al mormorio de’ mari si diletta
<lb/>De le sue cure rintuzzar le spine,
<lb/>Spiriti nudre d’ardor vago accensi
<lb/>E desta al suon soavemente i sensi.
<lb/>XXXX
<lb/>Anzi Giove, ch’il tutto in Cielo frena,
<lb/>Se con Giuno tal’ hor dimorar suole,
<lb/>E ne la region di Stelle amena
<lb/>Essercitar d’amor le gioie vuole;
<lb/>Non meno tra diletti alma hà serena,
<lb/>Ch’ in udir l’armonia de l’alta mole;
<lb/>Gode, in Ciel, di Giunon l’amato ardore,
<lb/>E l’armonia de’ Cieli, è suon d’Amore.
<pb n= "35"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Sì dicea la Sirena, e già già Flora
<lb/>A quegli accenti intenerir si vede,
<lb/>E, in rai d’amore scintillando fuora,
<lb/>Già già calava da l’aerea sede.
<lb/>Se non ch’ in tanto con piacevol’ ora
<lb/>I campi del seren Zeffiro fiede;
<lb/>Dibatte l’ale, che di rose pinge,
<lb/>E l’aria de’ suoi fiati intorno cinge.
<lb/>XXXXII
<lb/>Soavemente spandesi gradito
<lb/>L’alto susurro de l’amabil Vento;
<lb/>E come entro giardin di fior vestito
<lb/>Tacito l’odor gira in un momento;
<lb/>Così lo spirto suo sù ‘l mar, sù ‘l lito
<lb/>Erra tacitamente; e per contento
<lb/>A lo spirar di Zeffiro si mira,
<lb/>Ch’ ivi di Cigni stuol canoro gira.
<lb/>XXXXIII
<lb/>Quanti il Caistro suol da’ lidi suoi
<lb/>Esporre à l’aure placide d’Aprile,
<lb/>E quanti d’Asia la palude à noi
<lb/>Ne diè di vago armonioso stile;
<lb/>Quanti, o Meandro, ne’ gran giri tuoi
<lb/>Dolce n’alletti, e non ti prendi à vile
<lb/>Tardar’ i flutti, per udire il suono;
<lb/>Da Zeffiro quì tratti à gara sono.
<pb n= "36"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Snodan’ al suon di Zeffiro festanti
<lb/>I Cigni armoniosi accenti lieti,
<lb/>Sì che gentil ne’ regni suoi spumanti
<lb/>A sì dolce armonia temprasi Theti:
<lb/>Maggior non ohebbe del sereno i vanti
<lb/>L’Aria nel sen de’ campi suoi quieti;
<lb/>E l’Aura a’ Cigni dilettosi intenta
<lb/>Rai di gioia dal volto anch’essa avventa.
<lb/>XXXXV
<lb/>De’ Cigni a l’armonia l’altro, ch’ in Cielo
<lb/>Splende ne’ campi de l’eterne Stelle,
<lb/>Odesi a gara sù ‘l gemmato velo
<lb/>Formar d’alta armonia tempre novelle.
<lb/>Sfavillava di gioia il Dio di Delo,
<lb/>E sembianze mostrava altrui più belle;
<lb/>E con unite melodie fra tanto
<lb/>Eran la Terra, e ‘l Cielo emuli al canto.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Le Sirene à quel suon restan confuse,
<lb/>E attonite di lor taccion dolenti,
<lb/>Ch’ i Cigni, e ‘l Ciel le più canore muse
<lb/>Vincer potean di tempre, e di concenti.
<lb/>Nè qual’hor’ entro il suol Giove rinchiuse
<lb/>I Giganti, Amor diè si lieti accenti;
<lb/>O’ Venere a’ trofei del forte Enea,
<lb/>Come Natura al suon lieta godea.
<pb n= "37"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Disperse l’Empie i lor canori legni
<lb/>Franser ne’ sassi de l’incolta sponda;
<lb/>Di Zeffiro, e di Flora i vanti degni
<lb/>Detestando s’immersero ne l’onda;
<lb/>E come il fallo la vergogna insegni,
<lb/>Abborriscon del dì l’aura gioconda;
<lb/>Giacquero in mare, e de’ lor vani orgogli
<lb/>Furon teatro, e spettator’ gli scogli.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Cadeste, o Fere, che tra noi l’imago
<lb/>De la beltade rassembrar potete,
<lb/>Poiche, qual voi, l’aspetto anch’ essa hà vago,
<lb/>Ma mostro, è formidabile di Lete.
<lb/>Il dolce è de l’amaro in voi presago,
<lb/>La Vita somigliante, e Morte sete;
<lb/>E non men la Beltà gioia è mentita,
<lb/>E horror di morte hà nel fiorir di vita.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Ne l’affondar de le Sirene infeste
<lb/>Sì la sponda del Mar da’ flutti è scossa,
<lb/>Che per timore in quelle parti, e in queste
<lb/>De’ Morti s’agitar pallide l’ossa:
<lb/>L’arene sotto il pondo lor funeste
<lb/>Tumultuaro in aria; e la percossa
<lb/>Rassembrò terremoto a l’ hor, ch’ il seno
<lb/>L’imprigionato Cauro apre al terreno.
<pb n= "38"/>
<lb/>L
<lb/>Le serpi, ch’ ivi s’avvolgevan voraci
<lb/>Di sugger de’ cadaveri hor’ il sangue,
<lb/>Ed hora le midolla, a l’hor fugaci
<lb/>S’appiattano; e la fame in loro langue:
<lb/>Altri mostri frà lor non men rapaci
<lb/>Sbigottiti s’inselvano; ed essangue
<lb/>Ivi mirossi la sembianza pura
<lb/>In aspetto d’horror cangiar Natura.
<lb/>LI
<lb/>Ma la Nube, ch’ in alto errar si mira,
<lb/>Al dipartir di lor più chiara splende;
<lb/>Tal, dove di caligini s’aggira
<lb/>Globo, ch’ oscuro al Cielo il volto rende;
<lb/>Se ne’ campi de l’aria il vento spira,
<lb/>E l’ale infaticabili vi stende,
<lb/>Puro il dì torna; e sù l’eccelsa mole
<lb/>Di rai più fini s’incorona il Sole.
<lb/>LII
<lb/>Flora intanto con Zeffiro scherzando
<lb/>Dal periglio se n’ gia salva, e festante;
<lb/>Ogni cura più grave hà posto in bando,
<lb/>E sol de’ suoi piacer pinto hà ‘l sembiante.
<lb/>Nè men Zeffiro anch’ ei l’aria solcando,
<lb/>Se n’ gia gradito, e baldanzoso amante.
<lb/>E d’amore avvempando, e di gioire
<lb/>De le Sirene deridea l’ardire.
<pb n= "39"/>
<lb/>LIII
<lb/>Vittoriosi raddoppiaro i Cigni
<lb/>A quella gioia i canti lor graditi;;
<lb/>Sprezzando i Fati rigidi, e maligni
<lb/>Fer lieti al suono rimbombare i liti.
<lb/>De le sponde i confin non più sanguigni
<lb/>Serban memoria, che la strage additi;
<lb/>Ma di Zaffiri il mar forme hà più vive,
<lb/>E di fiori per Flora orna le rive.
<lb/>Il fine del secondo Canto.
<pb n= "40"/>
<lb/>Canto Terzo
<lb/>Argomentno.
<lb/>Giungon gli amati, ov’ è Sicilia; e accolti
<lb/>Da la bella Aretusa odon gli amori
<lb/>D’Alfeo seguace; e poi con fausti honori
<lb/>Se n’ parton lieti à la lor via rivolti.
<lb/>I
<lb/>Lieta è de’ vaghi Dei l’interna mente;
<lb/>E ne dà grata mostra, e dolce avviso
<lb/>L’occhio sereno, e ‘l volto risplendente,
<lb/>Il caro sguardo, ed il soave riso.
<lb/>Così del Sole à lo splendor lucente
<lb/>La nube, che spandea torbido il viso,
<lb/>Da se scacciando l’horror tetro, e folto
<lb/>Di contentezza colorisce il volto.
<pb n= "41"/>
<lb/>II
<lb/>Van rimirando da l’aerea sede
<lb/>Scherzar con squamme notator pennuti,
<lb/>E (come del seren la gioia chiede)
<lb/>Forma lubriche danze i popol muti.
<lb/>Fatto messaggio d’amichevol fede,
<lb/>Non hà ‘l placido mar flutti canuti;
<lb/>E senza crespe l’acqua, e senza grido
<lb/>In se se n’ giace, e non si frange al lido.
<lb/>III
<lb/>Miran da’ vari lati in foggie belle
<lb/>Sorger Cittadi con turrite fronti,
<lb/>Ed Isole nel sen de l’onde ancelle
<lb/>Haver vaghe, e dolcissime le fonti;
<lb/>Ed altrove inalzar verso le Stelle
<lb/>Concavi scogli minacciosi monti;
<lb/>E varij fiumi con l’ondose some
<lb/>Perdere in seno al mar l’antico nome.
<lb/>IV
<lb/>Dicevan’. O’ di Giove alta possanza,
<lb/>E di gran Padre incomprensibil forza,
<lb/>Ch’ in tante guise al mar varia sembianza,
<lb/>Ed hora molce l’onde, hor le rinforza.
<lb/>I venti chiama da l’Eolia stanza,
<lb/>Ed hor gl’ impeti accresce, ed hor gli ammorza;
<lb/>E s’ è stabil’ altrove, in seno a’ mari
<lb/>Sempre ne’ proprij errori hà moti vari.
<pb n= "42"/>
<lb/>V
<lb/>Sì, ch’ ivi la Natura hà ‘l sen vivace,
<lb/>E quanto più ne’ scherzi ivi s’aggira,
<lb/>Men’ abbattuta in sen’ a gli ozij giace,
<lb/>E ne le scosse nudrimento spira;
<lb/>Ch’onda si more, che riposa in pace,
<lb/>E sol la sua virtù prende da l’ira;
<lb/>Riposo haver ne’ campi suoi si sdegna,
<lb/>E pur ne’ moti suoi di prole è degna.
<lb/>VI
<lb/>Non v’è popolo in terra sì frequente,
<lb/>O volgo l’Aria crea si numeroso,
<lb/>Come feconda è l’acqua, e ‘l Mar fremente
<lb/>Empie di pesci il regno procelloso;
<lb/>Non v’è lido, ò v’è scoglio, ove sovente
<lb/>La prole non germogli; e’l sen spumoso
<lb/>Non men di pesci fertile, che d’onde,
<lb/>Esserciti animati hà tra le sponde.
<lb/>VII
<lb/>Chi puote numerare de l’Egeo
<lb/>Gli squammosi drappelli, e quanti in seno
<lb/>N’ hà l’Ocean’ co’ flutti horridi, e reo,
<lb/>E quai nudre l’amabile Tirreno.
<lb/>Sà, quante fiamme hà ‘l foco, e ‘l Pireneo
<lb/>Hà foglie ne’ suoi boschi; e noto à pieno
<lb/>Gl’ è de l’arene il numero infinito
<lb/>In mal feconda piaggia, ò in secco lito.
<pb n= "43"/>
<lb/>VIII
<lb/>Nudre il Cavallo, ed il Leon la Terra,
<lb/>Ed è de’ parti suoi Madre feconda,
<lb/>Ed i Cavalli, ed i Leon riserra
<lb/>Non meno il mar ne la sua fertil sponda,
<lb/>La Rondine ne l’aria, e ‘l Turbin v’erra,
<lb/>E ‘l Turbine, e la Rondine anco hà l’onda;
<lb/>E, se nel Cielo son le Stelle, in mare
<lb/>Anco la Stella natatrice appare.
<lb/>IX
<lb/>Già lungo tratto d’aria havea varcato
<lb/>L’un Nume, e l’altro sù la nube amica,
<lb/>Godean del loro amore otio beato,
<lb/>E sprezzavan di Sorte aura nemica;
<lb/>E contra l’odio perfido del Fato
<lb/>Ratti solcavan l’aria, ove fatica
<lb/>Il mar de la Trinacria in stretto seno
<lb/>A dilatar de le sue furie il freno.
<lb/>X
<lb/>De l’Isola Trinacria in sù la spiaggia,
<lb/>Scorgon non lunge dilettevol loco,
<lb/>Ove scherza non grave, e non selvaggia
<lb/>Aura, che d’ivi errar prendesi à gioco.
<lb/>Il Sol la terra vagamente irraggia,
<lb/>L’herba hà vita ridente, e non v’è roco
<lb/>Ne l’onda il mormorio, ma dolce suona,
<lb/>E sol d’amori il flutto suo ragiona.
<pb n= "44"/>
<lb/>XI
<lb/>Vedeasi il Prato di leggiadri fiori
<lb/>Vestir’ il seno, e tempestare il manto;
<lb/>E con nuvole fertili d’odori
<lb/>In se de la Sabea portare il vanto.
<lb/>Mille s’odon con numeri sonori
<lb/>Scioglier’ augelli dilettoso canto;
<lb/>E ciò, che sparse la Natura altrove,
<lb/>Ivi unite di pregi hà le sue prove.
<lb/>XII
<lb/>Da quell’ inviti persuaso il Nume
<lb/>De gli amorosi fiati, e de’ fioretti,
<lb/>Arresta in aria l’odorate piume,
<lb/>E à vista sì gentil cangia gli affetti.
<lb/>Ivi drizzano il volo, ove da brume,
<lb/>O da’ rai, che ne’ campi il Sol saetti,
<lb/>L’ameno loco non è punto scosso.
<lb/>Ma d’herbe hà ‘l seno, ed hà di fiori il dosso.
<lb/>XIII
<lb/>Cala la Nube, e sù la terra posa
<lb/>La coppia felicissima d’amore;
<lb/>Stiman gli Amanti, ch’ in quel piano ascosa
<lb/>Vi sia la gioia d’ogni humano core;
<lb/>E che l’acqua di perle pretiosa,
<lb/>Che ‘l campo irriga con lucente humore,
<lb/>Quasi in superbo cristallino velo
<lb/>Accolga vaghe Deità del Cielo.
<pb n= "45"/>
<lb/>XIV
<lb/>Quand’ ecco dal bell’antro esce a la luce
<lb/>Ninfa, che di vaghezze hà vanto altero,
<lb/>Aretusa si noma, in cui riluce
<lb/>Lo splendor tutto de l’alato Arciero;
<lb/>E ciò, che di beltà Venere adduce,
<lb/>Ella raccoglie, ed hà de’ cor l’impero.
<lb/>Sì, ch’ ò doppia Diana, ò pur sol’ una
<lb/>Maggiore di Diana il campo aduna.
<lb/>XV
<lb/>Hà d’oro il crine, che sù ‘l capo splende,
<lb/>E sventolar sù gli homeri si vede;
<lb/>Di vivace Zaffir l’occhio s’accende,
<lb/>Ed a la fronte l’alabastro cede.
<lb/>Misti à rose la gota i gigli rende,
<lb/>Il labro i pregi de’ rubini eccede;
<lb/>E sono in guise nobili à vederle
<lb/>I puri denti orientali perle.
<lb/>XVI
<lb/>Succinta veste al fianco ella raccoglie,
<lb/>Mostra dal mezo in giù nude le braccia,
<lb/>Hà di perle il suo sen gravi le spoglie,
<lb/>E nodo di diamanti il petto allaccia.
<lb/>Di ceruleo color velo discioglie,
<lb/>Che dal capo l’ondeggia; e puote in traccia
<lb/>(Così leggiero hà ‘l piè) vincere il vento,
<lb/>E sono i suoi cothurni opre d’argento.
<pb n= "46"/>
<lb/>XVII
<lb/>A l’apparir di Zeffiro, e di Flora
<lb/>Aretusa, che Ninfa era del fonte,
<lb/>Di vaghe gioie il volto suo colora,
<lb/>E mostra di seren pinta la fronte.
<lb/>Spirar contento i Dei dal ciglio fuora,
<lb/>E s’appressaro al dilettoso monte;
<lb/>Fassi a gli sguardi lor l’acqua lucente,
<lb/>E mormorio d’amor formar si sente.
<lb/>XVIII
<lb/>Dicono i Numi. Sotto il raggio estivo
<lb/>Deh concedine, ò bella, albergo amato,
<lb/>Nè di raccorre i Numi à te sia schivo,
<lb/>A cui le Stelle dier tranquillo fato.
<lb/>Le noie de la via temprare al rivo,
<lb/>Che bagna questo verdeggiante prato,
<lb/>Lasciane, ò Ninfa; così verde il suolo
<lb/>Sempre à te dia l’innamorato Polo.
<lb/>XIX
<lb/>Disse Aretusa a l’ hor. La Fonte mia
<lb/>Albergo dar non può già mai più degno,
<lb/>Mentre accoglie chi fiori al prato dia,
<lb/>E sereni co ‘l vol l’aereo regno.
<lb/>S’eccelso honore in terra si desia,
<lb/>Hor sia il mio tetto a’ vostri passi il segno.
<lb/>Amo tra Dei passar serene l’hore,
<lb/>E frà scherzi goder gli otij d’Amore.
<pb n= "47"/>
<lb/>XX
<lb/>Ma Flora dice à lei. Come amoroso
<lb/>Ver noi quì puote, o Ninga, esser’ il petto;
<lb/>Se sola vivi in questo prato herboso,
<lb/>Nè compagnia ti desta à dolce affetto.
<lb/>Mal s’aita pensiero dilettoso,
<lb/>Se non li corrisponde amico ogetto;
<lb/>Ch’ Amor’ altro non è, ch’ innesto vago,
<lb/>Onde di viver l’un ne l’altro è pago.
<lb/>XXI
<lb/>Dicean’. E già ne l’antro erano giunti,
<lb/>Ov’ ha ‘l ricovro suo la bella Diva.
<lb/>V’han conche, e perle i lor tesor congiunti,
<lb/>E vie più d’una gemma ivi appariva.
<lb/>Non hà da l’Arte quì pregi disgiunti
<lb/>Natura; anzi tra lor miste più viva
<lb/>Vi rendon’ ogni forma, ed ogni instinto;
<lb/>Ed è del vero più vivace il finto.
<lb/>XXII
<lb/>Miravansi con ordine partite
<lb/>(Alternando fra lor scherzi, e diletti)
<lb/>Imagini spirar vaghe, e gradite
<lb/>Anhelanti d’amor, gravi d’affetti;
<lb/>Boscaglie intorno di folte ombre ordite
<lb/>Erger’ in sen de’ campi ombrosi tetti;
<lb/>E in mille lati à le fugaci belve
<lb/>Porger ricovro solitarie selve.
<pb n= "48"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Là vedeasi una Lepre, e quivi un cane
<lb/>Correr’ il piano di fiorito prato,
<lb/>E quà fuggendo da scoverte tane
<lb/>Sovra il monte poggiar Cighiale irato.
<lb/>Quivi con voci risonar non vane
<lb/>Stuolo di Cacciator di dardi armato;
<lb/>E quindi fuori di nascosto speco
<lb/>Risonar, rimbombar la valle, e l’Eco.
<lb/>XXIV
<lb/>Altrove sù quei muri in seno a l’onde
<lb/>Vedeasi espressa nobil Natatrice,
<lb/>Ch’ a lo splendor de’ lumi suoi gioconde
<lb/>Fea l’acque, di beltà viva Fenice.
<lb/>Hora da l’alto sen volta a le sponde
<lb/>Scorgeasi il nuoto indirizzar felice,
<lb/>E Nume amante d’acqua, in preda a’ venti,
<lb/>A lei scioglieva innamorati accenti.
<lb/>XXV
<lb/>Il tutto riempia de le sue note,
<lb/>E inteneriva a’ suoi lamenti i sassi.
<lb/>Ma l’Amante doglioso in vani si scote,
<lb/>Ch’ambo in acque rivolgon’ i lor passi.
<lb/>Sciogliesi ogn’ alma in onde; e al guardo ignote
<lb/>Fuggon le fiamme, e ‘l foco occulto stassi.
<lb/>Quand’ ecco i corpi altrove escon erranti;
<lb/>E, benche volti in acque, ardono amanti.
<pb n= "49"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Onde Flora à la Dea rivolta chiede:
<lb/>E quali meraviglie hor quivi impresse
<lb/>Sù i muri veggio? e sovra ogni gran fede
<lb/>Nuove forme à tai corpi il Ciel concesse?
<lb/>Un sospiro dal sen la Ninfa diede,
<lb/>Sì che ‘l dolor nel volto suo si lesse.
<lb/>Indi à narrar l’historia sua si volse,
<lb/>E misto di cordogli il canto sciolse.
<lb/>XXVII
<lb/>Io l’arte già seguij di Cinthia imbelle,
<lb/>E lieve tra le valli, e tra le selve
<lb/>Le fere nel fuggir tracciai più snelle,
<lb/>Nè sdegnai d’incontrar robuste belve.
<lb/>E vincitrice in queste parti, e ‘n quelle
<lb/>Mostro non era, che tra noi s’inselve,
<lb/>Che non cadesse sanguinoso al piano
<lb/>Al fermo saettar de la mia mano.
<lb/>XXVIII
<lb/>À più d’ un crudo Alano il duro morso
<lb/>Io solea sciorre per gli aperti campi,
<lb/>E per me più d’un Veltro al lieve corso
<lb/>Adeguava in fin gl’ impeti de’ lampi.
<lb/>I molossi scorrean de’ monti il dorso,
<lb/>Nè v’era belva, che trovasse scampi;
<lb/>Poi ch’ à l’aperto da’ miei cani spinta
<lb/>Era in un punto sol giunta, ed estinta.
<pb n= "50"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Più d’una volta à Cinthia sù l’altare
<lb/>Hora d’un Cervo sospendea le spoglie,
<lb/>E l’hostie, i simulacri, i tempij, e l’are
<lb/>Incoronai di trionfanti foglie.
<lb/>Ma con sembianze oltre ogni stima rare
<lb/>Io più gradij de l’honestà le voglie;
<lb/>S’ ad altre la beltà diè vanti egregi,
<lb/>Io di pudico sen vantava i pregi.
<lb/>XXX
<lb/>In Achaia, ove nacqui, errar godea,
<lb/>E un dì fuggendo de l’ardente Dio
<lb/>Il caldo raggio, verso un fiume havea
<lb/>Rivolto, per lavarmi, il passo mio.
<lb/>E giuntavi, le membra ivi tergea;
<lb/>Nè d’haver altro speglio hebbi desio,
<lb/>Poich’ in quell’acque compariva à pieno
<lb/>Candido il petto, e alabastrino il seno.
<lb/>XXXI
<lb/>Hor con la dritta man l’onde percoto,
<lb/>Ed hor l’homero manco al lancio hò volto;
<lb/>Quì con ambe le mani il flutto scoto,
<lb/>Là co’l corpo ne l’acque inalzò il volto;
<lb/>Ed hor cangiando gli ordini del nuoto,
<lb/>Ho ‘l petto steso, ed hora il sen raccolto.
<lb/>E, rivolgendo inverso il Cielo il lume,
<lb/>Mi lascio in preda al violento fiume.
<pb n= "51"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Così tal’ hora Salmace si scorse
<lb/>Fender le linfe notatrice snella;
<lb/>Ne l’acque hor s’arrestava, ed hor le corse,
<lb/>E ne’ suoi moti oprava arte novella;
<lb/>Quì si stendea ne l’onde, e là si torse,
<lb/>Hora dal crin, qual matutina Stella,
<lb/>Disciolto in perle ricco humor piovea,
<lb/>Ed hor tra flutti Sol d’Amor parea.
<lb/>XXXIII
<lb/>Quand’ ecco fuor de l’acque il Dio del fiume
<lb/>Venne con mormorio tacito, e roco.
<lb/>Alfeo si noma di quell’ onde il Nume,
<lb/>E vide me, che scorrea l’acque à gioco,
<lb/>Pria s’arresta, e poi fissa in me ‘l suo lume,
<lb/>E ‘n mezzo a l’acque concepisce il foco.
<lb/>Arde, nè de l’ardore intende i modi,
<lb/>Ed occulte d’Amor prova le frodi.
<lb/>XXXIV
<lb/>A tal vista la fuga in ver la sponda
<lb/>Rapidamente sù per l’acque io prendo,
<lb/>Quand’ Egli disse. A che fuggir da l’onda,
<lb/>S’anco tra l’onda del tuo amor m’accendo?
<lb/>Deh, bella, il nuoto arresta; e quì gioconda
<lb/>Habbi la stanza, che d’amarti intendo:
<lb/>Non son Nume di sdegni, e dolci l’acque
<lb/>Mostran, ch’ anco in me dolce il senso nacque.
<pb n= "52"/>
<lb/>XXXV
<lb/>L’amore, e ‘l priego dal mio sen bandij
<lb/>E del seguace Alfeo schivai la traccia;
<lb/>Inver la riva rapida fuggij,
<lb/>Ma già già mi prendea ne le sue braccia,
<lb/>Lieve mi segue; e mille lodi udij,
<lb/>C’ hor del mio sen faceva, hor de la faccia;
<lb/>Hora lodava il piè; ma si dolea,
<lb/>Che cruda ver lui fusse opra di Dea.
<lb/>XXXVI
<lb/>Varco per pruni, e non vi trovo agguato,
<lb/>Che la fuga difenda, e l’honestade:
<lb/>Scioglio pregherai al Cielo, e non m’è dato,
<lb/>Che sien le mie preghiere al Cielo grate.
<lb/>Lacero hò fin’ il petto, e in ogni lato
<lb/>Provo mille nel corpo offese ingrate;
<lb/>E dal piè, ch’ in fuggir stanco già langue,
<lb/>Spando nel campo più d’ un rio di sangue.
<lb/>XXXVII
<lb/>Ma punto dal suo corso Alfeo non manca,
<lb/>Poiche la fuga in me beltade accresce;
<lb/>Che la parte, ch’ in me le membra imbianca,
<lb/>Nel faticar s’accende, e rossor mesce.
<lb/>Onde homai già languia misera, e stanca,
<lb/>E già dal sen lo spirto mio sen’ esce:
<lb/>Quando’ ecco giungo in riva al mar, che fiede
<lb/>Le sponde, ov’ erge Pisa altera sede.
<pb n= "53"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Pisa, da cui la vostra Pisa hà preso
<lb/>Ne’ campi de l’Etruria il nome chiaro,
<lb/>Sì, che per tal membranza hò ‘l seno acceso
<lb/>Per voi d’amore, e ‘l venir vostro hò caro.
<lb/>E chi fra Toschi hà ‘l regno suo disteso,
<lb/>Hò sempre amato. In riva al flutto amaro
<lb/>Poi mi volsi de’ boschi a la gran Dea,
<lb/>E note d’honestà ver lei sciogliea.
<lb/>XXXIX
<lb/>Dissi. Intatto l’honore in me conserva,
<lb/>Salva, chi ‘l suono à te supplice snoda;
<lb/>E scacciar da me lunge alma proterva,
<lb/>Sia de’ gran vanti tuoi primiera loda.
<lb/>Chi Cinthia segue, e l’arti di Minerva
<lb/>Deh non provi per te d’Amor la froda;
<lb/>Perche nuda non hò, donde salvarme,
<lb/>Le difese del Cielo à me sien’ arme.
<lb/>XXXX
<lb/>Sottraggi il corpo del seguace Alfeo,
<lb/>E sien mia libertà pompe d’honore.
<lb/>A questo suon da l’alto Ciel cadeo
<lb/>Nube, c’ hà forma in se d’aspro terrore;
<lb/>Sì ch’ il vedermi l’Amator perdeo,
<lb/>Ed arrestossi con dubbioso core:
<lb/>Cerca, e nulla distingue; e non vi scorge
<lb/>Se non la nube, ch’ atro horror gli porge.
<pb n= "54"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Così da veltro rapido seguita
<lb/>Corre la lepre per l’aperto campo,
<lb/>E per balze, e per monti erra smarrita,
<lb/>E scontra più d’un periglioso inciampo.
<lb/>Sin che tra macchie celasi; e sparita
<lb/>Fugge dal guardo, qual veloce lampo.
<lb/>Stupido è ‘l veltro, e di se dubbio stassi,
<lb/>Cerca chi fugge, e ‘n se ritorce i passi.
<lb/>XXXXII
<lb/>Io dentro quella nube al Ciel le voglie
<lb/>Rivolgo ogn’ hor più fervide, e cocenti,
<lb/>Sì ch’ à quel suon lo spirto mio si scioglie,
<lb/>E stempransi le membra in rio languenti:
<lb/>Indi la nube in aria si raccoglie,
<lb/>E lieve si disperde à par de’ venti.
<lb/>E pur ne l’onde amate ei mi ravvisa,
<lb/>E co’ sospiri in me li sguardi affisa.
<lb/>XXXXIII
<lb/>E tai note distinse. Acqua è ‘l mio foco,
<lb/>E pur’ avampo al fluttuar de l’acque.
<lb/>L’onda gli ardori miei prendesi à gioco,
<lb/>Che la Dea de gli ardori anco in mar nacque.
<lb/>Ah c’ hà l’humor del pianto in me già loco,
<lb/>S’ella volta in humori hor’ hor quì giacque;
<lb/>E mentre il foco mio ne l’onde sdegna,
<lb/>Con le sue stille à lagrimar m’ insegna.
<pb n= "55"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Ma deh, che ‘l foco tra l’humor s’avviva,
<lb/>Che ‘l ferro è tra le Stille anco più ardente.
<lb/>Anzi già l’alma mia d’ardore è priva,
<lb/>Ed hò lo spirto per dolori algente:
<lb/>E à par di questo rivo fuggitiva
<lb/>Stemprasi la mia vita in rio corrente.
<lb/>Vuol ragion, che mi volga in stille anch’io,
<lb/>E sia d’un rivo innamorato un rio.
<lb/>XXXXV
<lb/>A queste note Alfeo stemprasi in onda,
<lb/>E di seguir’ agogna il corso mio.
<lb/>Mà Cinthia con un’ hasta apre la sponda,
<lb/>E mi salva dal perfido desio.
<lb/>Entro in sen de la terra più profonda,
<lb/>Schiva mi celo in sotterraneo rio;
<lb/>E tra l’arene a l’importuno Amante
<lb/>Nascondo con gli amori anco il sembiante.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Vò sotto il mare, e da l’Achivo suolo
<lb/>Timorosa men’ corro ad altra terra,
<lb/>E quì me n’ giungo, e sotto amico Polo
<lb/>Dal mar salvo il mio fonte si disserra.
<lb/>Ma l’altro, che nel sen nudre gran duolo,
<lb/>Anch’ ei per altre vie corre sotterra,
<lb/>E benche volta in acqua ancora m’ ama,
<lb/>E co’l suo mormorio ogn’ hor mi chiama.
<pb n= "56"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Zeffiro, e Flora à queste ardenti note
<lb/>Compativa d’Alfeo gli amori intensi,
<lb/>E l’imagini a l’hora al guardo note
<lb/>Parver sù i muri intenerir’ i sensi.
<lb/>Quand’ ecco dolcemente il suol si scote,
<lb/>Ed ivi il Fiume sorge, in cui sospensi
<lb/>Affisa Flora i lumi; e legge fuori
<lb/>Spiranti in quelle luci anco gli amori.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>A questi amori l’Aure stesse in alto
<lb/>Sospiraron più liete, e più festanti;
<lb/>Che vince Amore ogni più duro smalto,
<lb/>Ed ogni scoglio in mar perde a’ suoi vanti.
<lb/>E’ vano contra Amor forza d’assalto,
<lb/>Ch’ ei può scotere al piano anco i Giganti:
<lb/>Fà gelar la scintilla,  ardere il gelo;
<lb/>Nè son di lui sicuri i Numi in Cielo.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Alfeo, che Flora, e Zeffiro in quel tetto
<lb/>Raccolti mira, e la cagione intende,
<lb/>Ch’ ivi loro sospinge; hà gioia in petto,
<lb/>E piacer doppio à quei sembianti prende.
<lb/>Di contento comun l’antro è ricetto,
<lb/>E misto in ogni lato amor s’accende;
<lb/>E i pesci insieme, e gli augelletti à paro
<lb/>Ordiron danze, e melodie formaro.
<pb n= "57"/>
<lb/>L
<lb/>Così l’antro di Dori a l’acque in riva,
<lb/>O lo speco di Theti in quello, e ‘n questo
<lb/>Lato, per inschivar la noia estiva,
<lb/>Di pietre miniate era contesto:
<lb/>E di fonti, e d’imagini appariva
<lb/>Superbamente altero; e à scherzi desto
<lb/>Quinci l’augello, e quindi il pesce ordìa 
<lb/>Prove di danza, e gare d’armonia.
<lb/>LI
<lb/>Quando’ Alfeo, che predir suole ad altrui
<lb/>Del Ciel le meraviglie altere, e nuove,
<lb/>E disvelare ne gli accenti sui
<lb/>Gli arcani occulti del superno Giove,
<lb/>Disse. Non saran vani i preghi tui,
<lb/>Bella Coppia, à cui il Ciel sue gratie piove:
<lb/>A’ vostri voti ubidienti ancelle
<lb/>Saran nel servo Cielo anco le Stelle.
<lb/>LII
<lb/>Giove, che tra gli Olimpici certami,
<lb/>E tra quelle di Pisa à me ben noto
<lb/>Suole spesso mostrarsi, anco tra rami
<lb/>Di Dodona risponde ad ogni voto;
<lb/>Ed ivi secondar ciò, ch’ altri brami,
<lb/>Determina tal’ hora; in odio à Cloto
<lb/>Vostro Germe immortal da l’alto seggio
<lb/>Degno di sommo honor prometter veggio.
<pb n= "58"/>
<lb/>LIII
<lb/>E, se ben forse contra voi la Sorte
<lb/>Avvenimenti volgerà molesti,
<lb/>E fia, ch’ a danno altrui superbo, e forte
<lb/>D’Etruria le grandezze il Fato infesti;
<lb/>Avverrà, che ‘l Periglio honor v’apporte,
<lb/>Ed il Contrasto a voi le glorie desti.
<lb/>E, come globo dal soverchio pondo,
<lb/>Scosso a le Stelle per voi s’alzi il Mondo.
<lb/>LIV
<lb/>Partiti, o Coppia generosa, e bella,
<lb/>E sù la nube tua vola sublime;
<lb/>Che ‘l Cielo à te con fortunata Stella
<lb/>Del bel parto darà le glorie prime,
<lb/>Così ‘l mio Giove l’immortal favella
<lb/>Da Dodona ti snoda; e da le cime
<lb/>De le sue Quercie a te, Flora vezzosa,
<lb/>Predice d’alti Heroi serie famosa.
<lb/>LV
<lb/>Zeffiro, Flora, ed Aretusa al detto
<lb/>Applauser dolcemente; e ‘l Ciel cortese
<lb/>Mostrò sì vago, e luminoso aspetto,
<lb/>Che sù la nube sua la Coppia ascese.
<lb/>E vaga di felici augurij, il petto
<lb/>A’ novi honori, à nove glorie accese.
<lb/>Sparver’ i Numi; e Alfeo de l’arso core
<lb/>Con Aretusa sua temprò l’ardore.
<lb/>Il fine del Terzo Canto.
<pb n= "59"/>
<lb/>Canto Quarto
<lb/>Argomento
<lb/>Gli Dei van di Corcìra a l’erme spiagge;
<lb/>E perch’ Alcinoo pretiosa mensa
<lb/>A’ Toschi Numi prodigo dispensa,
<lb/>Il Suol da loro amenità ritragge.
<lb/>I
<lb/>Sovra la nube da’ terresti piani
<lb/>Poggian’ i Numi, e con soavi detti
<lb/>D’Aretusa, e d’Alfeo (ne’ regni vani)
<lb/>Van rammentando i dilettosi affetti;
<lb/>Ond’ à quel foco gli Amator’ sovrani
<lb/>Fan di vampa maggior caldi i lor petti.
<lb/>Forman’ in queste note amico accento,
<lb/>E dolce al loro amor mormora il vento.
<pb n= "60"/>
<lb/>II
<lb/>Ben di Vulcano, è Venere consorte,
<lb/>E sol da loro con effetti vari
<lb/>Per nostra cruda, lagrimevol sorte
<lb/>I natali d’Amor sono à noi chiari.
<lb/>Onde languendo ogn’ uno in preda à morte
<lb/>Di gemer più, che di godere, impari;
<lb/>E in ogni tempo l’alma, e in ogni loco
<lb/>O tema l’acqua, o pur paventi il foco.
<lb/>III
<lb/>E ben giunto à Vulcano Amor si vede;
<lb/>Poiche senza sperar tregua, nè pace,
<lb/>Nel seno, ov’ habbia Amor posta la sede,
<lb/>Nudrisce eterna, inestinguibil face:
<lb/>E se di mantenerne altri si crede,
<lb/>Ei di volgerne in cener si compiace.
<lb/>Ch’ ove chiara beltà gli sguardi volve,
<lb/>In fiamma ne converte, e cangia in polve.
<lb/>IV
<lb/>Mentre l’altrui beltà goder n’è dato,
<lb/>E sciogliersi in amabile dolcezza,
<lb/>Quant’ altri gode più l’ogetto amato,
<lb/>Più brama fiamme, e d’arder’ hà vaghezza.
<lb/>Sì che l’ardore da l’ardor rinato
<lb/>Vive ogn’ hora avvampando; e la bellezza
<lb/>Con novel sì, ma dilettevol gioco
<lb/>E’ Fenice d’Amor, ch’ alma hà dal foco.
<pb n= "61"/>
<lb/>V
<lb/>Ma da Venere ancora è nato Amore;
<lb/>E, se Venere nacque in seno a’ flutti,
<lb/>E fù del crudo mar mostro maggiore,
<lb/>Con l’humor suo n’insegna à temer lutti;
<lb/>E così grave duol n’aggiunge al core,
<lb/>Che son gemiti, e lagrime i suoi frutti.
<lb/>E quante fiamme hà ‘l sen, tanti da gli occhi
<lb/>Fia, che nembi di pianti Amore scocchi.
<lb/>VI
<lb/>Hora con sdegni altrui conturba, e parte
<lb/>In mille parti la dolente vita;
<lb/>Sì ch’ abbandona in noi l’alma ogni parte,
<lb/>E fà dal carcer suo cruda partita;
<lb/>Ed hor con lontananza altrui comparte
<lb/>Martir sì grave la beltà gradita,
<lb/>Che da le luci fuor sù l’arso suolo
<lb/>Mille versa l’amante urne di duolo.
<lb/>VII
<lb/>Sì ch’ in foco, ed in lagrime converso
<lb/>Convien, che moia l’Amator fedele;
<lb/>E ne’ propri martiri à se diverso
<lb/>Hora canti disciolga, ed hor querele.
<lb/>Ma provi altri in amore il foco avverso,
<lb/>O in gemiti lo scioglia il duol crudele,
<lb/>A’ noi punto non noce onda, nè foco,
<lb/>La beltà n’ è piacer, l’amore n’ è gioco.
<pb n= "62"/>
<lb/>VIII
<lb/>A queste note si vedean da lunge
<lb/>Sparir de la Trinacria i chiari lidi,
<lb/>E dov’ il mar d’Italia si disgiunge,
<lb/>L’Ionio dilatare i flutti infidi.
<lb/>V’è copia d’acqua; e dove il guardo giunge,
<lb/>Termini non ritrova a l’occhio fidi.
<lb/>Thetide in ampio seno si diffonde,
<lb/>E son confini al guardo i Cieli, e l’onde.
<lb/>IX
<lb/>Così Dedalo à l’hor, ch’ il patrio suolo
<lb/>Abbandonava, sù per l’alta via
<lb/>Industri piume diabttendo à volo,
<lb/>L’aria con l’agitar de’ vanni aprìa:
<lb/>Varcando in alto, sol le vie del Pol,
<lb/>E gl’immensi del mar campi scoprìa:
<lb/>Havea la mente d’alte glorie lieta,
<lb/>E gli spatij del Mondo eran sua meta.
<lb/>X
<lb/>Sovra la Nube pretiosa, e chiara
<lb/>Vanno per l’alto gli amorosi Dei;
<lb/>E vi spiegan di gioia altera, e rara
<lb/>Soavi, e placidissimi trofei.
<lb/>Lascian l’Africa à destra, ove in avara
<lb/>Spiaggia son’ habitanti ingordi, e rei;
<lb/>E volgon di Corcìra inver la riva
<lb/>Il vago Nume, e l’amorosa Diva.
<pb n= "63"/>
<lb/>XI
<lb/>Videro cento sovra i flutti alteri
<lb/>Con temerari, impetuosi orgogli
<lb/>Ver gli Stellanti, sempiterni imperi
<lb/>Erger la fronte formidabil scogli;
<lb/>E non men’ anco horribilmente fieri
<lb/>Mostri inalzarsi da’ cerulei sogli;
<lb/>Ma di quei Numi a’ generosi peti
<lb/>Le minaccie de’ mostri eran diletti.
<lb/>XII
<lb/>Miran’ ancor con generose sponde
<lb/>Grand’ Isole distendersi ne’ mari,
<lb/>E tra l’arene loro anco feconde
<lb/>Popoli accorre industriosi, e vari.
<lb/>Chi di loro offerisce al Dio de l’onde
<lb/>Pomposi sacrifici in sù gli altari;
<lb/>E chi di sacro odor messe Sabea
<lb/>Al gran Tonante adorator spargea.
<lb/>XIII
<lb/>Altri le Rose, e le Colombe offirva
<lb/>A la Dea de le Gratie, e de gli Amori,
<lb/>E di quei flutti procellosi in riva
<lb/>Spargea corone d’odorati fiori:
<lb/>Altri godea la faretrata Diva
<lb/>Lieto inchinar de’ boscherecci horrori;
<lb/>E di cervi, e di damme altere spoglie
<lb/>Dilettoso sospende, e i voti scioglie.
<pb n= "64"/>
<lb/>XIV
<lb/>Ed altri à Marte di destrier veloe,
<lb/>Che ne le guerre trionfante scorse,
<lb/>Trafisse in sù l’altare il sen feroce, 
<lb/>E mite al Dio de l’armi i preghi porse.
<lb/>E v’era, chi di Pallade l’atroce
<lb/>Usbergo riveriva; e chi ritorse
<lb/>Le sue brame in Alcide, e da lui solo
<lb/>L’unica aita richiedea del Polo.
<lb/>XV
<lb/>Varij di varie genti erano i riti,
<lb/>E diversi infra loro i sagrifici;
<lb/>E innumerabil hostie in sù quei liti
<lb/>Cadevano sacrate a’ Numi amici:
<lb/>E con ivi placare gl’ infiniti
<lb/>Perigli hora de’ turbini nemici,
<lb/>Ed hor de’ flutti infesti entro quei mari
<lb/>Fumavan sacri a’ Dei sempre gli altari.
<lb/>XVI
<lb/>Godevan’ à tal vista i Toschi Numi,
<lb/>(Che nel suo vario oprar bella è Natura)
<lb/>E di piacere coloriano i lumi,
<lb/>E l’aria à quel gioir ridea più pura.
<lb/>E cento si vedean, sovra i volumi
<lb/>Per l’onde, correr via poco sicura
<lb/>Alate travi; e di superbi pini
<lb/>Ad oscurare il Sole, ergersi i lini.
<pb n= "65"/>
<lb/>XVII
<lb/>Zeffiro, e Flora per lontan cammino
<lb/>Sovra i campi de l’aria havean varcato
<lb/>Gran tratto de l’Ionio; e del destino
<lb/>L’ordin s’era in gran parte essercitato;
<lb/>Quand’ ecco di Corcìra il suol vicino
<lb/>A loro s’appresenta; e in ampio lato
<lb/>Sù le spumose region marine
<lb/>Distende la vasta Isola il confine.
<lb/>XVIII
<lb/>L’Isola in mar per lungo si distende,
<lb/>E stretto, e angusto il seno suo dimostra,
<lb/>Sì che d’una saetta imagin prende
<lb/>Nel cupo sen de la cerulea chiostra.
<lb/>Ne la parte, ch’inver ponente pende,
<lb/>Feacia fà di se mirabil mostra:
<lb/>Vaghissima Cittade, ove la Reggia
<lb/>D’Alcinoo di bellezza, e d’or lampeggia.
<lb/>XIX
<lb/>Sovra cento colonne ella si vede
<lb/>Inalzar maestoso, augusto tetto;
<lb/>E’ l Portico real de l’ampia sede
<lb/>E’ d’altrettante nicchie altier ricetto:
<lb/>Statue, in cui l’arte se medesma eccede,
<lb/>Vi mostran’ ammirabile l’aspetto:
<lb/>Il marmo hà vita ne’ rigori suoi,
<lb/>E simulacri son d’invitti Heroi.
<pb n= "66"/>
<lb/>XX
<lb/>Per numerosi gradi in alto i passi
<lb/>Stendonsi à rimirar novi stupori,
<lb/>Ove son vaghi, e rilucenti sassi
<lb/>Di doppie logge nobili lavori.
<lb/>Per larga porta in ricca sala vassi.
<lb/>E in camere di gemme adorne, e d’ori;
<lb/>Ove il pennel vivaci forme impresse,
<lb/>E più vero del vivo il finto espresse.
<lb/>XXI
<lb/>E altrove appese in sù le regie mura
<lb/>Vi stan con arti nobili, e novelle
<lb/>D’industre Babilonica cestura
<lb/>Superbe Sete à maraviglia belle,
<lb/>Ove con dota, e maestrevol cura
<lb/>Enea, che d’Ilio schiva le facelle,
<lb/>Era intessuto a l’hor, ch’ egli se n’viene
<lb/>A ricovrar ne le Feacie arene.
<lb/>XXII
<lb/>Ei con Ascanio, e con gli Dei Penati
<lb/>Inver l’Italia aprendosi i sentieri
<lb/>Ad arrecar al Latio i degni Fati,
<lb/>E de la Terra i gloriosi imperi,
<lb/>Quì con Alcinoo a mensa fortunati
<lb/>Trahea dal lungo errar dolci piaceri,
<lb/>E’ l Rege a l’esche per compagni havea 
<lb/>I Dei Penati, e l’immortale Enea.
<pb n= "67"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Sovra gran pietra in altra parte stesa
<lb/>Era la storia, quando il Greco Ulisse
<lb/>La lunga via del suo ritorno presa
<lb/>Vers’ Itaca, quì posa egli prescrisse:
<lb/>E benche l’alma fusse à glorie intesa
<lb/>Per terminar de’ Proci suoi le risse,
<lb/>Pur quì tra cibi, e tra diletti amici
<lb/>Con Alcinoo trahea giorni felici.
<lb/>XXIV
<lb/>E’, benche in marmo ivi apparisse scolto,
<lb/>Il Greco dicitore, il Sasso algente
<lb/>Il suono di facondia ivi rivolto
<lb/>Tra le gelide vene era eloquente.
<lb/>Anzi vivea, e con spirante volto
<lb/>Movesi il Greco, e favellar si sente;
<lb/>E l’ire ridiria con suon loquace,
<lb/>Ma cauto a l’ire per prudenza tace.
<lb/>XXV
<lb/>Così l’hospite Alcinoo in quel suo regno
<lb/>Le grand’ alme albergar suole tal’ hora,
<lb/>E ‘l peregrino il Re di laude degno
<lb/>Ne le magnificenze ama, ed honora.
<lb/>Quand’ ivi d’albergar non hanno a sdegno
<lb/>Fuor de la nube lor Zeffiro, e Flora;
<lb/>E scendon per goder Reggia sì vaga,
<lb/>Che di sue meraviglie i mari appaga.
<pb n= "68"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Ben’ egli è vero, che nel lungo campo
<lb/>Non è d’amenità sparsa ogni parte;
<lb/>Ma, quasi habbia del Sole avverso il lampo,
<lb/>Non vi preval Natura, e manca è l’Arte;
<lb/>Nè da’ rigidi Verni ivi hà ‘l suo scampo
<lb/>La piaggia, e ‘l prato, ch’ in più luoghi sparte
<lb/>Son Elci, ch’infeconde ahnn’ hirto crine,
<lb/>E folte macchie stan d’incolte spine.
<lb/>XXVII
<lb/>V’ hanno Soveri ancor sterili foglie,
<lb/>E mostran vano il mal vestito seno;
<lb/>Più d’un’ ombroso Platano raccoglie
<lb/>L’infruttuoso, ed arido terreno;
<lb/>E mal tra gli Alni il volo suo discioglie
<lb/>Infranta l’Aura; pur di bosco ameno
<lb/>L’Isola al mormorar d’Euro giocondo
<lb/>Ver l’Oriente ha ‘l campo suo fecondo.
<lb/>XXVIII
<lb/>A l’avviso, che Zeffiro, e la Diva
<lb/>Son giunti di Corcíra à la riira,
<lb/>Parte il Rè da Feacia, e al mar’ in riva
<lb/>Adduce seco numerosa schiera.
<lb/>Ove gran multitudine appariva
<lb/>Chi d’oro ricca, e chi di gemme altera;
<lb/>Fan d’argento, e di perle altri gran mostra,
<lb/>E chi d’ Augusta porpora s’inostra.
<pb n= "69"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Nobil’ alme a i destrier premono il dosso,
<lb/>Chi piume inalza, e chi si cinge il brando;
<lb/>Dal nitrir de’ Cavalli è l’aere scosso,
<lb/>E co’l piè fan tremar’ il suol, raspando.
<lb/>Con selle ornate à color bianco, e rosso
<lb/>Vann’ Indiche ricchezze folgorando;
<lb/>Pretioso è l’arnese, e à cento, à mille
<lb/>Forma il petto, ed il piè suoni di squille.
<lb/>XXX
<lb/>Di quei destrieri chi ‘l mantello hà savro,
<lb/>E son valor del bellicoso armento;
<lb/>Chi misto à coloro varij hà tergo Mauro,
<lb/>E sfida nel suo corso à volo il vento;
<lb/>Vivace, e candidissimo tesauro
<lb/>Altri nel dorso suo porta d’argento;
<lb/>E con macchie pomate altri è leardo,
<lb/>Ed è baleno al piè, fulmine al guardo.
<lb/>XXXI
<lb/>Indi seguon d’Eunuchi ordini folti,
<lb/>A cui dal ferro con nocente asprezza
<lb/>Furon de l’human seme i pondi tolti,
<lb/>E quella offesa à lor crescea bellezza.
<lb/>Poi di Paggi, e Scudieri ivi raccolti
<lb/>Rende leggiadro stuol pompa, e vaghezza;
<lb/>E suon di Flauti, e Trombe, in dolci modi
<lb/>Tanto diletta più, quanto più l’odi.
<pb n= "70"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Vien poi sù carro, che di perle, e gemme
<lb/>E’ riccamente nobile, e pomposo,
<lb/>E pregi accoglie d’Eritree maremme,
<lb/>Di Corcíra, e Feacia il Rè famoso.
<lb/>E fia, ch’à quei splendori ogn’ un s’ingemme,
<lb/>Sì ‘l lor riflesso è puro, e luminoso;
<lb/>Porta d’or la corona, e d’ostro il manto,
<lb/>E di sua maestade empie ogni canto.
<lb/>XXXIII
<lb/>Visto, ch’i Numi imprimon sù l’arena
<lb/>L’orme divine il Regnator cortese,
<lb/>I corridori suoi dolce raffrena,
<lb/>E ‘n contro a’ Toschi Dei dal carro scese.
<lb/>E dice. Ogni mia brama hoggi è serena,
<lb/>Nè più cara dal Ciel gratia s’apprese,
<lb/>Poscia ch’ à me da la sua lieta parte
<lb/>Hetruria alteri Numi hoggi comparte.
<lb/>XXXIV
<lb/>Venite, ò cari, il cui sembiante è noto
<lb/>A l’universo intero, e quì godete
<lb/>(Secondando i vostri otij, ed il mio voto)
<lb/>Di soave piacer la dolce quiete.
<lb/>Presso è la Reggia mia, ch’ in sen remoto
<lb/>Capir vi puote, e ‘n dimostranze liete
<lb/>Farvi gli arcani penetrar di lei,
<lb/>Ch’ esser dee Reggia de’ superni Dei.
<pb n= "71"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Venite,  e s’altro ivi mancar mai puote,
<lb/>Fatela Cielo voi co’l vostro aspetto,
<lb/>Sì ch’ il destin de le superne rote
<lb/>Per voi quì non invidij hoggi il mio tetto,
<lb/>Benche da questa parte horride, e vote
<lb/>Sien di cultura le mie piagge; e schietto,
<lb/>Fuori che verso l’Orto, il Ciel non sia,
<lb/>A far’ amena la Campagna mia.
<lb/>XXXVI
<lb/>A questo suono replicar gli Amanti,
<lb/>Che de l’Etruria frenano l’impero,
<lb/>E sù la nube varcano volanti,
<lb/>Ov’ è l’Oracol di Dodona altero.
<lb/>E dicon’. A te sempre i Ciel’ costanti
<lb/>Volghin il corso de’ favori intero;
<lb/>Che ne sei degno. Arrida Giove, e nuova
<lb/>Gratia ogni hora da lui sovra te piova.
<lb/>XXXVII
<lb/>Alcinoo, già tua fama al mondo è nota,
<lb/>C’hospite sei de’ più sublimi Heroi;
<lb/>E d’ogni Region da noi remota
<lb/>Hà penetrato il suon degli honor tuoi:
<lb/>Grato il tuo soglio fia, ne mai si scota
<lb/>Memoria ricordevole da noi:
<lb/>Che degno sei con più superbe prove.
<lb/>D’accor ne la tua Reggia anco il gran Giove.
<pb n= "72"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Con questo, ed altro suon la lunga via
<lb/>Givan scorrendo, e consumando l’hore,
<lb/>Da quando il Sole fuor del mar s’invia,
<lb/>Sin che ne l’Ocean languido more.
<lb/>E tra loro (alternando) hora s’udía
<lb/>Spiegar vanti di guerra, ed hor d’amore,
<lb/>Hor di Virtù l’alloro, ed hor ferace
<lb/>L’ulivo rammentar de l’aurea Pace.
<lb/>XXXIX
<lb/>Miran gli Amanti Dei l’Isola intorno 
<lb/>In cui scherzò diversa la Natura;
<lb/>Ch’ altrove ell’ è d’amenità soggiorno,
<lb/>Ed ivi sol nudría steril verdura.
<lb/>Quand’ ecco entraron ne l’albergo adorno
<lb/>De l’alta Reggia, e de le ricche mura:
<lb/>Stupir Zeffiro, e Flora a l’opre illustri,
<lb/>Che puon chiare schernir l’ombre de’ lustri.
<lb/>XXXX
<lb/>Posa per breve raggirarsi d’hora
<lb/>La Coppia maestevole, ed altera,
<lb/>Quando in augusta sala, ove dimora
<lb/>Folt’ ordine di lumi, appar gran schiera,
<lb/>E posta in mezo tavola s’honora,
<lb/>Ch’ in se di stupor vince ogni maniera;
<lb/>Ed hà de’ liquor suoi larga la mensa
<lb/>Ciò, che di Chio la vite à noi dispensa.
<pb n= "73"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>E ciò, che la vendemmia à noi felice
<lb/>Di Creta nel suo pian fertil produce,
<lb/>E quanto ancor la Nassica pendice
<lb/>Prodigamente à l’altrui sete adduce.
<lb/>Quì posta in vasel d’oro è la Pernice,
<lb/>Di Faside l’Augel brame v’induce;
<lb/>E l’esche rare de’ Pavoni sono
<lb/>Del Rege Alcinoo pretioso dono.
<lb/>XXXXII
<lb/>Evvi à l’altrui palato ancor gioconda
<lb/>La Lepre fuggitiva, e timidetta;
<lb/>E del cervo non men l’esca v’abonda,
<lb/>E ne gli argentei vasi à fame alletta.
<lb/>E di ciò, che Pomona il suol feconda,
<lb/>Quivi la mensa è sparsa, e altrui diletta;
<lb/>E de l’aurate poma ivi minori
<lb/>Han l’Hesperidi Suore i lor tesori.
<lb/>XXXXIII
<lb/>Non altrimenti Giove in foggie belle
<lb/>Dopo gli scossi Enceladi, e Tifei
<lb/>Sù l’alte regioni de le Stelle
<lb/>Diè lauta mensa a’ trionfanti Dei.
<lb/>Quand’ ecco Alauro, che la cetra imbelle
<lb/>Al fianco tiene, ed hà da’ fonti Ascrei
<lb/>Tratto il liquor di Febo; al dir concorde
<lb/>Fa con la mano il suon de le sue corde.
<pb n= "74"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>E volto ver gli Amanti. Un tempo il Mondo
<lb/>(Cantò) se n’ giacque senza vaghi amori
<lb/>Entro il suo seno languido, infecondo,
<lb/>E furon vani i suoi primieri honori.
<lb/>Fin che dal Ciel, per renderlo fecondo,
<lb/>Saturno trasse i genitali humori,
<lb/>E lanciolli nel mar, per fargli a pieno
<lb/>De la virtù di lor fertile il seno.
<lb/>XXXXV
<lb/>La calda spuma con quel giel de l’onda
<lb/>Si rassoda al vibrar de’ rai del Sole,
<lb/>E l’acqua al seme altrui resa feconda
<lb/>A noi produsse gloriosa Prole;
<lb/>Poich’ ivi de gli amor’ la Dea gioconda
<lb/>Hebbe natale; e sovra lei viole,
<lb/>E rose sparge il bel giardin del Cielo,
<lb/>Che reso havea del mar fertile il gelo.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Corser’ a l’hor da le vicine rive
<lb/>Glauci, e Tritoni, a rimirar la bella,
<lb/>Che Reina apparì de l’altre Dive,
<lb/>E del Sol si mostrò lucida Stella.
<lb/>E disse Alauro, come al Ciel s’ascrive
<lb/>Con virtù, ch’ ad ogni hor si rinovella,
<lb/>Il produr germi in mare, e ne la terra;
<lb/>E tutti del crear gli orgin disserra.
<pb n= "75"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Indi sù ‘l lido del gran Cipro ascende
<lb/>La Dea de’ vezzi; e dopo nove Lune
<lb/>Partorisce quel Dio, ch’ i cori accende,
<lb/>Ed hà ne le nostr’ alme alberghi, e cune.
<lb/>Ond’ anco in mare tra le braccia prende
<lb/>Ogni Dio la sua Ninfa; e amor comune
<lb/>Ferve ne’ flutti; e son di nuove Dee
<lb/>Fertil le sponde Ionie, e l’acque Egee.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Sù i flutti per amor l’Orche gioconde,
<lb/>E le Balene vidersi scherzare;
<lb/>Lieti i Delfini errar verso le sponde, 
<lb/>Provaro amor le Pistrici nel mare.
<lb/>E lo squammoso popolo sù l’onde
<lb/>Fè di se mostre inusitate, e rare:
<lb/>E non men sù la terra, anco novelli
<lb/>Sciolser’ i canti lor fertil gli augelli.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Indi gli huomini in terra ancor la prole
<lb/>Di sè formaro, e per beltà lucenti
<lb/>Produsser figli a’ vaghi rai del Sole;
<lb/>E furon parti di virtù possenti.
<lb/>Il Mondo empì di lor la vasta mole,
<lb/>E fur varij i pensier, come le menti:
<lb/>Sì ch’ altri furon saggi, altri fur Regi,
<lb/>E chi di forti Heroi mostrò gran pregi.
<pb n= "76"/>
<lb/>L
<lb/>Ond’ hor la Terra de’ lor fatti altera
<lb/>Andar si vede, e pareggiare il Cielo.
<lb/>Disse; e la notte trapassaro intera,
<lb/>Sin ch’ à noi fè ritorno il Dio di Delo.
<lb/>Poi Zeffiro, e la Dea di Primavera
<lb/>Reser gratie ad Alcinoo; e dal suo velo
<lb/>Flora piovvè virtù, che rese à pieno
<lb/>Gioconda l’aria, e florido il terreno.
<lb/>LI
<lb/>E Zeffiro co’l volo anch’ ei secondo
<lb/>A l’opra arrise, e sua virtude infuse.
<lb/>Sì ch’ il suol, ch’ à l’occaso era infecondo,
<lb/>Novelle prove à quei favor diffuse.
<lb/>Ogni ermo prato vi ridea fecondo,
<lb/>E Natura ogni pregio ivi dischiuse;
<lb/>Vaghi v’erraro, e mansuete belve,
<lb/>E di poma vestironsi le selve.
<lb/>LII
<lb/>Con numeroso, dilettevol frutto
<lb/>Vi stende le sue porpore il Ciregio;
<lb/>E quasi regnator del bosco tutto
<lb/>V’ hà ‘l Granato Corona, e manto regio:
<lb/>L’Arbor, ch’ à Filli diè nocente lutto,
<lb/>Ivi de’ fermi suoi dimostra il pregio;
<lb/>Il Fico in dolci lagrime si scioglie,
<lb/>E’l Persico la lingua hà ne le foglie.
<pb n= "77"/>
<lb/>LIII
<lb/>Vi sono ancor per quei novelli prati
<lb/>Sù verde gambo teneri Giunchigli;
<lb/>Tesori v’appariscon’ odorati
<lb/>D’ardenti Rose, e d’imperlati Gigli;
<lb/>E la Peonia i pregi altier spiegati
<lb/>V’hà de gli ardori suoi vaghi, e vermigli;
<lb/>E vi mostran l’Anemone, e l’Acanto
<lb/>Di gemme il pregio, e di tesori il vanto.
<lb/>LIV
<lb/>Quà si volgevan per amene valli
<lb/>Di vive perle gelidi ruscelli;
<lb/>E là scorrean di limpidi cristalli
<lb/>Con dolce mormorío fonti novelli:
<lb/>Diversi con piacevoli intervalli
<lb/>Vi forman canti armoniosi augelli;
<lb/>E per favor, che da gli Amanti spira,
<lb/>Delitie del terren fatta è Corcíra.
<lb/>LV
<lb/>Felice Alcinoo, ch’albergando i Numi
<lb/>Fausta ti rendi ogni superna Stella:
<lb/>Di bei frutti per lor fai ricchi i dumi,
<lb/>E l’Ionio non hà spiaggia più bella.
<lb/>Ogni vaghezza in lei mirano i lumi,
<lb/>Lunge il Verno hà da te l’ira rubella:
<lb/>Da Flora hai nobil fato, e ubbidienti
<lb/>A le delitie tue servono i venti.
<lb/>Il fine del Quarto Canto.
<pb n= "78"/>
<lb/>Canto Quinto 
<lb/>Argomento
<lb/>Giungon Amanti de l’Epiro, e poi
<lb/>Ne la Caonia, ed a Dodona vanno:
<lb/>Fido a’ voti da Giove Oracol’ hanno;
<lb/>E ‘n sacra nave fan ritorno a’ suoi.
<lb/>I
<lb/>Già fuori del Mar Indo a noi ritorno
<lb/>Con rosea fronte, e piedi alabastrini
<lb/>Facea l’Aurora; e ‘l Regnator del giorno
<lb/>Guidava sovra carro di rubini.
<lb/>Veniva il Sole di suoi raggi adorno,
<lb/>E di tesoro incoronava i crini;
<lb/>Ed eran tra bei fiori a’ ricchi lampi
<lb/>Colorite le valli, e pinti i campi.
<pb n= "79"/>
<lb/>II
<lb/>Quando Zeffiro, e Flora in aria à volo
<lb/>Si videro inalzar la nube loro,
<lb/>E (abbandonato di Feacia il suolo)
<lb/>Sfavillar gemme, e balenar tesoro.
<lb/>Gioiva al lor piacer ridente il Polo,
<lb/>E rispondea con raggi anch’ esso d’oro.
<lb/>E dir sembrava. Tra miei Cieli anch’ io
<lb/>Nube à sì bella Coppia esser desio.
<lb/>III
<lb/>Alcinoo al lor partir’ sovra gli altari
<lb/>Sparse di sacri odori Arabi fumi,
<lb/>E di doni offerì Arabi fumi,
<lb/>E di doni offerì pregiati, e rari
<lb/>Pretiosi tributi a’ vaghi Numi.
<lb/>E tra quei Regij preghi in lati vari
<lb/>Frutto diedero i tronchi, e rose i dumi.
<lb/>D’amenitade il suolo è fatto alunno,
<lb/>E spiega la Feacia eterno Autunno.
<lb/>IV
<lb/>Tai forse gli horti son de l’Alba eterna
<lb/>Sovra i bei campi del lucente Cielo,
<lb/>Ove caliginosa ombra non verna,
<lb/>Nè vi stende Aquilon l’ale di gelo;
<lb/>Ma l’aura placidissima superna
<lb/>Vi tempra co’ suoi raggi il Dio di Delo;
<lb/>E senza alternar mai ghiaccio, nè vampa,
<lb/>La luce nudre, e Primavera accampa.
<pb n= "80"/>
<lb/>V
<lb/>Van lieti de’ lor vanti i Numi amici,
<lb/>E godon, che la Terra à loro arríde.
<lb/>E dicevan. Per noi così felici
<lb/>Girin’ i Cieli le lor sfere fide,
<lb/>E ne le Tosche floride pendici
<lb/>Gioia di Prole meritata anníde;
<lb/>E come il vento in mar produce i flutti,
<lb/>Così da i nostri fior’ sorgano i frutti.
<lb/>VI
<lb/>Diana, che di prole in terra è priva,
<lb/>E di gravido sen pregio non porta,
<lb/>Dal Cielo abbandonata à un fonte in riva,
<lb/>O tra le selve errante il piè traporta.
<lb/>Sol lieve cervo, e damma fuggitiva
<lb/>Hà per proprio diletto, hà per sua scorta:
<lb/>E non merta infeconda haver tra selve
<lb/>Altro in sua compagnia, che spine, e belve.
<lb/>VII
<lb/>Fin l’acque, che per altro entro le sponde
<lb/>Punto non son di Deità capaci,
<lb/>E solo ne le valli lor profonde
<lb/>Son di Mostri ricoveri voraci.
<lb/>Vollero con le spume esser feconde,
<lb/>E di parti divini andar feraci.
<lb/>E più, che de’ lor pesci, hebbero honore,
<lb/>Ch’ in lor nascesse la gran Dea d’Amore.
<pb n= "81"/>
<lb/>VIII
<lb/>E la fertilità si cara è a Giove,
<lb/>E così d’esser Padre ei si prevale,
<lb/>Che con estreme, e memorabil prove
<lb/>E’ di Parto ogni parte in lui fatale,
<lb/>Poiche creò dal divin fianco, dove
<lb/>Pria nascosto l’havea, Bacco immortale;
<lb/>E Madre, come Padre, ancor possente
<lb/>Pallade partorì da la sua mente.
<lb/>IX
<lb/>Con sì queruli accenti, hor de le Stelle,
<lb/>Hor di Natura si dolean gli Amanti:
<lb/>Ne l’une l’opre detestavan felle,
<lb/>E ne l’altra abhorrian gl’ ingiusti vanti.
<lb/>Quando, non dopo gran viaggio, in quelle
<lb/>Parti men ree de’ pelagi spumanti
<lb/>Sponda inalzarsi nobile si vede,
<lb/>In cui Regie Cittadi han la lor sede,
<lb/>X
<lb/>Questo è d’Epíro il suolo, ov’ il Valore
<lb/>Porrà fra l’armi bellicoso il grido;
<lb/>Nè men de la Virtude, anco l’Honore 
<lb/>Famoso à gara stenderavvi il nido.
<lb/>E da le forze lor fia più d’un core
<lb/>D’invitto Duce spento; e Marte infido,
<lb/>E rio il terror de’ rigidi Destini
<lb/>Proveranno per loro anco i Latini.
<pb n= "82"/>
<lb/>XI
<lb/>A questi lidi Zeffiro, e la Dea
<lb/>Rivolgon la lor nube, e riverenti
<lb/>Scendon’ in parte, dove il mar porgea
<lb/>Riposo in curvo seno a’ fluti, a i venti.
<lb/>E lievi erraron fin là, dove fea
<lb/>La Caonia di se mostre possenti.
<lb/>Giunger’ al Cielo co’ suoi monti ardía,
<lb/>E di Giove le Quercie alte scopría.
<lb/>XII
<lb/>Entran in quei confini; e da la manca
<lb/>Parte drizza ver loro i tesi vanni
<lb/>Colomba,  de le nevi assai più bianca,
<lb/> E con l’aspetto a lor tempra gli affanni.
<lb/>E fatta guida, che tra via non manca,
<lb/>Conduce lor, c’hanno infecondi gli anni,
<lb/>Ove la selva di Dodona accoglie
<lb/>Sacre colombe, ed eloquenti foglie,
<lb/>XIII
<lb/>Muti in quei campi sono l’acque, e ‘l vento;
<lb/>E fin l’istesso augello anche vi tace,
<lb/>Sol, perche non conturbi ivi il Contento,
<lb/>E inviolata annidisi la Pace:
<lb/>Grato silentio ogni romore hà spento,
<lb/>E la Tranquillità solo vi giacie.
<lb/>E senza tuono, e fulmin v’ hà riposo,
<lb/>Chi di fulmini, e tuoni è Rè sdegnoso.
<pb n= "83"/>
<lb/>XIV
<lb/>E’ la Caonia region felice,
<lb/>E del Secolo d’or reliquia, e segno.
<lb/>Stilla ricca di mele ogni pendice,
<lb/>E l’Innocenza hà posto ivi il suo regno.
<lb/>Da l’Elci cave dolce humor s’elice
<lb/>E la Terra è di sè fertil’ ingegno.
<lb/>L’ardor di Sirio non aspetta il campo,
<lb/>E più, che ‘l Sol, la sua virtù gli è lampo.
<lb/>XV
<lb/>Produce il Rivo più, che l’acque erranti,
<lb/>Liquori soavissimi di latte:
<lb/>Stillan manna dal Ciel l’aure volanti,
<lb/>E da le brine son le piaggie intatte.
<lb/>Ivi il Leone hà placidi sembianti,
<lb/>Nè l’Orse al furor cieco ivi son’ atte.
<lb/>Il Bue di sue fatiche non si lagna,
<lb/>E ‘n compagnia vi stanno il lupo, e l’agna.
<lb/>XVI
<lb/>Più volte l’anno fertili gli augelli
<lb/>Fan ne le piante i nidi amorosetti,
<lb/>E vagheggiarsi in questi rami, e ‘n quelli 
<lb/>Sono gli studij lor, sono i diletti.
<lb/>Non hà tosco la Biscia, e non son felli
<lb/>De gli Aspidi gli scontri; e ne’ lor petti
<lb/>S’habitar vi potessero i furori,
<lb/>Havrian gli Odij, e le Furie aure d’amori.
<pb n= "84"/>
<lb/>XVII
<lb/>A così liete meraviglie intesi
<lb/>Giungon intanto i Toschi Numi, dove
<lb/>Hà mille voti sovra Quercie appesi
<lb/>Il Re de’ Cieli fulminante Giove.
<lb/>Quì di Tempio non stanno archi sospesi,
<lb/>Che son d’ ingegno humano uniche prove,
<lb/>Nè d’argento, nè d’oro ivi si vede
<lb/>Splender là volta, e balenar la sede.
<lb/>XVIII
<lb/>Nè Caistro v’ addusse i marmi suoi,
<lb/>O le pietre s’ammirano di Paro:
<lb/>O pur Numidia, co’ gran sassi tuoi
<lb/>Industriose mani i muri alzaro,
<lb/>Nè desti, o Gange, da’ gran lidi Eoi
<lb/>Di gemme dono pretioso, e raro;
<lb/>Nè ‘l ricco Tago da l’Esperie vene
<lb/>A te votò le rilucenti arene.
<lb/>XIX
<lb/>Ma tra ben mille Quercie un’ Ara stassi,
<lb/>Ch’ a discoperto Cielo hà ‘l tufo eretto.
<lb/>E fabricata di quei rozi sassi
<lb/>Ne la rozezza hà maestoso aspetto.
<lb/>Quà drizzan Flora, e Zeffiro i lor passi,
<lb/>Spiran dal volto riverente affetto;
<lb/>E riconoscon, ch’ ivi il Dio s’accoglie,
<lb/>Che tra Quercie, e Colombe il ver discioglie.
<pb n= "85"/>
<lb/>XX
<lb/>Zeffiro al Nume, ossequioso, offerse
<lb/>Di fiorito tesor ricche vaghezze,
<lb/>E sovra il suolo, e sù l’altar disperse
<lb/>Di Natura, e d’Amor mille bellezze.
<lb/>Indi intrecciò di fior pompe diverse,
<lb/>E corone compose; e di ricchezze 
<lb/>Di pretiose piante in guise rare
<lb/>Ornò le Quercie, e incoronò l’altare.
<lb/>XXI
<lb/>Poscia visto, che Giove à lui non rende
<lb/>Amichevol risposta, elegge odori
<lb/>Sparger d’Arabia, e ciò, che l’Indo prende 
<lb/>Da’ Campi, usi del Sole a’ primi ardori;
<lb/>Ciò, che Natura prodiga sospende
<lb/>Ne l’arse piagge de’ Sabei cultori;
<lb/>E ciò, che la Panchaia in un raguna
<lb/>A l’hor, ch’ a la Fenice è tomba, e cuna.
<lb/>XXII
<lb/>Ma scorto, che gli odori anco son vani
<lb/>E ne l’aria se n’ vanno à vuoto i voti,
<lb/>Cangia pensiero, e al Re de’ Ciel’ sovrani
<lb/>Tributi d’ holocausti offre devoti.
<lb/>Stese al piano con modi alteri, e strani
<lb/>Volanti augelli al nostro guardo ignoti,
<lb/>Fà d’alme alate vaghe offerte al Nume,
<lb/>E copre il suol di colorite piume.
<pb n= "86"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Nè ciò Giove curando, ei da pensiero
<lb/>Non usitato sovrapreso, e vinto,
<lb/>Di fere offrirgli sagrificio altero
<lb/>Entro l’animo suo seco hà distinto.
<lb/>Ferisce il Cervo, e cade il Toro fiero,
<lb/>E ‘l Lepre sù l’altar giacesi estinto;
<lb/>E la Damma, che sacra à Cinthia vive,
<lb/>Per Giove quì di vita hà l’hore prive.
<lb/>XXIV
<lb/>E perche a’ suoi desiri non arríde
<lb/>Con risposte seconde il Dio Tonante,
<lb/>Tra quelle quercie sospiroso ancide
<lb/>Vittime sacre al Regnator stellante.
<lb/>Ordini cangia, e modo; e pur non fide
<lb/>Le voci ascolta frà l’ombrose piante;
<lb/>Onde penoso manca; e da giocondo
<lb/>Spirto d’amor, fatto è di fuol fecondo.
<lb/>XXV
<lb/>Per molti giorni rinovò l’offerte,
<lb/>Ma sempre in vano, l’Amator fedele;
<lb/>Sì c’hor le gratie in lui plora deserte,
<lb/>Ed hor’ il fato suo chiama crudele.
<lb/>Onde Flora con brame assai più certe
<lb/>Queste sciolse ver Giove aspre querele.
<lb/>Ed à quel suono udironsi dolenti
<lb/>Sospirar l’aria, e lamentarsi i venti.
<pb n= "87"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Giove, dicea, che Padre sei del tutto,
<lb/>E nel giovar’ al Mondo hai posto il vanto;
<lb/>Deh, come Padre à me sembri di lutto,
<lb/>E sol per me nocente opre hai di pianto?
<lb/>Quì vvedi un Nume à lagrimar ridutto,
<lb/>Che degno per suoi pregi è d’alto canto:
<lb/>E per te si dirà ne’ dolor miei,
<lb/>Che possa la miseria anco sù i Dei?
<lb/>XXVII
<lb/>Tù pur’ hai dato il parturire a’ Mostri,
<lb/>Ov’ Affrica più sterile fiammeggia.
<lb/>E veneno non hanno i campi nostri,
<lb/>Che ne gli Angui fecondo hor non si veggia.
<lb/>Il Mare istesso ne gli ondosi chiostri
<lb/>Di gran portenti prodigo spumeggia
<lb/>E fin il Foco, che divora il Mondo,
<lb/>De le sue Salamandre hà ‘l sen fecondo.
<lb/>XXVIII
<lb/>Ed io mi giaccio languida, infeconda,
<lb/>E nata solo à colorire il campo:
<lb/>E, come sù l’arene in curva sponda;
<lb/>Steril’ d’inutil’ orme il suolo stampo.
<lb/>E si dirà; che Giove appien feconda
<lb/>Le crude belve; e solo i Numi al lampo
<lb/>Del dì non produrran l’amata Prole,
<lb/>In odio al Cielo, ed in dispregio al Sole.
<pb n= "88"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Ah poiche nulla l’esser Dea mi vale,
<lb/>Rinuntio il Cielo, e le superne doti:
<lb/>Non più, non più desío vanto immortale,
<lb/>Sol di morte, e d’oblío sono i miei voti.
<lb/>Non già sù i Tempij, ma sù me lo strale
<lb/>De la tua destra fulminante scoti.
<lb/>Giovi l’esser’, o nulla, o mostro almeno;
<lb/>Poi c’hanno i Mostri almeno fecondo il seno.
<lb/>XXX
<lb/>Vieni, Aquilon, dal tuo gelato regno,
<lb/>Spoglia il terren di florida verdura;
<lb/>E tu non tardar’ Austro, al cui disdegno 
<lb/>Gli ultimi honori suoi teme Natura,
<lb/>E dal tuo suolo, ch’ è di pompe indegno,
<lb/>Al Mondo reca l’Affricana arsura:
<lb/>Fermi Estate ne’ campi i regni suoi,
<lb/>E più non torni Primavera à noi.
<lb/>XXXI
<lb/>Inaridite homai per me viole,
<lb/>Sterili fiate, ò languidetti gigli:
<lb/>Non più adorni la Rosa, come suole,
<lb/>Le tempie mie co’ suoi color vermigli.
<lb/>Ecco ti sfrondo, e sterile di prole
<lb/>Non fia, ch’ a vane pompe i più m’appigli.
<lb/>Ite lunge da me, trofei mal nati,
<lb/>E sol pianto, ed horror sien’ i miei fati.
<pb n= "89"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Infausti Amori, a che lusinghe, e vezzi
<lb/>Mi prometteste inutili, e mendaci.
<lb/>Se sono i vanti miei pene, e disprezzi,
<lb/>Amare gioie, e combattute paci.
<lb/>Amor, s’ hai spirti a l’Infecondia avezzi;
<lb/>O’ cangia nome, ò muta i ben fallaci:
<lb/>Da steril lampo Amore ardor non spira,
<lb/>E Venere per Flora è Madre d’ira.
<lb/>XXXIII
<lb/>Quercie, s’in voi lo spirto, e ‘l senso havete
<lb/>Non più stupide siate a’ miei sospiri;
<lb/>Deh, per tormi al dolor, sù me cadete,
<lb/>E con me seppellite anco i martiri.
<lb/>Quercie ben dure, e ben crudeli siete,
<lb/>Se voi non secondate i miei desiri;
<lb/>E ch’ in voi sia lo spirto hora mi giovi,
<lb/>Perche solo da voi la morte i provi.
<lb/>XXXIV
<lb/>Quercie voi sorde sete: ah ben m’avveggio
<lb/>Ch’ in voi regna per me qualche pietate;
<lb/>Se da me sù ‘l Metauro amico seggio
<lb/>Haver goduto, hor quì vi rammentate.
<lb/>Se mai da me voi foste culte; io chieggio
<lb/>C’hoggi gli honori miei voi disprezziate,
<lb/>A chi morte desia porgete aita;
<lb/>E siate tomba à chi non merta vita.
<pb n= "90"/>
<lb/>XXXV
<lb/>In rendermi infeconda, i sommi Dei
<lb/>Han la virtù divina in me dannata:
<lb/>Nè voglion, che miei nobili trofei
<lb/>Sien d’eccelso valor prole beata.
<lb/>Ma che mi lagno? ahi lassa. I fati miei
<lb/>Conoscer ben dovevo alma mal nata,
<lb/>Che mi negava il Ciel speme di figlio,
<lb/>Se da fior, non da frutti il nome piglio.
<lb/>XXXVI
<lb/>Misero Nume, che dal Ciel negletto
<lb/>Per aita a le quercie aspre ricorre,
<lb/>E spera, in lor pietade haver ricetto,
<lb/>Poiche pietade il sen di Giove abhorre.
<lb/>Folle: qual vano suon movo dal petto?
<lb/>Quercia, ove Giove manca, in van soccorre.
<lb/>Arbor, ch’ i frutti spande, i fior disdegna;
<lb/>E tra le selve la pietà non regna.
<lb/>XXXVII
<lb/>Deh pur Quercia selvaggia io stata fosse,
<lb/>Ch’ almen vantar potrei frutti, e germogli?
<lb/>Nè soffrirei di duolo acerbe scosse,
<lb/>Nè sarei preda d’horridi cordogli.
<lb/>Poiche Giove non m’ode, ed hà rimosse
<lb/>Da se mie glorie; e rozo è a par de scogli.
<lb/>Quercie, s’havete il suon, da voi mia doglia
<lb/>Più degnamente al vostro Dio si scioglia.
<pb n= "91"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Altro attender da me voi non potete,
<lb/>Se non, che voi narrando con la fronda
<lb/>Le mie brame ansiose, immansuete,
<lb/>Io sù voi le mie lagrime diffonda:
<lb/>Vita da l’acque del mio pianto havrete,
<lb/>Onde più fia la lingua in voi feconda;
<lb/>E si dica. Che Flora a i pianti sui
<lb/>Fece prima, che se, fertile altrui.
<lb/>XXXIX
<lb/>Crescete pur’ al pianto mio dolente
<lb/>Figlie del mio Metauro à parlar nate,
<lb/>E se ‘l mio duol non è forse eloquente,
<lb/>Per me fertile almeno il suon snodate.
<lb/>Si sciolga in voi quest’anima languente,
<lb/>Pur che nel mio languir noi v’avvivate.
<lb/>E si ridica. Se Dodona suona,
<lb/>Tra Quercie al suon di Flora ella ragiona.
<lb/>XXXX
<lb/>Le mute Quercie a l’hor di Flora al nome
<lb/>Tutte tremanti scossersi dal fondo;
<lb/>E fluttuanti con instabil chiome
<lb/>De’ gravi preghi sospiraro al pondo:
<lb/>Tuonò l’Antro di Giove; e non sò come,
<lb/>L’Ara anch’ essa crollò: l’Aer giocondo
<lb/>Nubi accolse in un tempo, e le disperse,
<lb/>E meraviglie il Bosco hebbe diverse.
<pb n= "92"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Zeffiro istesso paventò la sorte,
<lb/>De la sua Flora, e di sua vita incerto.
<lb/>Quando da manca un tuon, con vaghe scorte,
<lb/>Di gratie rimbombò nuntio più certo.
<lb/>Sparver gli avversi augurij; e ‘n tanto sorte
<lb/>Da le Quercie s’udir voci di merto.
<lb/>DA QUERCIA D’ORO SORGERÀ GRAN PROLE
<lb/>CHE STENDERÀ L’IMPERO A PAR DEL SOLE.
<lb/>XXXXII
<lb/>A tai note l’Augel, ch’ inver l’altare
<lb/>Ne l’entrar di quel bosco a’ Dei fù scorta,
<lb/>A l’Oracol’ applaude; e ‘n fogge rare
<lb/>Sù ‘l crin di lei co’l volo si traporta,
<lb/>E fatto nuntio di allegrezze care
<lb/>Co’l suo calor fecondità l’apporta.
<lb/>Gioirò a l’hor gli Amanti, e ‘n dolci amplessi,
<lb/>Com’ hanno i cori, uniro i corpi istessi.
<lb/>XXXXIII
<lb/>E fertil fatti Zeffiro, e l’Amata
<lb/>Raccolser lieti i loro spirti al core;
<lb/>Di rai di maestà la fronte ornata
<lb/>A’ lor pregi accresceva eccelso honore.
<lb/>L’Ara a l’hor del Tonante incoronata
<lb/>Fu di più vago, e più gradito fiore;
<lb/>E bei nembi di manna in guise nuove
<lb/>Piovvè da le sue Quercie il sommo Giove.
<pb n= "93"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Di più fini smeraldi le sue foglie
<lb/>Tutto il bosco vestì ricco, e lucente;
<lb/>D’ augelli il choro melodía discioglie,
<lb/>Che molce co’l suo suon l’aria ridente;
<lb/>Onde ver Giove Zeffiro, e la Moglie
<lb/>Spiega accenti d’amor dal seno ardente;
<lb/>E, come merto, e fè gli animi accende,
<lb/>A don di gratie, suon di gratie rende.
<lb/>XXXXV
<lb/>A nuova così insolita, ed altera
<lb/>Festeggiante Himeneo da Pindo accorse,
<lb/>E de le Gratie la vezzosa schiera
<lb/>Snella co’ passi il vago Dio precorse;
<lb/>Del bosco le Napee lieta maniera
<lb/>Ordir d’industri feste;; e ‘l Ciel si scorse
<lb/>Al vezzeggiar de’ Toschi Dei rivolto
<lb/>Di più lieto seren sparger’ il volto.
<lb/>XXXXVI
<lb/>E per girar di molti Soli il piede
<lb/>Vi mosser quei drappelli à vaghi balli,
<lb/>E gioì tutta la frondosa sede
<lb/>Al mormorío de’ liquidi cristalli.
<lb/>Odonsi accenti; e ‘l suono in giro riede,
<lb/>Che son del lieto suono Echo le valli:
<lb/>E per Coppia sì degna in dolci accenti
<lb/>Ragionan l’Aure, e parlan gli Elementi.
<pb n= "94"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Manna, ed Ambrosia sono i cibi eletti,
<lb/>Onde si pascon’ in quei giorni l’alme;
<lb/>E tra giochi, e tra danze, e tra diletti,
<lb/>Di Venere, e d’Amor son le lor palme.
<lb/>Mille serti di fiori in cerchio stretti
<lb/>Pendon, e son di Quercie altere salme.
<lb/>S’empie il bosco d’odor, di fiori s’orna,
<lb/>E Primavera in lui stabil soggiorna.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Quando Giove immortal, che ‘l tutto puote,
<lb/>Ed han da lui gli Oracoli gran fama;
<lb/>Lieto a le gioie altrui scioglie tai note,
<lb/>E con le Dee Silvano anco à se chiama.
<lb/>Nave ordite a gli Amanti, e ver le note
<lb/>Piagge d’Etruria, ove l’Italia gli ama,
<lb/>Ricorran fausti; e contra il rio destino
<lb/>Propitio habbian ver l’Arno il lor cammino.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Disse; e cento si vider da la selva
<lb/>Satiri, e Fauni mover pronti i passi;
<lb/>Cadon tronche le piante, ed ogni belva
<lb/>A rinselvar trà lontan bosco vassi.
<lb/>Ove più ‘l luogo d’alberi s’inselva,
<lb/>La sede ombrosa à diramar più stassi:
<lb/>Trascinansi le piante; e à sì grand’ opra
<lb/>Ogni selvaggio Dio le mano adopra.
<pb n= "95"/>
<lb/>L
<lb/>V’ hà chi pulisce co’ suoi ferri il legno,
<lb/>E chi comparte con misura i lati;
<lb/>Altri le travi assetta, e con disegno
<lb/>A unirle son gli ordigni fabricati.
<lb/>Chi sù i chiodi colpisce, e chi l’ingegno
<lb/>Ivi impiega a segar gli assi tagliati;
<lb/>Ed è fatto, ò mirabil magistero,
<lb/>Di tavole diverse un corpo intero.
<lb/>LI
<lb/>Ferve l’opra de’ Dei, qual suole il folto
<lb/>Popol de’ Mirmidoni in verde prato,
<lb/>Qual’ hor tema, ch’ il Ciel tra nubi accolto
<lb/>Sovra la messe sua sciolgasi irato.
<lb/>La nube intanto de gli Amanti sciolto
<lb/>Disperde in aria il suo tesor gemmato.
<lb/>Che Giove vuol, ch’ à lor ritorno solo
<lb/>Rada la fatal Nave il salso suolo.
<lb/>LII
<lb/>Con le Dive, e co’ Satiri Silvano
<lb/>Vanno di pece ricoprendo i fianchi,
<lb/>Spingon la Nave in mar con forte mano,
<lb/>Nè mai d’affatigarsi ivi son stanchi;
<lb/>V’ alzan le sarte, e sù l’aereo vano
<lb/>Spiegan le vele; e i destri remi, e i manchi
<lb/>Adattan’ al gran Legno; ed Argo pare
<lb/>Che fù pregio del Ciel, stupor del mare.
<pb n= "96"/>
<lb/>LIII
<lb/>D’Helicona le Dee giunsero intanto,
<lb/>E Febo in un da la Castalia riva:
<lb/>E per Zeffiro, e Flora in dolce canto
<lb/>La sua lira animò lieta ogni Diva.
<lb/>Clio gareggia con Erato, e ‘l suo vanto
<lb/>Polinnia à lor non cede; e d’honor priva
<lb/>Ogni alta tromba ivi giacer potría;
<lb/>Ove l’Aonie Dee fanno armonía
<lb/>LIV
<lb/>Cantar di Giove le gran lodi eterne,
<lb/>E com’ egli feconda il Mondo intorno;
<lb/>E de l’Oracol suo l’opre superne
<lb/>Con dotti carmi rinovaro al giorno.
<lb/>Lodan le Quercie, che da parti interne
<lb/>Versan note veraci; e in quel soggiorno
<lb/>Le Colombe fatidiche, che puri
<lb/>Scopron’ ivi di Giove i sommi auguri.
<lb/>LV
<lb/>Quando Zeffiro, e Flora al Cielo amici
<lb/>Dopo rivolte di gran Soli al fine
<lb/>Partiron da Dodona; e al mar felici
<lb/>Drizzan de’ passi lor l’orme divine.
<lb/>Giungon’ i Toschi Dei non più infelici
<lb/>Là, ve sferzan’ il suol l’onde marine;
<lb/>E de la nube in vece appare à loro
<lb/>De’ Dei selvaggi l’immortal lavoro.
<pb n= "97"/>
<lb/>LVI
<lb/>Così tal’ hora ne’ Theatri alteri,
<lb/>Che Roma eresse a le superne Stelle,
<lb/>E tra quei scherzi a’ popoli guerrieri
<lb/>Mostrò sembianze maestose, e belle;
<lb/>Con varij, memorabil’ magisteri
<lb/>Diè il Martio campo imagini novelle.
<lb/>Al mirarsi del mar, l’aer disparve,
<lb/>E dove Nube fù, Nave conparve.
<lb/>LVII
<lb/>Attoniti à tal’ opra i vaghi Amanti
<lb/>Di quei Numi stupirono, e di Giove.
<lb/>Premon’ entro quel Legno i mar spumanti,
<lb/>Nè temon d’Austri tempestose prove.
<lb/>Godon, che sacra Quercia à l’aure erranti
<lb/>Ivi per arbor s’alzi; e gioie nuove
<lb/>In se accogliendo, ver l’Etrusco Regno
<lb/>Pari al Zeffiro Dio se n’ vola il Legno.
<lb/>Il fine del quinto Canto.
<pb n= "98"/>
<lb/>Canto Sesto
<lb/>Argomento
<lb/>Contra ‘l Legno de’ Dei dal freddo Polo
<lb/>Vien Borea, e turba in mar le salse arene
<lb/>Placa l’onde Nettun; stretto in catene
<lb/>E ‘l Vento; e lieta và la Nave à volo.
<lb/>I
<lb/>Al partir de gli Dei dolce Himeneo
<lb/>Cantò l’origin de’ lor primi amori,
<lb/>Sparso il sembiante suo d’odor Sabeo,
<lb/>E adorno il capo d’odorati fiori.
<lb/>Soavemente con la lira féo 
<lb/>Risonar l’aria a’ detti suoi canori;
<lb/>E al vago Legno suo spirando vita,
<lb/>Loquaci in un co’l suono havea le dita.
<pb n= "99"/>
<lb/>II
<lb/>Sovra ‘l lido danzar le Gratie belle,
<lb/>Gli avori ad arte mossero animati,
<lb/>E con arti atteggiando ogni hor novelle,
<lb/>Incurvavan’ industri i nudi lati;
<lb/>Hor’ ergeansi dal suolo, ed hora snelle
<lb/>A le fughe sciogliean’ i piè gemmati:
<lb/>Confusi eran’ i moti, e in un distinti;
<lb/>E d’industrie assembravan laberinti.
<lb/>III
<lb/>Ed in un per diletto Apollo istesso
<lb/>Vago di riveder la bella mole,
<lb/>Vi stese i passi, e diede applausi anch’ esso
<lb/>A l’opre oltr’ ogni fè nobili, e sole.
<lb/>Spirò dal volto il Rè del bel Permesso
<lb/>Influssi lieti à la crescente Prole.
<lb/>E, dove pose il piè, con fertil vena
<lb/>Perle il mare produsse, oro l’arena.
<lb/>IV
<lb/>Le Muse in compagnia non men gioconde
<lb/>I lor strumenti musici tempraro,
<lb/>Ed a’ concenti lor sovra le sponde
<lb/>Cento Cigni d’Amor vaghi scherzaro.
<lb/>Di lor colori quelle spiaggie, e l’onde
<lb/>Con le native porpore adornaro;
<lb/>E a gara de le Dee snodar da’ colli
<lb/>Di placidi amoretti accenti molli.
<pb n= "100"/>
<lb/>V
<lb/>Poi le Muse, Figlioli de l’Auretta,
<lb/>Gigli, e rose raccolsero dal prato,
<lb/>De l’amaranto, e de la mammoletta
<lb/>Intrecciaron lung’ ordine odorato;
<lb/>E di ghirlanda di bei fiori eletta
<lb/>Cinser il Legno intorno; e coronato
<lb/>Fù d’odoroso, e colorito innesto
<lb/>Quel Legno, che di Quercie era contesto.
<lb/>VI
<lb/>Con applauso minor d’Argo la Nave
<lb/>Già fù veduta ne la patria riva;
<lb/>Che fabricata anch’ essa era di trave,
<lb/>Che fù sacrata a la Palladia Diva
<lb/>Ivi i Guerrieri Heroi fean’ insoave
<lb/>Ogetto al guardo; e quì due Stelle apriva,
<lb/>Anzi un Sol di beltà, che ‘l Mondo indora,
<lb/>Unito in fè d’Amor Zeffiro a Flora.
<lb/>VII
<lb/>Quand’ ogni altro sù i Cigni in aria eretto
<lb/>Con mirabil virtù scorgesi altrove
<lb/>Torcer lunge dal lido il vago aspetto,
<lb/>E celebrar gli Oracoli di Giove.
<lb/>Dal ricurvo del mare ondoso letto
<lb/>La gran Nave Sacrata intanto move;
<lb/>E per l’Oracol del gran Padre lieta
<lb/>L’Italia al suo cammino havea per meta.
<pb n= "101"/>
<lb/>VIII
<lb/>E dicean. Quanto è frale audacia humana,
<lb/>Che sol di suo mortalità si fida;
<lb/>La pompa de gli honor stima non vana,
<lb/>E ‘n grandezza di regni il tutto annída.
<lb/>L’ira non teme del Rettor sovrana,
<lb/>Ed à tenzone in fin’ il Cielo sfida;
<lb/>E a crude prove di Tiranni avvezza
<lb/>Fuori de le sue prove altro non prezza.
<lb/>IX
<lb/>Ah, che regna sù noi Giove dal Cielo,
<lb/>Ed arbitro de’ Fati al tutto impera.
<lb/>Più de l’humano ardir puote il suo telo,
<lb/>E regge il Mondo da l’eccelsa Sfera.
<lb/>Face non scote lo stellante velo,
<lb/>Che non sia nuntia del suo cenno altera;
<lb/>Poscia ch’ à noi da Region sì belle
<lb/>Con raggi di splendor parlan le Stelle.
<lb/>X
<lb/>O’ quanti à noi con l’arte lor fallace
<lb/>Giunser di finto Ciel folli indovini,
<lb/>E ne mentiron da propitia face
<lb/>Promessi, un tempo fà, Parti divini.
<lb/>E’ ch’ à quest’ hora già sarai ferace
<lb/>Per noi ‘l Tosco terren d’Heroi bambini;
<lb/>E l’Arno al nostro germe havria più volte
<lb/>Offerti i voti, e le preghiere sciolte.
<pb n= "102"/>
<lb/>XI
<lb/>Ed altri poi de’ lor’ arcani oscuri
<lb/>Insoavi svelando à noi le note,
<lb/>Predir con infelici, avversi auguri,
<lb/>Per noi sterili il Ciel volger le rote,
<lb/>E d’Heredi mancare a noi futuri
<lb/>Il rampollo, onde pompe il Mondo hà note:
<lb/>Ed in marmi scolpite, ed in historie
<lb/>Tacer le lodi, ed ammutir le glorie.
<lb/>XII
<lb/>O’ folli mentitori, ecco a noi ‘l vero
<lb/>Fra Toschi Citherea predir si vide;
<lb/>Ed hora il Re de lo stellato impero
<lb/>Da la Caonia à noi felice arríde.
<lb/>La Quercia hà spirti d’intelletto vero,
<lb/>E la Colomba ne diè scorte fide;
<lb/>E con alti prodigij il Ciel s’è mostro 
<lb/>Auspice glorioso al germe nostro.
<lb/>XIII
<lb/>Con tai note rendean gratie ben mille
<lb/>Al gran Fattor de la superna mole; 
<lb/>E, dal Ciel folgorando auree faville,
<lb/>Fu testimonio à sì bei vanti il Sole.
<lb/>Và lieve il Legno à suon d’aure tranquille,
<lb/>E lieto corre il mar più, che non suole;
<lb/>Nè men, ch’ il Cielo, à Nave sì gradita
<lb/>Spira Zeffiro anch’esso aure d’aita.
<pb n= "103"/>
<lb/>XIV
<lb/>Già ne la terza Luna erano giunti
<lb/>Di lor fertilitade i fausti Amanti,
<lb/>E d’amore tra lor quasi consunti
<lb/>Colmavan d’alta gioia i lor sembianti:
<lb/>Mai non le vide il Sol tra se disgiunti,
<lb/>Nè l’ombra li trovò da se distanti:
<lb/>Vivean concordi; e’ n fè d’amore uniti
<lb/>Correan’ i mari, e trascorreano i liti.
<lb/>XV
<lb/>Alcuni Dei de l’acque à quel governo
<lb/>Siedon’ entro la Nave, e varij in vista
<lb/>Fan, che per loro con stupore alterno
<lb/>Sia gioia, e meraviglia in altri mista.
<lb/>Di quà, di là sen’ vanno; e ‘l crudo verno
<lb/>Vincon de l’onde salse; e l’ira trista,
<lb/>Che, per nudrir’ in sen spiriti fieri;
<lb/>Hanno contra le Navi i Venti alteri.
<lb/>XVI
<lb/>Cocente era l’Estate, e fuggitivi
<lb/>Non si vedevan per l’arsiccie valli
<lb/>Tra sassi, e balze mormorando i rivi
<lb/>Rivolger’ i lor limpidi cristalli.
<lb/>Ne vinte le Napee da’ raggi estivi
<lb/>Ordian ne’ campi leggiadretti balli.
<lb/>Ombra il Platano altier più non facea;
<lb/>E languía ne’ suoi fonti arsa ogni Dea.
<pb n= "104"/>
<lb/>XVII
<lb/>Il Cane al rivo sitibondo gia,
<lb/>E anhelando mancava a tanto ardore,
<lb/>Sì che le caccie semivivo oblía,
<lb/>E sol per suo ristoro ama dimore.
<lb/>Le brame, onde cacciar rapido ardía,
<lb/>Hà posto solo in cristallino humore;
<lb/>E, perche tempri de l’ardor la fiamma,
<lb/>E’ sicuro il Cinghial, salva la Damma.
<lb/>XVIII
<lb/>La Terra il seno a se medesma fende,
<lb/>E del suo fin si lacera tremante:
<lb/>E mentre in due partito il campo rende,
<lb/>Par, ch’ apra a se medesma urna avampante.
<lb/>Non più l’augel tra rami albergo prende,
<lb/>Nè sù l’aria scherzar mirasi errante.
<lb/>Il pesce istesso dentro l’onda muore,
<lb/>E gli è l’acqua del Rio lampo d’ardore.
<lb/>XIX
<lb/>Hanno il lor corso ancor perduto i Fiumi,
<lb/>E sono i letti lor sterili arene;
<lb/>E dentro il mare gli ondeggianti Numi
<lb/>Soffron di grave arsura estreme pene.
<lb/>E ‘l vento, ch’ in quei torbidi volumi
<lb/>Essercita d’orgoglio ultime lene,
<lb/>Chiuso non spira; e in se da l’ima terra
<lb/>Arso d’ira a se move acerba guerra.
<pb n= "105"/>
<lb/>XX
<lb/>Ma più d’ogni altro Borea, a cui l’Estate
<lb/>Lungo carcer prescrive in lacci stretto,
<lb/>Con forze d’ira, e di furore armate
<lb/>Fatto di se maggior rompe il ricetto.
<lb/>Da la caverna de’ Rifei slegate
<lb/>L’ali in aria dispiega; e à furie eletto
<lb/>In alto imperversando al Sole in faccia
<lb/>Ardente assalitore onte minaccia.
<lb/>XXI
<lb/>Ciò, che scontra Aquilon fiero tra via,
<lb/>Od inchina, o divide, o spinge al piano;
<lb/>Scosso da quel furor l’augel partía
<lb/>A nido più sicuro, e più lontanto:
<lb/>Agitata da lui l’Elce muggía;
<lb/>E la torre crollava al moto insanol
<lb/>E si vedevan con scoscese fronti
<lb/>Nel campo dirupar gli eccesli monti.
<lb/>XXII
<lb/>Ma da gl’ incendi del lucente Dio
<lb/>Vie maggiormente acceso in mar s’abbassa,
<lb/>E qual Baccante, o furibondo Enío
<lb/>Ogni ogetto, ogno scontro urta, e fracassa.
<lb/>Con aspro formidabil mormorío
<lb/>Lacera ogn’ onda freme; e franta, e lassa
<lb/>A l’impeto del Vento urla feroce,
<lb/>E ‘n campo d’ira hà di terror la voce.
<pb n= "106"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Ogn hor più cresce d’Aquilon l’orgoglio;
<lb/>Poich’ il soave Zeffiro ivi scorge
<lb/>Di gioia trionfare; e a lui cordoglio
<lb/>La contentezza de gli Amanti porge.
<lb/>Ove il Siculo mar tra doppio scoglio
<lb/>Si stringe, e l’onda rimbombando sorge,
<lb/>Già già la Nave rimirar potea
<lb/>Cariddi disdegnata, e Scilla rea.
<lb/>XXIV
<lb/>Ivi più fiero l’Aquilon s’oppone,
<lb/>E ristretto à quel varco hà maggior forza.
<lb/>Resiste il Legno, mà più ria tenzone
<lb/>Borea contra gli Amanti ivi rinforza;
<lb/>E stima, inoltraggiarli, haver corone
<lb/>Degne de le sue furie, erra, e si sforza
<lb/>Come Padre di gel volgere al fondo
<lb/>De la beltà d’Etruria il Sol giocondo.
<lb/>XXV
<lb/>L’onda in valle ruina, e poi sù l’alto
<lb/>Risorge in foggia di spumoso monte:
<lb/>Par, che mova a le Stelle audace assalto,
<lb/>Ed alzi in Ciel la tempestosa fronte.
<lb/>Disperso è ‘l regno del ceruleo smalto,
<lb/>Nè più val sostener di Borea l’onte.
<lb/>E, se sacro non fusse il Legno à Giove,
<lb/>Soffrirebbe di danni ultime prove.
<pb n= "107"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Era il Sol chiaro, e Giuno non copría
<lb/>D’horrre i campi del suo regno errante;
<lb/>Nè Giove a l’atre nubi il sen fería
<lb/>Con la triforme vampa fulminante:
<lb/>Il balen non ardéa; ne ‘vi s’udía
<lb/>Con spavento mortal tuono sonante.
<lb/>La Prole d’Eulo non fremea rubella,
<lb/>E pur l’Ionio havea fiera procella.
<lb/>XXVII
<lb/>Chi vide mai, che senza nubi il Cielo
<lb/>Potesse mai recar procelle amare,
<lb/>E senza pioggie tempestose il gelo
<lb/>Cresca, ne’ giorni estivi, in seno al mare?
<lb/>Borea, a le vampe del Rettor di Delo,
<lb/>L’Ionio sospingendo, ivi inalzare
<lb/>I flutti gode, e prende i legni à scherno;
<lb/>E l’Aquilone al mare è Vento, e Verno.
<lb/>XXVIII
<lb/>Da l’onda procellosa è spinta in alto
<lb/>La grand’ Orca, ch’ un scoglio rappresenta,
<lb/>Ed il Delfin con tempestoso salto
<lb/>In fino al Ciel’ horribile s’avventa.
<lb/>Il popol muto de l’ondoso smalto
<lb/>Disperso in aria il fine suo paventa:
<lb/>Stupido mira, ch’ il Sol luce, e pure
<lb/>Il Furor procelloso hà notti oscure.
<pb n= "108"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Il Ciel l’ordin del Fato, e de le Stelle
<lb/>Per tutti gira, e con sinistro aspetto
<lb/>Le faci sovra noi vibri rubelle,
<lb/>Per farne di miseria aspro ricetto;
<lb/>O da sembianze gratiose, e belle
<lb/>Influssi piova di sovran diletto.
<lb/>Soggetti sono a’ Fati ò buoni, o rei
<lb/>Le proprie Stelle, ed i medesmi Dei.
<lb/>XXX
<lb/>Nè puossi homai più contrastare à l’ire,
<lb/>Ch’ Aquilon sovra Zeffiro raguna,
<lb/>Sì ch’ ei non tema il forsennato ardire,
<lb/>O infesta al suo cammin non sia Fortuna.
<lb/>Anzi frà tante scosse homai perire
<lb/>Franto da scogli si rimira; e bruna,
<lb/>E profonda vorago in cupa notte
<lb/>De’ Numi il Legno vacillante inghiotte.
<lb/>XXXI
<lb/>Quando Nettuno, c’hà de’ mari il regno,
<lb/>E le tempeste al suo voler raffrena,
<lb/>Da l’antro, ov’ egli giace, ode lo sdegno,
<lb/>Ch’ i Toschi Numi à rei perigli mena,
<lb/>E in un sossopra co’l sacrato Legno
<lb/>Balza à le Stelle la Sicana arena;
<lb/>Le forze à contrastarli il varco stringe,
<lb/>E indietro ne l’Ionio il Legno spinge.
<pb n= "109"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Fuor di gran Scoglio, che nel mar s’inalza,
<lb/>Sorge il temuto Dio de le salse onde,
<lb/>E su la cima i suoi corsier’ rincalza
<lb/>Da le più cupe risonanti sponde.
<lb/>I crini de’ Destrier spargon la balza
<lb/>Di lor cadenti brine; e le gioconde 
<lb/>Luci del giorno par, che mirin lieti,
<lb/>Tolti da l’omre de l’interna Teti
<lb/>XXXIII
<lb/>Ma Nettuno, che scorge il Vento infesto
<lb/>Mover guerra a’ suoi Regni, in lui converso 
<lb/>Fisa grave lo sguardo, e à l’ire presto
<lb/>Tra l’acque hà ‘l volto suo di lampi asperso
<lb/>Alzo la mano; ed in quel lato, e ‘n questo
<lb/>Il tridente girando. A che disperso
<lb/>(Dice) veggio per te, Borea oltraggioso,
<lb/>Senz’ i gran cenni miei l’impero ondoso,
<lb/>XXXIV
<lb/>E come hora, ch’ il Ciel ferve d’ardore,
<lb/>Gelido contra ‘l mar spandi il tuo volo,
<lb/>E Nave, che Dei porta arsi d’amore,
<lb/>Travagli audace nel ceruleo suolo?
<lb/>Sù Numi, ch’ al Tirren, seggio d’honore,
<lb/>Guidate il Legno, ch’ al Rettor del Polo
<lb/>Mio germano è sacrato, il reo stringete,
<lb/>E vendetta da lui degna prendete.
<pb n= "110"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Intimorissi Borea al sommo accento;
<lb/>Che tal’ ancora indomito Leone
<lb/>La libertà natíva, e l’ardimento
<lb/>A’ cenni del Rettor pronto suppone.
<lb/>Pur, benche vinto sia, reca spavento,
<lb/>E move, benche vinto anco tenzone;
<lb/>Tra le catene a l’Arbor sacra stretto
<lb/>Spira dal sen, dal volto ira, e dispetto.
<lb/>XXXVI
<lb/>Indi Nettun comanda a’ Dei del mare,
<lb/>E de’ Fonti, ch’ al sacro, amico Legno
<lb/>Faccian superba corte; e ‘n foggie rare
<lb/>Secondino la via del salso Regno.
<lb/>Poscia, per ritornar ne l’onde amare,
<lb/>Dando a’ spumosi suoi destrieri il segno,
<lb/>Scote flagello di coralli altero,
<lb/>E s’apre in ampia via l’ondoso impero.
<lb/>XXXVII
<lb/>Scende l’humido Dio ne la gran Reggia
<lb/>Fabricata di lucido cristallo,
<lb/>E si riede a le stanze, ove pompeggia
<lb/>Ogni gemma, ogni perla, ogni corall:
<lb/>Placida nel mar l’onda si vagheggia,
<lb/>Non più s’innalza il flutto Ionio; e fallo
<lb/>Mite il suon di Nettun; pace soggiorna,
<lb/>Ove fù guerra, e ‘l mar nel mar ritorna.
<pb n= "111"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Mille accorron dal Mar Fonti diversi,
<lb/>E mille Numi a la pomopsa festa
<lb/>Chi d’apio hà i crini, e chi coralli tersi
<lb/>Alza per chioma su la molle testa.
<lb/>Altri con canna stringe i crin dispersi,
<lb/>Altri di ricche perle orna la vesta:
<lb/>Chi d’argento coprirsi hà per suo vanto,
<lb/>E chi di gemme hà tempestato il manto.
<lb/>XXXIX
<lb/>Un si vede, che frena altier Delfino,
<lb/>Ed ondeggiando và su mobil piano;
<lb/>L’altro regge per remo alpestre pino,
<lb/>E tutto squame è ‘l sen, squame la mano.
<lb/>Chi di lor preme un’Orca, e cristallino
<lb/>Hà ‘l piede, e ‘l crine, e chi d’aspetto humano,
<lb/>Ma con scaglioso pieded apre il mar fiero,
<lb/>E pompa a’ Numi è un’ Elemento intero
<lb/>XXXX
<lb/>Quì con Tritone suo Cimmotoe gira,
<lb/>E innestano fra lor dolci gli amplessi.
<lb/>A gara l’un de l’altra amori spira,
<lb/>E tra lor son gli scherzi, e i baci spessi.
<lb/>V’ è Salmace la bella, e andar si mira
<lb/>Di due sessi superba; e i flutti anch’ essi
<lb/>Cercan (co’l circondarla) in lei godere
<lb/>Di Natura, e d’Amor dolce piacere.
<pb n= "112"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Glauco, lo Dio, non più ne’ pesci intento,
<lb/>Ma volto ver gli Dei cangia costume;
<lb/>E dietro la gran Nave à par del vento
<lb/>Rade, benche sia veglio, à vol le spume.
<lb/>Ino non versa quì grave lamento,
<lb/>Ma gode a l’altrui gioie, e dal suo lume
<lb/>Così vaga d’amor luce scintilla,
<lb/>Che tutta l’aria intorno arde, e sfavilla.
<lb/>XXXXII
<lb/>E la leggiadra Spio con Melicerta,
<lb/>E in un co’l variabile Vertunno
<lb/>Van radendo la via de’ flutti incerta,
<lb/>E l’erranti campagne di Nettunno.
<lb/>Neera ancor, ch’ i primi vanti merta,
<lb/>Non lunge và dal placido Portunno;
<lb/>E con Nereo Cimmodoce, che vale
<lb/>Far’ un Cielo d’Amor l’ondoso sale.
<lb/>XXXXIII
<lb/>Tra quelle Ninfe, che del Legno sacro
<lb/>La pompa accompagnavan dilettosa,
<lb/>V’ è Galatea, ch’ è pregio, e simulacro
<lb/>De la Reina d’Idalo amorosa;
<lb/>E come il Sol nel mare hà ‘l suo lavacro,
<lb/>Quì tuffa anch’ essa i membri suoi vezzosa,
<lb/>E vaga è tra le Ninfe, come suole
<lb/>Esser tra mille Stelle unico il Sole.
<pb n= "113"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>E non lunge da lei giovan si vede,
<lb/>In cui Natura ogni beltà comprende;
<lb/>Aci è garzon sì vago, e dolci prede
<lb/>Fà de la Ninfa, è ‘n lacci il cor le prende.
<lb/>Se ‘l Sole, e Cinthia sù l’eccelsa sede 
<lb/>Non splendesser’ a noi con lor vicende;
<lb/>Questi co’ volti lor per beltà rari
<lb/>Foran la Luna, e ‘l Sol de’ nostri mari.
<lb/>XXXXV
<lb/>Chi di lor batte a numero la scaglia,
<lb/>Ed a l’aria rendeva accento raro;
<lb/>Scote cave testuggini, e v’ uguaglia
<lb/>Altri qual suon la Cetra habbia più caro.
<lb/>Chi da canne palustri a l’aure scaglia
<lb/>Acuto suono; ed altri il regno amaro
<lb/>Scorrendo a balzi, con la man le vote
<lb/>Parti d’un rame strepitoso scote.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Da conche ancor s’udian vaghe, e ritorte
<lb/>Spandersi a l’aria armoniosi accenti.
<lb/>E da ricurve trombe in varia sorte
<lb/>Dolcemente confusi usciano i venti.
<lb/>Liete a danze d’amor leggiadre scorte
<lb/>L’Aure facean con musici strumenti;
<lb/>E non haveva il mar ceruleo speco,
<lb/>Che del gioir de’ Dei non fusse l’Eco.
<pb n= "114"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Poscia i Marini Dei sciolser da’ petti
<lb/>D’ogni soavità note ripiene.
<lb/>Non più nemico de gli altrui diletti
<lb/>Turbi Borea crudel le salse arene,
<lb/>Nè più d’atre tempeste ampi ricetti
<lb/>Sien l’Ionie campagne, e le Tirrene.
<lb/>Perche in Italia torni alta beltate,
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi Aure volate.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Frema il crudo rubel fra torti lacci,
<lb/>Indarno spiri ingiurioso, e fero;
<lb/>Co’ guardi inutilmente il Ciel minacci,
<lb/>E lieto di Nettun miri l’impero.
<lb/>Avvinto i piedi, e catenato i bracci
<lb/>Stiasi infelicemente il Mostro altero.
<lb/>In vano hà sdegni, in darno hà feritate,
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi Aure spirate.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Scuota ogn’ un le catene, ond’ egli avvinto
<lb/>Giace miseramente al sacro Legno;
<lb/>E da gli urti di noi frema sospinto,
<lb/>E contra se per duol volga il suo sdegno.
<lb/>Gioia n’occupi l’alme; il forte è vinto,
<lb/>E de gli scherzi nostri è fatto segno.
<lb/>Son nel feroce cor l’ire mancate,
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi Aure scherzate.
<pb n= "115"/>
<lb/>L
<lb/>Vè, che per sdegno par’ inaspri il ciglio,
<lb/>E scota in un la catenata mano;
<lb/>Sembra, che l’aria ancor desti a periglio,
<lb/>E correr voglia il procelloso piano.
<lb/>Ma lieve sforzo, e inutile consiglio
<lb/>Hà l’ira insana, e l’ardimento vano.
<lb/>Il rio furore in lui l’ale hà tarpate,
<lb/>Amiche a’ Toschi  Numi Aure girate.
<lb/>LI
<lb/>Dibatte il folle de la chioma il gelo,
<lb/>E svelle disdegnoso il bianco crine.
<lb/>Fulmina con le luci; e par, ch’ al Cielo
<lb/>Osi recar’ altissime ruine.
<lb/>E teme, e fassi qual tremante stelo
<lb/>De’ venti al soffio sù le balze Alpine.
<lb/>E ancor le guerre in lui spiran rinate,
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi Aure danzate.
<lb/>LII
<lb/>Già manca il fiero, già languisce, e posa.
<lb/>Tutte hà tentate in van le vie de l’ira.
<lb/>Già l’alterigia in lui sì minacciosa
<lb/>Intepidirsi, e perdersi s’ammira.
<lb/>Non più dal suo venen vita sdegnosa
<lb/>Hà il rio Furore, e debellato spira.
<lb/>Trofei, con liete pompe, a l’aure amate
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi aure spiegate.
<pb n= "116"/>
<lb/>LIII
<lb/>E giovi scherzar, vinto è ‘l rubello,
<lb/>Giace sicuro il pelago da’ flutti:
<lb/>Non più, non più contra noi rechi il fello
<lb/>Annunzij miserabili di lutti.
<lb/>Il Cielo ne seconda con novello,
<lb/>E stabile sereno. Odansi tutti
<lb/>Ridir. Per bel trionfo ale odorate
<lb/>Amiche a’ Toschi Numi Aure spiegate.
<lb/>LIV
<lb/>Intanto da quei scogli a l’aure fuore
<lb/>Per bel trionfo replicar s’udiva;
<lb/>E in voci rispondeva ancor canore
<lb/>Aure la vaga, e ripercossa riva;
<lb/>E fin’ il Cielo per honor maggiore
<lb/>Toschi Numi nel suon dir si sentiva.
<lb/>E quasi fusse il Mondo un cavo speco,
<lb/>A honor de’ Toschi Numi era fatt’ Eco.
<lb/>LV
<lb/>Così lieti se n’ gian Zeffiro, e Flora;
<lb/>E risolcavan di Sicilia il mare,
<lb/>Catenato Aquilone ad hora, ad hora
<lb/>Havría mosso, fremendo, irate gare;
<lb/>Ma vano de l’ardir, ch’in lui dimora,
<lb/>Lo sforzo in lui sentía. L’Aure scherzare
<lb/>Veggonsi al Legno intorno; e ‘l Dio di Delo
<lb/>Coloría ‘l mare, e serenava il Cielo.
<lb/>Il fine del sesto Canto.
<pb n= "117"/>
<lb/>Canto Settimo
<lb/>Argomento
<lb/>Aci ardendo per lei, ch’ è Dea de’ fiori,
<lb/>Galatea sprezza, ea cui spiega sua pena
<lb/>In darno Polisemo: Eolo incatena
<lb/>Borea; ed Aci ritorna a’ primi amori.
<lb/>I
<lb/>Tra le pompe del mare Aci il vezzoso
<lb/>Tutto se n’ giva de’ suoi pregi altero,
<lb/>E l’Idolo de’ scherzi dilettoso
<lb/>Sembrar poteva entro ‘l ceruleo impero.
<lb/>Il crine di fin’ or splende fastoso;
<lb/>E doppio hà ne le ciglia arco guerriero,
<lb/>Donde folgora dardi, e ‘n dolci ardori
<lb/>Saetta l’alme, e incenerisce i cori.
<pb n= "118"/>
<lb/>II
<lb/>Paion le luci due rotanti giri
<lb/>D’un animato Ciel, ch’il tutto avampi,
<lb/>E felici sospiransi i martiri,
<lb/>Che nascon fuor da sì beati lampi.
<lb/>Chi fia, ch’intento quelle gote miri,
<lb/>Non vien, che da l’ardor sicuro scampi,
<lb/>Benche tra fresche rose in quel bel volto
<lb/>Primavera il suo regno habbia raccolto,
<lb/>III
<lb/>Vivi rubini son gli accesi labri,
<lb/>Che fra denti, di perle han lor ricchezze;
<lb/>Di dolce morte altrui vermigli fabri
<lb/>Tra vampe di delitie, e di bellezze.
<lb/>Ch’ avanzan de l’Aurora anco i cinabri,
<lb/>E sin di Citherea l’alte vaghezze:
<lb/>Alabastro è la fronte, avorio il collo,
<lb/>E sembra Ganimede, e vince Apollo.
<lb/>IV
<lb/>Questi di Galatea gran tempo acceso 
<lb/>Ne la Sicania sol di lei languío.
<lb/>E con gli affetti a quelle luci inteso.
<lb/>L’adorava d’Amor novello Dio.
<lb/>Quand’ ei ver Flora il guardo suo disteso,
<lb/>Ed ogni hor più scorgendo in lui natío
<lb/>Il fior de la beltade entro il suo core
<lb/>Prende le fiamme, e concepisce amore.
<pb n= "119"/>
<lb/>V
<lb/>Ah che non puote un legiadretto volio?
<lb/>Ah che non vaglion due vezzosi sguardi?
<lb/>È ‘l vecchio ardor da novo amor ritolto,
<lb/>E cruda piaga hà da novelli dardi.
<lb/>Và da la prima servitù disciolto;
<lb/>E son gli antichi affetti infermi, e tardi.
<lb/>Flora vagheggia; in Flora vive; e Flora
<lb/>Qual’ Idolo d’Amor con l’alma adora.
<lb/>VI
<lb/>E seco dice. Qual beltà di Cielo
<lb/>S’offre a’ miei lumi sovra ogn’ altra vaga?
<lb/>Avampo, bench’io sia nel mezo al gelo,
<lb/>E ‘l mio cor di tal Dea solo s’appaga.
<lb/>Felice me, se da sì dolce telo
<lb/>Mi vien’ a l’Alma salutevol piaga.
<lb/>Purch’ ella sia mia Diva, ed amor mio,
<lb/>O Ninfe a Dio, o Galatea a Dio.
<lb/>VII
<lb/>Non hanno i mari aspetto così degno,
<lb/>Che vaglia pareggiar di Flora i rai;
<lb/>E se potesse dal ceruleo regno
<lb/>Novella Citherea risorger mai,
<lb/>Ella sarebbe: se non c’hora il segno
<lb/>Di Venere ella avanza; e dirsi homai
<lb/>Potria, ch’ il mar due Veneri albergaro.
<lb/>Ò sol di questa Venere è ‘l mar chiaro.
<pb n= "120"/>
<lb/>VIII
<lb/>Vili a me, Galatea, sono i tuoi crini,
<lb/>Che di cristallo sembrano, e non d’oro;
<lb/>E quelli, che stimai pregi marini,
<lb/>In costei son del Ciel ricco tesoro.
<lb/>E s’ in te vagheggiai coralli fini,
<lb/>In lei ricchezze d’alte gemme adoro.
<lb/>Galatea più non t’amo; arde il mio core
<lb/>Per lei, ch’ è nova Galatea d’Amore.
<lb/>IX
<lb/>Deh chi dicesse mai, che dentro il mare
<lb/>Fiore sì vago soggiornar valesse?
<lb/>E, dove tante Ninfe han lampe chiare,
<lb/>Quì l’Anfitrite de le Dee splendesse?
<lb/>E per Flora, c’ hà forme al mondo rare,
<lb/>Primavera nel mar fiorir potesse?
<lb/>Godete, ò flutti, a Nume sì gentile,
<lb/>Hà ‘l Mare ancora il suo vezzoso Aprile.
<lb/>X
<lb/>Fonte (ahi lasso) son’ io, ma ben conviene,
<lb/>Ch’ un’amator, ch’ in lagrime si stilla,
<lb/>Si scioglia per amore in flebil’ vene,
<lb/>E mista donde sia la sua favilla.
<lb/>E se ‘l provar per lei soavi pene,
<lb/>Si prezza del mio cor gioia tranquilla,
<lb/>Si dica. Aci di Flora arde al sembiante,
<lb/>Ed un Fonte d’un Fiore è fatto amante.
<pb n= "121"/>
<lb/>XI
<lb/>Ma Flora punto non curava i lum
<lb/>De l’Amator, che lagrime sciogliea;
<lb/>Bench’ ei con cento torbidi volumi
<lb/>Del mar colmasse la campagna rea:
<lb/>Che sovr’ ogn’ altro Dio di fonti, ò fiumi
<lb/>Ella il core per Zeffiro accendea:
<lb/>E per Zeffiro in se godeva ardente
<lb/>Tranquillissimo il cor, lieta la mente.
<lb/>XII
<lb/>Sì che l’ Amante dispregiato, e schivo
<lb/>Più s’accendeva del suo novo foco;
<lb/>Ogn’ hor cresceva in lui l’ardor più vivo,
<lb/>E ‘l core a pena a tante fiamme è loco.
<lb/>A la Nave hor s’appressa, hor semivivo
<lb/>In dietro resta, e del mar fatto è gioco:
<lb/>E più, ch’ un fonte in mar, da doppio lume
<lb/>Versa d’interno duol gemino Fiume;
<lb/>XIII
<lb/>Nè men dolente si vedea la bella
<lb/>Galatea scompigliarsi il ricco crine,
<lb/>E fatta con le mani a se rubella
<lb/>Ama le gote lacerar divine.
<lb/>Crudel a’ voti suoi chiama ogni stella,
<lb/>E n’ode rimbombar l’onde marine.
<lb/>Poi dice. A che beltà più meco stai,
<lb/>Se freddi in te son di beltade i rai?
<pb n= "122"/>
<lb/>XIV
<lb/>Vane (ah Destino) fur le notti spese
<lb/>Con te ne gli antri fra soavi amplessi,
<lb/>E quelle, che dicei, care contese,
<lb/>E gli scherzi tra noi d’amor sì spessi.
<lb/>Hai rivolte le gioie in aspre offese,
<lb/>E laberinti a me di cure intessi.
<lb/>Non sò, se Diva sono, ò se mortale;
<lb/>S’ in me duolo, od Amor scocchi lo strale.
<lb/>XV
<lb/>Fra queste cupe risonanti valli,
<lb/>Ove Nettuno hà d’ ogni mostro il nido,
<lb/>Siate lunge da me perle, e coralli,
<lb/>E ciò, che diemme del mar’ Indo il lido
<lb/>Indegni amori, detestabil’ falli
<lb/>D’ astro a miei voti gravemente infido.
<lb/>Aci imberbe garzone, Aci incostante;
<lb/>A par de gli anni tuoi legiero Amante.
<lb/>XVI
<lb/>Ah, che pria sovra il mar scender vedrassi
<lb/>Da gli alti giri il fulminante foco;
<lb/>Rapidi i fiumi al corso saran lassi,
<lb/>Sarà ‘l pesce de l’aria ignobil gioco:
<lb/>Lievi sù l’acque andran gli alpestri sassi,
<lb/>C’ habbia in cor giovinil fermezza il loco.
<lb/>E, dove in frale età son gli anni infermi,
<lb/>La fè si stabilisca, amor si fermi.
<pb n= "123"/>
<lb/>XVII
<lb/>Io mi credea, ch’ Amor fusse una fede,
<lb/>Che stabil, qual colonna, in noi posasse,
<lb/>E che la fè, che saldo amor richiede,
<lb/>La sua fermezza a’ scogli egual serbasse.
<lb/>E che frà lor cangiando habito, e Sede,
<lb/>L’un ne l’altra vivesse, ed albergasse;
<lb/>Ma trovo, ch’ è la fè lieve, qual dardo;
<lb/>E Amor si cangia ad un girar di sguardo.
<lb/>XVIII
<lb/>Sembran gli augelli l’amorose voglie,
<lb/>Ch’erranti vanno dispiegando l’ale,
<lb/>La speme rassomiglia aride foglie
<lb/>Scosse da forza rea d’impeto Australe:
<lb/>E qual’ il pesce in acqua il guizzo scioglie,
<lb/>Tal’ è vario l’Amore; ed è sì frale
<lb/>La Pace, che ne’ cor stassi festosa,
<lb/>Ch’ è l’aura, ed il piacer tutta una cosa.
<lb/>XIX
<lb/>Ben veggio, che Cupido i vanni stende,
<lb/>E ch’ instabil non posa a’ voti altrui.
<lb/>Venere il suo natal dal flutto prende,
<lb/>Che variabil sempre hà i moti sui:
<lb/>E che la fiamma, ond’ ella i cori accende,
<lb/>Sempre incostante si dimostra a nui:
<lb/>Hora vuol’, ho disvol l’amante core;
<lb/>E l’Amore è de’ cori incerto errore.
<pb n= "124"/>
<lb/>XX
<lb/>Ma, deh, che mento? Ah ch’ Aci mio sol’ amo,
<lb/>Ed hò crude per lui, ma dolci pene.
<lb/>Aci a’ miei prieghi dolcemente chiamo,
<lb/>Ch’ ei sol mi spiri al core aure serene.
<lb/>Aci chiedo, Aci spero, ed Aci bramo,
<lb/>Che di gioia d’Amor m’ empia le vene.
<lb/>Ecco pur Aci mio, stretto t’abbraccio,
<lb/>E con le man’ ne l’amor mio t’allaccio.
<lb/>XXI
<lb/>Ma folle, e dove sono? io stringo il flutto,
<lb/>E d’acqua il seno mio tutto è risperso:
<lb/>E ben sembrami un’ onda egli, ch’n lutto
<lb/>Hà quì nel mare ogni mio ben converso.
<lb/>Ah ch’ egli è per me gelo; e fatto è tutto 
<lb/>Un flutto, ch’ ad un tempo erra disperso.
<lb/>Infelice vaneggio; e dentro il mare
<lb/>Son mare a me di turbolenze amare.
<lb/>XXII
<lb/>A questo suon radeva il sacro Legno
<lb/>De la Sicilia le famose sponde;
<lb/>Nel suo corso l’Italia havea per segno;
<lb/>Ed a pena il sentier segna ne l’onde.
<lb/>Quand’ ecco Polifemo, al cui sostegno
<lb/>La terra alza gran rupe: ed infeconde
<lb/>Eran’ al pianto suo l’herbe del monte,
<lb/>Erse le Ciglia, ed arrestò la fronte.
<pb n= "125"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Attonito è il Pastor, ch’ un pino in mare
<lb/>Stringe per verga, e ne la fronte hà un lume,
<lb/>E, se note dal sen suole snodare,
<lb/>Avanzar grave tuono hà per costume,
<lb/>Poiche rivede Galatea, ch’ amare
<lb/>Un tempo osò; ch’ addolorato Nume
<lb/>Ivi è fatta de l’onde; ed Aci il bello
<lb/>Era per Flora a gli amor suoi ribello.
<lb/>XXIV
<lb/>Sceso in riva del mar disse a la Diva,
<lb/>E fatigava in raddolcir gli accenti.
<lb/>Ah bella sì, ma cruda, hora, che priva
<lb/>Sei d’Aci, non sdegnare i miei lamenti.
<lb/>Che sdegnarli nè men l’estrema riva
<lb/>Suol, qual’ hora li rende al suon de’ venti.
<lb/>E da le tue miserie intender dei,
<lb/>Quanti miseri in me son gli amor miei.
<lb/>XXV
<lb/>Ancor’ ardo; ed al par di Mongibello
<lb/>Sono ineshauste del mio cor le faci;
<lb/>Ardor nudro per me sempre rubello,
<lb/>E turbate da te provo le paci.
<lb/>Tutte le greggi in questo lato, e ‘n quello
<lb/>A te riserbo, e i parti lor feraci:
<lb/>E colti havrai da’ rami, e tra le selve
<lb/>Rapidi augelli, e fuggitive belve.
<pb n= "126"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Ma non apprender già da’ doni miei
<lb/>D’esser ancor tu fuggitiva, e fera;
<lb/>Ma tu da loro ben comprender dei,
<lb/>Ch’ anco è raggiunta, e presa ogni alma altera.
<lb/>Sò già, che di bellezza il Sole sei,
<lb/>E i cor’ saetta la tua luce arciera;
<lb/>E la mia fronte ancora un Sol diserra,
<lb/>Ma tu fulmini il Mare, ed io la Terra,
<lb/>XXVII
<lb/>E s’ hai le stelle per tuo specchio in Cielo,
<lb/>Non men’ il Mare è specchio al mio sembiante:
<lb/>Ma s’ a te piace l’indurato gelo,
<lb/>Che nudre ne la cima Etna fumante,
<lb/>Io ardo co’ sospiri a l’aria il velo,
<lb/>E sono al’ Apennino egual Gigante.
<lb/>E s’ i membri hò di velli hirsuti, e foschi,
<lb/>Anco tra noi la Terra hirta è di boschi.
<lb/>XXVIII
<lb/>Sù questa canna, che di larghi cavi
<lb/>In cento lochi mirasi dischiusa,
<lb/>Spiriti infondo, e con le dita gravi
<lb/>V’ animo i carmi, ed a me son la Musa.
<lb/>Te piango al suon de’ versi miei soavi,
<lb/>La Reggia di Parnaso è in me rinchiusa.
<lb/>E se ‘l Fonte vi manca, al patrio monte
<lb/>Solo il mio piante è d’Helicona il fonte,
<pb n= "127"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Ma vè, ch’ella si duol, vè, che discioglie 
<lb/>Al mio suon dal suo petto aspri sospiri,
<lb/>E da le luci sue vene hà di doglie
<lb/>Testimonij d’Amore, e di martiri.
<lb/>Stolto, e che veggio? sol per Aci accoglie
<lb/>Il duol, che dal sen versa, e da’ bei giri.
<lb/>Ah che vaneggio, e son nel salso chiostro
<lb/>Non men del mar, che di miserie, un mostro.
<lb/>XXX
<lb/>In più pezzi la fistola divido,
<lb/>Nè più risuoni stridula gli amori.
<lb/>Hor più d’un’ Etna nel ceruleo nido.
<lb/>Immortal desti più voraci ardori:
<lb/>Solo Pistrici, ed Orche accolga il lido,
<lb/>Austro v’ eterni procellosi horrori;
<lb/>Ed habbian contra i legni in lati vari
<lb/>Cento Cariddi, e cento Scille i Mari.
<lb/>XXXI
<lb/>Ah cruda, un, che si duol, riguarda almeno;
<lb/>E, se brami seguire un, che ti fugge,
<lb/>Scorgi, men’ aspra, chi per te vien meno,
<lb/>E perche non ti segue, egli si strugge,
<lb/>Vedi, ch’ al viver mio già lento il freno,
<lb/>E fatto il Mar per me pietoso mugge;
<lb/>E mira, chi con note di dolore
<lb/>Potè pria ‘l Mare intenerir, ch’ un core.
<pb n= "128"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Ma dove son, che parlo? ella è partita,
<lb/>E seco porta ogni mio bene a volo.
<lb/>A che tardate, o Mostri? amica aita
<lb/>Date, co’l divorarmi, a l’aspro duolo.
<lb/>E se la greggia mia da voi ferita
<lb/>Tal’ hor ristoro a voi fu vile, e solo;
<lb/>Sù me pascete ancora i desir vostri,
<lb/>E basti un Polifemo a mille mostri.
<lb/>XXXIII
<lb/>Sù me, sù me cadete antri, e dirupi,
<lb/>E dentro le voragini affamate
<lb/>Orse feroci, e insidiosi Lupi
<lb/>A le mie membra sepoltura date.
<lb/>Disse; e risposer da’ ricetti cupi
<lb/>I flebil’ Echi, e l’Agne addolorate.
<lb/>Languendo ei cadde; e tutta a la percossa 
<lb/>L’Isola fù dal terremoto scossa.
<lb/>XXXIV
<lb/>Drizzava intanto la superba Nave
<lb/>Là, dove il Re de’ venti alza la Reggia;
<lb/>E fuor, che Galatea, l’amica trave
<lb/>Lieto il choro seguía, ch’ in mar festeggia.
<lb/>Spira l’istesso Zeffiro soave;
<lb/>E de’ cerulei Numi ivi pompeggia
<lb/>La corte à gara; e ver l’Eolia riva
<lb/>Con lo stuol di Nettuno il Legno arriva.
<pb n= "129"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Flora, e Zeffiro approda, e sù l’arena
<lb/>Conduce seco il rigido Aquilone,
<lb/>Che, bench’ avvinto, hà temeraria lena,
<lb/>E da perdite sue move tenzone.
<lb/>Pur segue; e dove l’altrui forza il mena,
<lb/>Và de gli oltraggi altrui servo, e prigione.
<lb/>E freme sì che d’Eolo in sin lo speco
<lb/>Fatto è di Borea formidabil’ Eco.
<lb/>XXXVI
<lb/>La roza d’Eolo horribile spelonca,
<lb/>Ove alberga de’ Venti la famiglia,
<lb/>Tutta è di pietre mal composta, e tronca, 
<lb/>E l’uscio hà di macigni ombrose ciglia.
<lb/>Ond’ hedra fuori, non incisa, o monca,
<lb/>Ma folta serpe, e a’ sassi in un s’appiglia.
<lb/>E a quelli avviticchiata atroci, e spesse
<lb/>Con la ruina sua ruine intesse.
<lb/>XXXVII
<lb/>Entro a le cave pietre, in grave suono,
<lb/>Con dispietato, rigido fragore
<lb/>S’ode mugghiare strepitoso il Tuono,
<lb/>E vi mesce il Baleno ire d’ardore:
<lb/>E di quell’antro habitatori sono
<lb/>Terremoti del Mondo ultimo horrore:
<lb/>E sdegnosa tal’hora entro quel loco
<lb/>La Saetta vi spiega ale di foco.
<pb n= "130"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Eolo al romor si desta, e come suole
<lb/>Scote lo scettro con la man pesante;
<lb/>La sua famiglia da l’interna mole
<lb/>Con formidabil volo accorre errante.
<lb/>Ed ei, fremendo, a’ chiari rai del Sole
<lb/>Fuori se n’ viene in rigido sembiante.
<lb/>E già già dir volea. Chi verso mè
<lb/>Indrizza audace a’ regni d’Eolo il piè?
<lb/>XXXIX
<lb/>Quando visto la Dea, c’ ha i fiori in cura,
<lb/>Ed è Nume gentil di Primavera,
<lb/>Dice. E qual mi ti manda alta ventura,
<lb/>Ond’ a te serva la mia alata schiera?
<lb/>Vienne, ò Dea, che di Florida verdura
<lb/>Ornar puoi, qual’ hà rupe il suol più fiera:
<lb/>Nemica sei del tempestoso Verno,
<lb/>E destar puoi tra l’onde Aprile eterno.
<lb/>XXXX
<lb/>A cui Flora. E’ ragion, ch’ a te ne vegna,
<lb/>Ch’ è ‘l tuo Zeffiro à me consorte amato.
<lb/>E per commando di Nettun, che sdegna
<lb/>Sù ‘l caldo imperversar di Borea il fiato;
<lb/>Vuol, che quì di tua man la furia indegna
<lb/>Si ponga al giogo del rubel gelato.
<lb/>E chi fiero nel mar contra noi venne,
<lb/>Quì chiuda prigioniere al sen le penne.
<pb n= "131"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Eolo co’l cenno ad Aquilone impone
<lb/>La carcere, e ‘l rubel frà lacci è stretto;
<lb/>E l’audacia deposta, e la tenzone,
<lb/>Humil’ hà ‘l volto, e mansueto il petto.
<lb/>Sì che l’aria si tempra, e la stagione
<lb/>Ivi di Primavera hà ‘l suo ricetto;
<lb/>Ch’ ov’ hanno Flora, e Zeffiro il soggiorno,
<lb/>E’ ‘l Ciel tranquillo, ed è ‘l Terreno adorno.
<lb/>XXXXII
<lb/>L’Aure intanto a le gioie ispiegan l’ale,
<lb/>Ed hor volando, ed hor danzando vanno;
<lb/>Altre son ratte più d’ardente strale,
<lb/>Ed altre maestà ne’ moti v’hanno:
<lb/>Chi si rivolge in giro al turbo eguale,
<lb/>Ed à chi gratia i salti agili danno.
<lb/>Chi gira, chi s’incontra, e chi si parte,
<lb/>E al suon de’ venti dilettosa è l’arte.
<lb/>XXXXIII
<lb/>Hora la man s’intreccia, hor s’abbandona,
<lb/>Ed hora il suol con grave piè si scote;
<lb/>Hor treccia, hor rassomigliano corona,
<lb/>Ed hor sembrano squadre, hor forman rote.
<lb/>Ed a rappresentare ogn’ un tenzona
<lb/>Arti d’industri laberinti ignote;
<lb/>E, intrecciando co ‘l piè giri novelli,
<lb/>Far vaghi Euripi, e far Meandri belli.
<pb n= "132"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Ove l’Aure ponean l’orme del piede,
<lb/>Ne la grotta nascean candidi Acanti,
<lb/>Ed in quei chiostri pullular si vede
<lb/>La porpora immortal de gli Amaranti.
<lb/>Di bel rubino, ch’ ogni luce eccede,
<lb/>La Rosa vi spandea pregi gemmanti;
<lb/>E ‘l Giglio, che parea sparso di brine,
<lb/>Di vive perle incoronava il crine.
<lb/>XXXXV
<lb/>De la beltà di Flora Eolo godea,
<lb/>Nè ‘l Mondo più con le sue furie sferza.
<lb/>E lieto a’ rai de la Toscana Dea
<lb/>Anch’ ei co’l volto, e con gli applausi scherza.
<lb/>Nè tempestoso più, come solea,
<lb/>Sovra la turba sua move la sferza:
<lb/>E, se ‘l Veglio potea raccorre ardori,
<lb/>Tutti gli spirti suoi foran’ amori.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Vaghi di riveder l’Etruria intanto,
<lb/>Lunge da Borea catenato, i passi
<lb/>Volgon gli Amanti; e con più lieto vanto
<lb/>Inver le patrie lor contrade vassi.
<lb/>Poggian sovra la Nave; ella altrettanto
<lb/>Lieve, quanto felice da quei sassi
<lb/>Sù pe’l mar si dilegua; e per sua scorta
<lb/>Seco al viaggio i Dei de l’Arno porta.
<pb n= "133"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Sol Galatea da sì bei scherzi lunge
<lb/>Stette per Aci in mar grae, e pensosa.
<lb/>Pur s’ il corpo da lui, non già disgiunge
<lb/>Il cor, nè sdegni annida alma amorosa.
<lb/>Sempre a’ sospiri suoi gemiti aggiunge,
<lb/>E fatta è di martir Diva bramosa.
<lb/>Ed Aci visto al fin vano il suo voto,
<lb/>Più ‘l suo Core non ha per Flora immoto,
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Anzi, bench’ egli a lei fusse rubello,
<lb/>Scorto, che pur costante Galatea
<lb/>Del rival Polifemo, odioso, e fello.
<lb/>Le preghiere, e l’amore spregiato havea,
<lb/>E ch’ altri, che lui sol, fra quel drappello
<lb/>Di Numi, vagheggiar non si vedea;
<lb/>Torna a gli antichi affetti; e vuol, ch’ emendi
<lb/>Ardor più vivo i tralasciati incendi.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Onde con lei ristretta, a i dolci amplessi
<lb/>Accompagnando i baci, amante dice.
<lb/>Chi sempre hà nel’ amor gli affetti istessi;
<lb/>Hà nel regno di pace alma felice.
<lb/>Che l’union, che gli ordini hà connessi,
<lb/>Opra è tra noi divina; ed infelice.
<lb/>E’ lo stato di lui, ch’ in ira al Cielo
<lb/>Hor teme il caldo, ed hor paventa il gelo.
<pb n= "134"/>
<lb/>L
<lb/>Fede, in crear, conservan gli Elementi,
<lb/>E cangiar qualitade hanno a disdegno:
<lb/>Serban l’istessa impressione i Venti,
<lb/>Ed han sempre una via ne l’alto regno.
<lb/>Ciò, che Giove ne’ campi suoi lucenti
<lb/>Una sol volta elesse, hà stabil segno,
<lb/>Che mai non si prverte; e quindi è nato
<lb/>A noi ‘l Destino, ed a le cose il Fato.
<lb/>LI
<lb/>Al variar, che fa l’Anno corrente,
<lb/>Ed hor l’Estate cangia, ed hor il Verno;
<lb/>Ogni cosa è nel Mondo egra, e cadente,
<lb/>E s’è fragil la Vita, è ‘l duolo eterno.
<lb/>Anzi la Vita, che di sangue ardente
<lb/>Si varia in tante età, di Morte è scherno.
<lb/>Ed ò stabil per noi sorte gradita,
<lb/>Se stesse in gioventù ferma la vita.
<lb/>LII
<lb/>Un, che può disamar ciò, ch’ amò pria,
<lb/>Quegli esser può nemico anco à se stesso;
<lb/>E chi mal cauto à se contrario sia,
<lb/>Più di follia, che di ragione, è impresso.
<lb/>Quand’ altri ha la ragione in sua balía,
<lb/>Fia di prudente il nome a lui concesso,
<lb/>Se tra spaventi posto, e fra perigli
<lb/>Hà stabile il parer, fermi i consigli.
<pb n= "135"/>
<lb/>LIII
<lb/>Dunque à giusta ragion folle e tenuta
<lb/>Quell’anima incostante in fra mortali,
<lb/>Che spesso amori à se contraria muta,
<lb/>E serba nel suo sen tempre ineguali.
<lb/>Di saldo core la virtù rifiuta,
<lb/>Ed hor rade la terra, hor’ erge l’ali.
<lb/>Nè sà, che quel, che Giove in Cielo elegge,
<lb/>Di stabil mente è incommutabil legge.
<lb/>LIV
<lb/>Nè vanto sia d’Amor, ch’ egli sol possa,
<lb/>Come suol far l’adusta Rondinella,
<lb/>Del più cocente Sole a la percossa,
<lb/>Sotto Ciel mite amar stanza novella.
<lb/>Che, se ben sai, la Tortora hà rimossa
<lb/>Dal Cor sì varia fè, nè mai rubella
<lb/>Mirasi de l’amante, e a quello unita
<lb/>Pria, che manchi la fè, manca la vita.
<lb/>LV
<lb/>Più volea dir; ma Galatea non vale
<lb/>Più soffrir così teneri concenti.
<lb/>Trafitta il seno d’amoroso strale
<lb/>Sciogliesi in soavissimi contenti.
<lb/>Se non che l’Aure con virtù vitale
<lb/>Gli spirti lor temprarono languenti.
<lb/>E tanto più l’amor fra loro piacque,
<lb/>Quanto da sdegno van l’amor rinacque.
<pb n= "136"/>
<lb/>LVI
<lb/>Così nel Verno rigido importuno,
<lb/>A l’hora, che tra nubi horribilmente
<lb/>Giuno con volto minaccioso, e bruno
<lb/>Scuote da l’urne sue più d’ un torrente,
<lb/>Se ‘l Sole a noi risorge; e raggio alcuno
<lb/>Rota fra l’ombre de la notte algente,
<lb/>Gioia riprende il seno, e pace il core,
<lb/>L’aria è diletto, e l’universo amore.
<lb/>LVII
<lb/>Sì che del salso mar gli Dei s’unirono;
<lb/>Vollero in queste note il suon diffondere,
<lb/>E con interni applausi a lor s’udirono
<lb/>Animati dal sen gli Echi rispondere.
<lb/>Sempre d’amor sù ‘l Cielo i Dei gioirono,
<lb/>Nè men tra l’ombre Amor si puote ascondere,
<lb/>Ch’ ei vaghe le caligini può rendere,
<lb/>E chiaro a par del Sole intorno splendere.
<lb/>LVIII
<lb/>Non più si vegga in noi lo spirto flebile
<lb/>Per gravi cure acerbamente gemere;
<lb/>Nè punta l’alto sen d’ira indelebile,
<lb/>Contra l’opre d’Amor l’anima fremere.
<lb/>Benche a gli affanni sembri infermo, e debile,
<lb/>Vittorioso Amor può ‘l tutto premere:
<lb/>Hà, nel perder, felice il suo dispendio,
<lb/>Gli è ‘l giogo libertà, vita l’incendio.
<pb n= "137"/>
<lb/>LIX
<lb/>Poiche così le Stelle non sfavillano,
<lb/>Com’ egli chiaro de’ suoi lampi indorasi,
<lb/>Al suo sembiante l’aure si tranquillano,
<lb/>Zeffiro si serena, e Clori infiorasi.
<lb/>Del Sole i raggi a l’ardor suo scintillano,
<lb/>E de le sue bellezze il dì colorasi.
<lb/>A se Venere è foco, e refrigerio,
<lb/>E con Giove hà comune Amor l’imperio.
<lb/>LX
<lb/>Con tai pregi d’amor sù l’onda labile
<lb/>Correr Flora con Zeffiro rimirissi,
<lb/>Nè sotto estivo Ciel Borea dannabile
<lb/>Scoter l’ale di giel sù loro ammirissi.
<lb/>Ma sol fatto di se Zeffiro stabile,
<lb/>E de la Flora sua contento girissi:
<lb/>Non più sù lor procella ire solliciti,
<lb/>E nave à Giove sacra il Ciel feliciti.
<lb/>Il fine del settimo Canto.
<pb n= "138"/>
<lb/>Canto Ottavo
<lb/>Argomento
<lb/>Inferma a’ rai del Sole avvampa Flora,
<lb/>Ma da Glauco hà ristoro; indi Tritone
<lb/>Canta l’opre Medicee; ed Arione
<lb/>Con alte lodi il vicin Parto honora.
<lb/>I
<lb/>Ripercoteva ancor da l’alto Cielo
<lb/>Sù ‘l Regno variabil di Giunone
<lb/>Con saette d’incendio il Dio di Delo,
<lb/>E di Teti accendea l’ampia magione.
<lb/>In fiamme Nereo distemprava il gelo:
<lb/>E più del caldo, che del mar, Tritone
<lb/>Sentia l’offese; ed i cerulei campi
<lb/>Avvampavan a’ raggi, ardean’ a’ lampi.
<pb n= "139"/>
<lb/>II
<lb/>Parea, ch’ il Cielo tutto fusse ardore;
<lb/>E che ne’ spatij de l’eterno regno
<lb/>Da la sua chioma diffondesse fuore
<lb/>Ogni Stella alti folgori di sdegno.
<lb/>Giacea Nettun’ senz’ alga, e senza honore
<lb/>Fatto a se Nume di se stesso indegno;
<lb/>E de l’acque i ristori a quell’arsura
<lb/>Anhelante temea perder Natura.
<lb/>III
<lb/>Vedut e havresti (ò miserabil vista)
<lb/>Fin l’istesse Aure attonite; e focose
<lb/>Non più l’onda solcar di gelo mista,
<lb/>Ma spennacchiate haver l’ale di rose:
<lb/>E a se con vampa dolorosa, e trista
<lb/>In lento mormorío fatte noiose,
<lb/>Senza più spander’ i lor vanni a volo,
<lb/>Più, che d’amore, sospirar di duolo.
<lb/>IV
<lb/>Languir’ a un tempo, rimirossi il choro
<lb/>De’ Numi ondosi, ch’ a la vaga Dea
<lb/>(Fregiando i molli crin’ di gemme, e d’oro)
<lb/>Dilettosa di se mostra facea.
<lb/>Senza speme nel mar, senza ristoro
<lb/>Fervida a’ rai del Sol l’onda paréa.
<lb/>Nè respiro era in mar, ch’ entro quel loco
<lb/>Non somigliasse di Vesuvio il foco.
<pb n= "140"/>
<lb/>V
<lb/>Così nel sen de l’Africane arene,
<lb/>Ov’ hà la piaggia sterile, infeconda.
<lb/>La sitibonda, languida Siene,
<lb/>Di fervid’ Austro ardente vampa abonda;
<lb/>E pur Etna mandar suole in amene
<lb/>Vampe da l’atra sua foce profonda;
<lb/>Ed Inarime anch’ essa alza a le stelle
<lb/>Di faville, e d’ardor nembi, e procelle.
<lb/>VI
<lb/>In fin Zeffiro cangia i fiati suoi,
<lb/>E par che, fiamme anch’ ei dal volto spiri,
<lb/>Nè più lieve (qual suol) ne’ moti a noi,
<lb/>Placidamente co’ suoi vanni giri.
<lb/>Flora il suo seno havea già grave; e poi.
<lb/>La vampa l’accrescea novi martiri,
<lb/>Sì che da pene è scossa; ed in dolori
<lb/>Le pompe si cangiavano, e gli amori.
<lb/>VII
<lb/>E mentre ancor la terza luna mira,
<lb/>Sotto cui nudre la feconda speme,
<lb/>Ansiosa d’ardori intorno gira,
<lb/>E del suo parto vacillante teme.
<lb/>E benche grave non si mostri d’ ira
<lb/>Sù i Numi il Cielo, pur la Diva geme,
<lb/>S’ange, s’estolle, si contorce; e vari
<lb/>Contra le noie sue tenta i ripari.
<lb/>VIII
<pb n= "141"/>
<lb/>Ma già le vene han da novella face
<lb/>Bevuti incendi di nocente arsura,
<lb/>Lunge dal petto suo sen’ và la pace,
<lb/>E nel seno divin regna la cura.
<lb/>De le natíve rose in lei si sface
<lb/>Il color vivo, e l’eccellenza pura,
<lb/>Onde per farla sovra ogn’ altra bella
<lb/>Spogliò ‘l Ciel di virtude ogn’ alta stella.
<lb/>IX
<lb/>Inver l’Eolia Zeffiro sen’ riede,
<lb/>E ricalca la via, che già trascorse:
<lb/>Ed a lei, che mancar lassa già vede,
<lb/>Ne’ regni d’Eolo con aita accorse.
<lb/>Molt’ opra, molto intende, e molto chiede,
<lb/>E a l’egra Diva ogni rimedio porse,
<lb/>Ma quando avverse a noi son l’alte rote,
<lb/>Potenza d’arte contra il Ciel non puote.
<lb/>X
<lb/>E che non disse, e che non fé l’Amante?
<lb/>Per la sua Flora havea sonni interrotti,
<lb/>E trahea con sollecito sembiante
<lb/>Penosi giorni, e instabili le notti:
<lb/>E spesso discioglieva a l’Aura errante
<lb/>Dal mesto cor sospiri gravi, e rotti;
<lb/>E s’un Dio senza spirto esser potea,
<lb/>Zeffiro privo d’alma ivi parea.
<pb n= "142"/>
<lb/>XI
<lb/>Ma lievi sono i suoi ristori, e l’opre,
<lb/>E per l’accesa Dea lo studio è vano;
<lb/>Che su quei vivi avori ecco si scopre
<lb/>Orma d’incendio temerario, e strano,
<lb/>Ch’ in varie parti di rossori copre
<lb/>Il bianco de la Dea corpo sovrano.
<lb/>E, come ardenti stelle in Paradiso,
<lb/>Sparge le macchie sù ‘l celeste viso.
<lb/>XII
<lb/>Ne’ caldi rai de la stagion cocente,
<lb/>Il sangue, onde la vita origin prende,
<lb/>A se ‘l natío calore accresce ardente,
<lb/>E fiamma a fiamma entro le vene accende.
<lb/>Sì ch’ arde infetto dal calor nocente,
<lb/>E sù l’estreme membra il foco stende;
<lb/>Bolle, e spumeggia; e sovra i corpi altrui
<lb/>Lascia i vestigi de gli incendij sui.
<lb/>XIII
<lb/>Nè contra foco sì spietato, e crudo
<lb/>Val da l’Aure sperar freddi ristori;
<lb/>Od offerire il petto infermo, e nudo,
<lb/>Ad agghiacciati, e cristallini humori;
<lb/>Ch’ il foco, fatto a se medesmo scudo,
<lb/>Più da’ contrari suoi riceve ardori;
<lb/>E quel, che stimi medicina al male,
<lb/>E’ ne’ suoi refrigerij opra mortale.
<pb n= "143"/>
<lb/>XIV
<lb/>Dal mal trafitto mirasi il sembiante
<lb/>Lacera in noi lasciar l’estrema parte;
<lb/>E come aperto sia da stral volante,
<lb/>Vestigi haver di cicatrici sparte;
<lb/>Sì che di fori angusti l’anhelante
<lb/>Morbo minute imagini comparte;
<lb/>E teme l’egro core a la ferita
<lb/>Sperdersi la beltà, sciorsi la vita.
<lb/>XV
<lb/>Ma più scioglieasi in vene di dolore
<lb/>Zeffiro, e queste note a lei spandea.
<lb/>O’ de l’anima mia parte migliore,
<lb/>Poich’ in te sol l’eternità godea,
<lb/>Ah che lasso con te langue il mio core,
<lb/>Nè più gode spirar, come solea.
<lb/>Ma vario in ciò per amor tuo mi sfaccio,
<lb/>Che tu d’ardor languisci, ed io di ghiaccio.
<lb/>XVI
<lb/>O Stelle dispietate al nostro bene,
<lb/>S’ il vostro honor compensasi co’ danni.
<lb/>Io godeva in te Flora aure serene,
<lb/>E perpetui hor per te provo gli affanni.
<lb/>Tutto mi stempro in dolorose vene,
<lb/>Non più batto per duol tarpati i vanni.
<lb/>Nè più Zeffiro son, se non in quanto
<lb/>A me l’Occaso è Region di pianto.
<pb n= "144"/>
<lb/>XVII
<lb/>Tu Flora un tempo fusti il foco mio,
<lb/>Ed hora a te medesma incendio sei.
<lb/>Ah ti struggi, ed io vivo; ah manchi; ed io
<lb/>Non discioglio per te gli spirti miei?
<lb/>Vita, che fai più meco? io d’esser Dio
<lb/>Odio i vanti, s’han duolo ancor gli Dei.
<lb/>Chi fia, ch’ eternità vantar presumi,
<lb/>S’ anco il Cielo è crudel contro i suoi Numi?
<lb/>XVIII
<lb/>Ma (folle) a che mi lagno? il mio lamento
<lb/>Accresce duolo a l’angosciosa Flora.
<lb/>Non più meco martir, non più tormento
<lb/>Faccia dentr’ il mio seno aspra dimora.
<lb/>Flora par, che nel duol prenda contento,
<lb/>Ch’ io scosso dal martir per lei non mora:
<lb/>Flora dolor non mostra; e tutta lieta,
<lb/>Perch’ io non peni, le sue pene accheta
<lb/>XIX
<lb/>O vana, e cieca imagin, che t’aggiri
<lb/>Solo per ingannar le luci mie.
<lb/>Ella di sensi è manca a’ suoi martiri,
<lb/>E preda è fatta di pene aspre, e rie.
<lb/>Ah che l’ hà tolto il duol fin’ i sospiri,
<lb/>E già socchiude i lumi a’ rai del die.
<lb/>Stolto che fai? ben Vento sei, che solo
<lb/>Suono è senz’ alma, e sperde i voti a volo.
<pb n= "145"/>
<lb/>XX
<lb/>Eolo, a che Borea incatenar potesti,
<lb/>E lasciasti errar Zeffiro dolente?
<lb/>Deh Borea vienne, e refrigerio appresti
<lb/>Il tuo ritorno a incendio sì cocente.
<lb/>Ecco fremer già l’odo; ecco che presti
<lb/>I rimedij ministra a Flora ardente;
<lb/>Forsennato ah che senti? è ‘l mar, che freme;
<lb/>E de le tue follíe sospira, e geme.
<lb/>XXI
<lb/>Misero, da’ nemici attendo aita;
<lb/>Nè scorgo, ch’ al mio male il duol non giova.
<lb/>Se non hai, Giove, la pietà sbandita,
<lb/>Sovra me solo ogni tuo sdegno piova.
<lb/>Nè fia l’offender Diva opra gradita,
<lb/>Ma l’abbatter’ un Dio più degna prova.
<lb/>Io, io sol pera; e s’ un Amore è Flora,
<lb/>Pria, che manchi l’amor, Zeffiro mora.
<lb/>XXII
<lb/>A queste note del fedele Amante
<lb/>Flora sol con le lagrime risponde.
<lb/>Ed eloquente in lei fatto il sembiante
<lb/>Sparge interne d’amor voci faconde.
<lb/>Scendeva il pianto su le gote errante,
<lb/>Nè perle, che del Gange habbian le sponde,
<lb/>Son sì candide, e pure; e le focose
<lb/>Gote parean tra lor campo di rose.
<pb n= "146"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Punta da mal sì reo Flora languía,
<lb/>Ma non men bello il suo languir parea;
<lb/>E in mezo ad aopra sì nocente, e ria
<lb/>Era non meno dilettosa Dea.
<lb/>E s’alcun segno in lei pur si scopría,
<lb/>Segno di fiori somigliar potea;
<lb/>Sì ch’ ella mostra ne’ suoi danni ancora,
<lb/>Che, non meno del nome, opre ha di Flora.
<lb/>XXIV
<lb/>Per molti Soli contra lei fù dura
<lb/>La grave noia de l’ardor, ch’ avvampa,
<lb/>E del parto non men l’interna cura
<lb/>L’acrescea del calor la cruda vampa.
<lb/>Quando Glauco, ch’ in acqua ogni natura
<lb/>De l’herbe intende, e dentro il senno accampa,
<lb/>Quante il Mar ne le spiagge habbia virtudi,
<lb/>Tutti in se volve del saver gli studi.
<lb/>XXV
<lb/>E verso il seno del Carpathio ondoso
<lb/>Drizzo veloce, quasi vento, o strale,
<lb/>E parea sù le vie del mar spumoso
<lb/>Mover più, che le squame, a volo l’ale.
<lb/>Cedon le rupi, ed ogni scoglio algoso
<lb/>Del ratto Nume al saettar fatale.
<lb/>E i flutti ubidienti al suo desio
<lb/>Spianavan’ i sentieri al salso Dio.
<pb n= "147"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Herba v’ hà ‘l lido, che di Stella mostra
<lb/>Imago salutevole, e gradita;
<lb/>E accenna altrui ne la cerulea chiostra,
<lb/>Ch’ è Stella di virtude à l’altrui vita.
<lb/>Prendela il vecchio Glauco, e ver la nostra
<lb/>Italia il corso accelerando, aita
<lb/>(Con dilettosa, e fortunata scorta)
<lb/>A l’anhelar del caldo petto apporta.
<lb/>XXVII
<lb/>Sù ‘l cor de l’egra Flora applica l’herba,
<lb/>Ed aggiunge al rimedio occulte note;
<lb/>Sì che la doglia homai già manca acerba,
<lb/>E dal suo male la virtù si scote.
<lb/>Non più calde nel sen le fiamme serba,
<lb/>Prender da l’Aure il refrigerio puote;
<lb/>E dolcemente à Stella così lieta,
<lb/>Gli affanni tempra, ed i sospiri accheta.
<lb/>XXVIII
<lb/>Sì mentre nave fortemente scossa 
<lb/>In mar, che d’ire torbido spumeggia,
<lb/>Spinta hor ne l’Orco è da l’Eolia possa,
<lb/>Ed hor s’inalza à la Stellante Reggia,
<lb/>Hora teme fra scogli aspra percossa,
<lb/>Ed hor tra Sirti di se dubbia ondeggia;
<lb/>Se di Castore à lei la Stella appare,
<lb/>Cedon’ i Venti, e senza flutti è il Mare.
<pb n= "148"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Dal seno a un tempo, e dal divino aspetto
<lb/>Il nocente calor partir si vede,
<lb/>Ma ‘l segno, ch’ ivi il male habbia ricetto
<lb/>D’ offese posto, rigido non cede.
<lb/>Onde il Veglio nel cor novello affetto
<lb/>Per Flora concepisce; e move il piede,
<lb/>Ove di Panacea potenti foglie
<lb/>Sparse di brine gran campagna accoglie.
<lb/>XXX
<lb/>Le brine ancor de l’Amaranto eterno,
<lb/>E quelle in un del Dittamo immortale,
<lb/>E d’ogni Pianta, che sprezzar può ‘l Verno,
<lb/>Accoglie in bianco vaso humor vitale.
<lb/>E poscia a’ primi rai del Dì superno
<lb/>Mesce in un le rugiade; e con fatale
<lb/>Virtù le stringe in cristallino vaso
<lb/>Contra l’ire de’ Secoli, e del Caso.
<lb/>XXXI
<lb/>Poscia aspetta, che Cinthia iscemi il corno
<lb/>De’ suoi maggiori, luminosi argenti,
<lb/>E di quel corpo di bellezze adorno
<lb/>Unge gli avori oltr’ ogni fè lucenti;
<lb/>E per quanto una Luna a noi ritorno
<lb/>Fà co’l suo carro, contro quei nocenti
<lb/>Livori sparge l’immortali brine,
<lb/>Di vita, e di salute opre divine.
<pb n= "149"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Sparve ogni macchia al fin dal leso volto,
<lb/>Ove con gratie a meraviglia belle
<lb/>Tutto lo splendor loro hanno raccolto
<lb/>Le serene del Ciel leggiadre stelle.
<lb/>E ‘l Sol parea, che da le nubi sciolto
<lb/>Fuori se n’esce, e con le su facelle
<lb/>Dal fosco di Giunone aéreo velo
<lb/>L’ombre scacciando, pinge d’oro il Cielo.
<lb/>XXXIII
<lb/>Manca in tanto sù ‘l Ciel la vampa accesa,
<lb/>Che facea ‘l Mondo sfavillar di lampi,
<lb/>E fin l’Autunno con nocente offesa
<lb/>Terminato il suo corso havea ne’ campi.
<lb/>Anzi nel suo principio il Verno stesa
<lb/>Havea la possa, e con sicuri stampi
<lb/>Dal saettar de l’Apollineo Nume.
<lb/>Spargea ne’ prati l’agghiacciate brume.
<lb/>XXXIV
<lb/>Onde al fin da l’Eolia i vaghi Amanti
<lb/>(Come vuol Giove) ritornando a’ loro
<lb/>Primier diletti, radon gli spumanti
<lb/>Regni, e de’ salsi Numi han seco il Choro.
<lb/>Di Seren novo tingono i sembianti
<lb/>Il Sol, l’Aria, e la Terra; e di tesoro
<lb/>Più fin di vaghe pretiose vene
<lb/>Il Mare indora le lucenti arene.
<pb n= "150"/>
<lb/>XXXV
<lb/>E dopo giorni così mesti, alfine
<lb/>Riprendendo la gioia il suo colore,
<lb/>Mostran’ i Toschi Dei forme divine
<lb/>Miracoli di Venere, e d’Amore:
<lb/>Scherzan del mare i Numi; e peregrine
<lb/>Danze formando con industre errore
<lb/>Intrecciavan fra lor Meandri alteri
<lb/>Di giochi, di vaghezze, e di piaceri.
<lb/>XXXVI
<lb/>Quando s’udì Triton, da conca intorta
<lb/>Diffonder suono dolcemente altero.
<lb/>Il lido dentro il Mare il suon riporta,
<lb/>Ed Echo è tutto l’Elemento intero.
<lb/>E dice. Al vostro Varco illustre scorta
<lb/>Di perigli hà premesso il sommo impero;
<lb/>Che non senz’ ombre suol venire a noi
<lb/>Il chiaro Illustrator de’ regni Eoi.
<lb/>XXXVII
<lb/>A Zeffiro già diede il campo Acheo
<lb/>L’alto principio de l’antico germe:
<lb/>Chi di lor fra gli allori erse trofeo,
<lb/>E chi se n’ visse in fra gli olivi inerme.
<lb/>Questi già superò l’horrido Egeo
<lb/>E quegli d’Asia rese l’armi inferme.
<lb/>E degni di domar vie più d’un Mondo
<lb/>Di più Mondi ne l’Arme ersero il pondo.
<pb n= "151"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Contra l’Insubre Conduttier Visconte
<lb/>Giovanni armò la generosa mano;
<lb/>Forte sprezzò de l’inimico l’onte,
<lb/>E de gli assalti fè l’orgoglio vano.
<lb/>Cosmo rivolto ad opre illustri, e conte
<lb/>Alzò ricchi edifici, e di sovrano
<lb/>Padre de la sua Patria il nome ottenne,
<lb/>E la Pace hà per lui sonore penne.
<lb/>XXXIX
<lb/>Tra le congiure indomito fù Piero,
<lb/>E l’offese schernì de l’empia Sorte,
<lb/>E domator del Tempo più severo
<lb/>Non fù preda d’Oblío, se fù di Morte.
<lb/>Ma Giuliano da stuol grave, e fiero
<lb/>Di Cittadini giacque estinto; e forte
<lb/>Anche nel suo cader mostrò, che degno
<lb/>Era con l’opre sue giunger’ al Regno.
<lb/>XXXX
<lb/>Né te, Giulio, tralascio, a cui già diede
<lb/>Roma il sublime honor di tre corone,
<lb/>E in sostener la vacillante Sede
<lb/>Soffristi d’empia sorte aspra tenzone.
<lb/>Vincesti d’Arno la Cittade; e fede
<lb/>Ad Alessandro (d’alto honor Campione)
<lb/>Ella diè per tua prova, e per sua pace,
<lb/>Libera a l’hor, che più sogetta giace.
<pb n= "152"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>S’altri dir l’opre tue, Lorenzo, brami,
<lb/>Onde la fama per te chiara suona,
<lb/>Spanda l’alloro innumerabil, rami,
<lb/>Sia più d’un Pindo, e più d’un Elicona.
<lb/>Tu con la tua virtù perpetua trami
<lb/>A te la vita; e sol di te ragiona
<lb/>Febo, qual’ hor di pregi alti favella,
<lb/>E rende ogn’ alma a’ saggi detti ancella.
<lb/>XXXXII
<lb/>Ma di Giovanni, ch’ al gran soglio assunto
<lb/>Trattò de’ regni de la Terra il freno,
<lb/>Quai carmi adorno? poich’ in lui congiunto
<lb/>Fù, quanto il Ciel mai sparse, o diè ‘l Terreno.
<lb/>In dir sue lodi stancò i Cigni, e punto
<lb/>L’Arte non giunge a’ suoi gran merti, e meno
<lb/>Può la Virtudef con industri modi
<lb/>Adombrare il calor, tesser le lodi.
<lb/>XXXXIII
<lb/>Nè tra Medici Eroi copra l’Oblío
<lb/>Con fosco horror di tenebroso velo
<lb/>Ne la Regia del Mondo il quarto Pio,
<lb/>Che serrava, ed apría gli usci del Cielo.
<lb/>Nè di lui, che d’Undecimo sortío
<lb/>Il titol fra Leoni, io taccio il zelo:
<lb/>O di loro, ch’ ornar d’ostro la Chioma,
<lb/>Meraviglie del Tebro, honor di Roma.
<pb n= "153"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Alessandro, che Duca esser potéo
<lb/>De le genti de l’Arno, in fede stretto
<lb/>Fù co’l sangue de gli Austrij; e di fin reo
<lb/>Pur non vale schivar barbaro effetto.
<lb/>De’ suoi gran merti Hippolito già fêo
<lb/>Minore ogni gran premio; e pur l’affetto
<lb/>Non ben temprando de l’ardito core,
<lb/>Terminò di sua vita infauste l’hore.
<lb/>XXXXV
<lb/>Ma Giovanni sù l’Adda, e in Umbria prove
<lb/>Fà di se degne; ed al valore, a l’arte
<lb/>Rassembra in guise inusitate, e nuove
<lb/>De la guerriera Italia unico Marte.
<lb/>Nè fia, che di tacer Cosmo mi giove,
<lb/>S’ei di Grande hà ‘l suo nome, e per lui sparte
<lb/>Furon’ à terra d’anima guerriere
<lb/>Infide torme, e rubellanti schiere,
<lb/>XXXXVI
<lb/>Francesco, e Ferdinando anco fur vanto
<lb/>Di scettro sì sublime, e così degno.
<lb/>E non men chiaro un’ altro Cosmo il manto
<lb/>Sostenne anch’ egli del Toscano Regno.
<lb/>E sotto lor, più del famoso Xanto,
<lb/>L’Arno ad illustri glorie è fatto segno;
<lb/>C’han ne la Terra, e sovra il Mare eretti
<lb/>Di Cittadi, e di Porti opre, e ricetti.
<pb n= "154"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Ne tra sì chiari Eroi tacer degg’ io
<lb/>Il secondo Lorenzo, a cui d’Urbino
<lb/>Diede il valor magnanimo, e natío
<lb/>Posseder con man bellica il domino.
<lb/>Ond’ hor mercè de l’amoroso Dio
<lb/>L’Arno hà giunto al Metauro il suo destino:
<lb/>E, se non le Cittadi, il germe gode,
<lb/>De la Quercia di Giove ultima lode.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Disse; e del Veglio Araldo a’ gravi accenti
<lb/>Risponder gl’ antri concavi s’udiro:
<lb/>E ‘n conpagnia gli Scogli, a gara i Venti
<lb/>Il chiaro suon de’ Toschi honor ridiro.
<lb/>Sin l’arene in crear gemme lucenti,
<lb/>E in produr germi floridi gioiro.
<lb/>E al Sacro Legno intorno baldanzosi
<lb/>Sparser le glorie d’Arno i Numi ondosi.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Scorrean’ intanto gli Amatori lieti
<lb/>L’ultima parte del Trinacrio mare,
<lb/>E vedean da la Destra in riva a Teti
<lb/>Star Città di lor fama altere, e chiare;
<lb/>E varij in un da gli antri lor secreti
<lb/>Fiumi ne l’ampio mar l’urna versare;
<lb/>E de’ pini volanti in molti lati.
<lb/>Correr le vie de’ flutti i remi alati.
<pb n= "155"/>
<lb/>L
<lb/>Poi la Coppia da manca Isole mira,
<lb/>Ch’ in mezo a l’onde ripercosse stanno,
<lb/>Ed hora soffron di Vulturno l’ira,
<lb/>E sprezzan’ hor de le procelle il danno.
<lb/>Ed altra v’ hà, ch’ inhospite s’aggira,
<lb/>E crudi serpi i fieri nidi v’hanno,
<lb/>Ed altra sol di pomici, e di sassi
<lb/>Cavernosa nel mar distende i passi.
<lb/>LI
<lb/>Così più giorni drizzano felici
<lb/>Ver la paterna Reggia il fatal pino.
<lb/>De’ flutti l’ire disprezzando ultrici
<lb/>Rinchiudon la fortuna entro il lor lino;
<lb/>Ed al canto, ed al suon rive, e pendici
<lb/>Risonavan d’intorno; e del destino,
<lb/>Che seco havea la fortunata prora,
<lb/>Lieto era il Dio, ch’ il Ciel di raggi indora.
<lb/>LII
<lb/>Ma perch’ il Ventre de la Dea si scorge
<lb/>Ogn’ hor più grave sollevare il pondo,
<lb/>E più viva la speme a Toschi sorge
<lb/>Del parto felicissimo, e giocondo,
<lb/>Non sì tumido il lino il grembo porge
<lb/>A’ ratti-venti, ma nel mar profondo
<lb/>Lenta se n’ và la gloriosa Nave,
<lb/>E del parto invaghita anch’ essa pave.
<pb n= "156"/>
<lb/>LIII
<lb/>In varie parti trapassando l’hore,
<lb/>E per non scoter de la Diva il seno,
<lb/>Van traendo gratissime dimore,
<lb/>E godon’ aura di gentil sereno.
<lb/>Quando alfin’ entran, dove il salso humore
<lb/>Principia del vaghissimo Tirreno;
<lb/>E tra fiorite, dilettose sponde
<lb/>Fini zaffiri han de l’Etruria l’onde.
<lb/>LIV
<lb/>Ed ecco a punto, donde a fronte mesce
<lb/>I suoi flutti nel mare il Terbo altero,
<lb/>E maggior di se fatto a l’onde accresce
<lb/>Un novello di flutti augusto impero,
<lb/>Da florid’ antro dilettevol’ esce
<lb/>Arion sù Delfino; e prigioniero
<lb/>Arrestando ne l’aria il volo a’ venti,
<lb/>Tai disciolse dal petto aure d’accenti.
<lb/>LV
<lb/>Vienne Zeffiro amato, e Flora bella,
<lb/>E non si tolga sì gran speme a noi;
<lb/>Che se l’una è d’amor placida stella,
<lb/>L’altro è Sol, che n’avviva a’ raggi suoi.
<lb/>Vieni, deh vieni, e non tardar, ch’ ancella
<lb/>Hà ‘l Cielo ogni virtude a’ pregi tuoi:
<lb/>Natura, e Amor suoi vanti in te raguna,
<lb/>E tu ne puoi de’ Mari esser Fortuna.
<pb n= "157"/>
<lb/>LVI
<lb/>Ond’ hor di voi, con bellicosi legni
<lb/>Altri i Mari governa, e a l’onde impera;
<lb/>Altri fù Duce ne’ Germani Regni
<lb/>Di generosa, vincitrice schiera
<lb/>Questi il freno trattò di spirti degni,
<lb/>Che per insegna loro han Lupa altera;
<lb/>E quegli, a cui l’Iberia in cura è data,
<lb/>Porta d’Ostro Latin la chioma ornata.
<lb/>LVII
<lb/>Già di fede con voi giunto vegg’ io
<lb/>Chi frena l’Alpe d’alte nevi onusta,
<lb/>E de’ Farnesi il Giglio lor natío,
<lb/>Avvolto al vostro, far corona Augusta.
<lb/>E fin dove Germania hà ghiaccio rio,
<lb/>Di Medica beltà forma venusta
<lb/>Accenderà grand’ alma; e per amore
<lb/>Il Reno havrà da l’Arno onde d’ardore.
<lb/>LVIII
<lb/>Così Cinthia dal Ciel con sua virtude
<lb/>Nel vasto sen de’ campi si diffonde,
<lb/>E con le forze, che da’ rai dischiude,
<lb/>L’acqua, e la terra fà di se feconde.
<lb/>O’l Sol, con raggio, ch’ in se vita chiude,
<lb/>Illustrandno di se le piaggie, e l’onde,
<lb/>Dà spirto a l’alma, e dà vigore al frutto,
<lb/>E de’ gran germi suoi fertile è ‘l tutto.
<pb n= "158"/>
<lb/>LIX
<lb/>Già de’ Medici i Mondi in ogni lato
<lb/>Di loro il Mondo fecondare i veggio.
<lb/>In loro han posto ogni più nobil fato
<lb/>Arno, Brescia, Verona, e ‘l Latin seggio.
<lb/>Prole a l’Insubria, ed a la senna han dato,
<lb/>E son gloria del Tago: e già preveggio,
<lb/>Che più non vanterà Monarchi il Mondo,
<lb/>Che di loro non sian germe fecondo.
<lb/>LX
<lb/>Onde, chi fia, che di voi degno canti
<lb/>Zeffiro, e Flora gli honorati pregi,
<lb/>Sovra ogni lode gloriosi Amanti,
<lb/>Alta speme d’Eroi, pompe di Regi?
<lb/>Per voi la Pace hà ne l’Etruria i vanti,
<lb/>La Giustitia vi regna; e in atti egregi
<lb/>Amor prodiga d’or la man distende,
<lb/>Ed il Valor con la Virtù vi splende.
<lb/>LXI
<lb/>Coppia amata, e felice, ove ripone
<lb/>Le sue grandezze il secolo languente,
<lb/>E rinova le antiche sue corone
<lb/>Italia tra le guerre homai giacente,
<lb/>Da te forte verrà più d’ un Campione,
<lb/>Che domo renda il Barbaro Oriente;
<lb/>E ‘l Sol, che spande i raggi suoi lucenti,
<lb/>A lo splendor de l’armi tue paventi.
<pb n= "159"/>
<lb/>LXII
<lb/>Degno il tuo germe fia, ch’ a noi ritorni
<lb/>Il già smarrito secolo de l’oro;
<lb/>E trà soavi, e fortunati giorni
<lb/>Ad Honore, e Virtù rechi ristoro.
<lb/>Più, che de’ raggi suoi, Febo s’adorni
<lb/>Del tuo superbo, splendido tesoro:
<lb/>E quest’ onde che mute, e sorde sono,
<lb/>Per te formin di gloria altero suono.
<lb/>LXIII
<lb/>Fian de’ tuoi Figli i vanti, hora d’Alcide
<lb/>Schernir’ i segni, e l’Ocean varcare;
<lb/>Ed hor contra le schiere al Cielo infide
<lb/>Tinger di sangue miscredente il mare.
<lb/>Ch’ ogni periglio la Virtù deride,
<lb/>E l’Animosità forza hà da gare:
<lb/>Nè teme oltraggi di Fortuna il core,
<lb/>Ove arme sia ‘l Valor, campo l’Honore
<lb/>LXIV
<lb/>Vien dunque, ò Coppia di felici Dei,
<lb/>A far l’Arno per te di glorie pieno.
<lb/>E dov’ altri a la pace, altri a’ trofei
<lb/>Suol tra noi partorir fecondo seno,
<lb/>Solo a la Terra germogliar tu dei,
<lb/>Chi regger deve de la Terra il freno.
<lb/>Dice. E dal mano lato ardente face
<lb/>De’ veri annuntij è testimon loquace.
<pb n= "160"/>
<lb/>Il fine del ottavo Canto.
<lb/>Canto Nono
<lb/>Argomento
<lb/>Venere, e Amore i Toschi Numi accoglie;
<lb/>Indi la Quercia frutti d’or produce:
<lb/>Poi Flora il Parto suo pone a la luce;
<lb/>Ed ogni Dio la gioia in carmi scioglie.
<lb/>I
<lb/>La Fama, ch’ apre infaticabil’ ale,
<lb/>Ne’ vanni hà d’occhi innumerabil lume;
<lb/>Và dal Polo di Borea al clima Australe,
<lb/>E da’ flutti d’ Atlante a l’inde spume.
<lb/>Veloce più di Mauritano strale
<lb/>Ne’ campi del seren batte le piume;
<lb/>E risonando altiera in ogni lato
<lb/>Eterno infonde a la sua tromba il fiato.
<pb n= "161"/>
<lb/>II
<lb/>Questa si finse da le Cetre Argive
<lb/>Esser del vasto Encelado sorella,
<lb/>E che voci snodando ogn’ hor più vive
<lb/>Scioglia con cento lingue la favella:
<lb/>Empie de’ mari le remote rive,
<lb/>E del suo suono è termine ogni Stella.
<lb/>Ver l’Arno move; e de la fertil Dea
<lb/>Il ritorno in suon lieto a lui spandea.
<lb/>III
<lb/>E dice, come in Region’ diverse
<lb/>Habbia Flora varcato incontri vari;
<lb/>Ed hor provato amiche, ed hor’ avverse
<lb/>Fortune ne la terra, e dentro i mari:
<lb/>Ma le forze al Destin frante, e disperse
<lb/>Tra perigli sì dubbij, e sì contrari,
<lb/>Hor de l’Etruria la famosa Reggia
<lb/>Con trionfante piè fausta riveggia.
<lb/>IV
<lb/>Desti a gli accenti Venere, ed Amore
<lb/>Sovra conca di perle pretiose
<lb/>Vanno radendo del ceruleo humore
<lb/>Con fortunato col le vie spumose.
<lb/>La Dea, ch’ accende ogni più freddo core,
<lb/>Seco d’Amori hà schiere dilettose,
<lb/>E, rai di gioie scintillando intorno,
<lb/>Dà luce al mare, e dà splendore al giorno.
<pb n= "162"/>
<lb/>V
<lb/>Per adornar la conca, e i sacri ammanti,
<lb/>Ond’ ella copra i membri suoi divini,
<lb/>L’Ermo votò da l’onde sue gemmanti
<lb/>I Zaffiri, i Chrisoliti, i Rubini;
<lb/>Diede il Pattolo i lucidi diamanti,
<lb/>E l’Alba le versò da gli aurei crini,
<lb/>Quanta già mai sù l’Eritree maremme
<lb/>Piove dal puro Ciel copia di gemme.
<lb/>VI
<lb/>Ondeggiavan’ al tergo, al crine i veli;
<lb/>E parean l’Aure dentro loro a gara
<lb/>Volgersi innamorate; e i loro geli
<lb/>Stemprar’ à sì bel Sol, ch’ arder’ impara.
<lb/>L’occhio a tal vista non invidia i Cieli,
<lb/>Ch’ essi non hanno Deità sì rara,
<lb/>Se non quanto frà gare di vagezza
<lb/>Vincer Flora la può con la bellezza.
<lb/>VII
<lb/>Sì ch’ a l’incontro de la Tosca Diva,
<lb/>Ch’ in compagnia di Zeffiro s’appressa,
<lb/>Venere lascia l’habitata riva,
<lb/>L’alma hà per Flora d’alte gioie impressa,
<lb/>E se ben nel rio Verno ella se n’ giva,
<lb/>Ov’ hà Cipro la Reggia, hor di promessa
<lb/>Quivi lieta attendendo il fin bramato,
<lb/>Vuol testimonio a’ Toschi esser del Fato.
<pb n= "163"/>
<lb/>VIII
<lb/>Ama vanto sì bello, e vuol’ amica
<lb/>Per Zeffiro, e per Flora errar fra Toschi,
<lb/>Benche sia la stagione a noi nemica,
<lb/>E ‘l Verno i giorni d’altre nubi infoschi.
<lb/>Quasi a l’Etruria il volto suo predíca
<lb/>Ne l’ombre anco de l’Anno i dì men foschi.
<lb/>E ch’ ove Amore, e Venere soggiorna,
<lb/>Ivi di gioie è Primavera adorna.
<lb/>IX
<lb/>D’Amori il Choro a quella conca intorno
<lb/>Giva danzando per le placide onde.
<lb/>A suono d’Aure chi facea ritorno,
<lb/>E chi scorrea sù quelle vie profonde.
<lb/>Chi groppo ordía d’intrecciamenti adorno,
<lb/>Chi di salti mescea forme gioconde.
<lb/>Chi bei Meandri in giro ordir si vede,
<lb/>E chi ad arte scotea l’onde co’l piede.
<lb/>X
<lb/>Quà si scorgea con iterate prove
<lb/>Hor fugare, hor fuggir l’ondose schiere;
<lb/>Là ripartite in forme altere, e nuove
<lb/>Rappresentar’ imagini guerriere,
<lb/>Altri à gara sù lei tempeste piove
<lb/>Di floride odorate Primavere;
<lb/>Ed altri al ventilar de’ vanni loro,
<lb/>Forman lieta armonia di suon canoro.
<pb n= "164"/>
<lb/>XI
<lb/>Quando Flora a la Dea del terzo Cielo
<lb/>Inanzi giunta, questo suon disciolse.
<lb/>Errammo è vero sù per ‘l salso gelo,
<lb/>E destin crudo in vario error n’accolse.
<lb/>De la ria Sorte paventammo il telo,
<lb/>E in perigli d’horrore il Ciel n’involse,
<lb/>Fin che poi variando ordine, e stato,
<lb/>In Corcíra n’addusse amico Fato
<lb/>XII
<lb/>Indi in Caonía dilungammo i passi 
<lb/>Tra le selve di Giove al voto intenti,
<lb/>E quivi dubbia ancor la Sorte stassi,
<lb/>E par, che gravi in noi spiri i tormenti.
<lb/>Ma poi pentita a noi gioconda fassi,
<lb/>E la selva hà per noi dolci i contenti.
<lb/>Che come, ò Citherea, predir sapesti,
<lb/>Svelò Giove gli oracoli Celesti.
<lb/>XIII
<lb/>Ben le Quercie di lui ne fur cortesi,
<lb/>E liete a nostro honor voci spiegaro,
<lb/>Ed a nostro favore anco palesi
<lb/>Ivi le tue Colombe si mostraro.
<lb/>Sì ch’ il gran Giove, sol per farne illesi,
<lb/>Questa Nave ne diè, che la formaro
<lb/>Molti, che miri quì, Numi presenti,
<lb/>De le sacre di lui Quercie eloquenti.
<pb n= "165"/>
<lb/>XIV
<lb/>Se ben, tra via, da tempestoso vento
<lb/>Soffrimmo scontri inusitati, e fieri,
<lb/>Poi, sotto aspro d’ardor grave portento,
<lb/>Con grave mal varcati hò mesi intieri.
<lb/>Sì che l’anima prova anco tormento,
<lb/>Ed hò del Parto mio dubbij i pensieri:
<lb/>Benche l’estrema Luna homai risplenda,
<lb/>Ch’ io de la Prole mia gli eventi attenda.
<lb/>XV
<lb/>Mà qual di fine sì bramato, e degno
<lb/>Deggio liete già mai sperar le prove?
<lb/>Poiche non puote così a pien l’ingegno 
<lb/>L’Arcano penetrar del sommo Giove.
<lb/>Anzi fia, ch’ à quel suon de l’alto Regno
<lb/>Confusi l’alma i sentimenti prove.
<lb/>Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole,
<lb/>Che stenderà l’imperio à par del Sole
<lb/>XVI
<lb/>Ciò non distinse a pien, quand’ ecco fuori
<lb/>L’Albero de la Nave i rami stende,
<lb/>E d’oro lucidissimi tesori
<lb/>Hà ‘l frutto, che da lor festivo pende:
<lb/>Spirto acquista la Quercia, e d’alti honori
<lb/>Con grave germe d’or degna si rende.
<lb/>Fertil’ è il tronco, e ad opra sì potente
<lb/>Fin’ ogni Nume meraviglia sente.
<pb n= "166"/>
<lb/>XVII
<lb/>Onde Venere a l’hor , ch’ a Giove è figlia,
<lb/>Penetrando del Padre i gran secreti,
<lb/>Disciolse in questo suon la meraviglia,
<lb/>E al suon, da la sua Reggia applause Theti.
<lb/>A lo stupor non curvinsi le ciglia,
<lb/>Ch’ augurij il Ciel ne manifesta lieti.
<lb/>L’Arbor, che tronco steril’ si scorgea,
<lb/>Nuntio è co’ parti suoi fausto a la Dea.
<lb/>XVIII
<lb/>Il mio gran Padre, che nel sen raccolta
<lb/>Volle, che fusse la gran vostra Prole,
<lb/>Ecco egli annuntia, che dal sen disciolta
<lb/>Tosto uscir debba a rimirar’ il Sole.
<lb/>In gioia la speranza homai sia volta,
<lb/>Ch’ errar non puote il Re de l’alta molte,
<lb/>Solo à prò de’ viventi arde di zelo,
<lb/>E sono i cenni suoi leggi del Cielo.
<lb/>XIX
<lb/>Ond’ Arbore sì degna homai si toglia
<lb/>Dal vasto sen de la sacrata trave,
<lb/>E dentro a Tempio maestoso accoglia
<lb/>Contra la ferrea Età Fato soave.
<lb/>Il decreto del Ciel ne la mia voglia
<lb/>Comprendete, ò bei Numi; e questa Nave
<lb/>Più degna Argo vi sia, ch’ a Tosche sedi
<lb/>Di salute, e d’amor rechi mercedi.
<pb n= "167"/>
<lb/>XX
<lb/>Contro lei d’ira il Ciel mai non  scintilli,
<lb/>Nè ‘l Mergo i liti con le strida infesti:
<lb/>Od in fredda stagion Giuno distilli
<lb/>Da l’urna sua le pioggie, ò ‘l Mar tempesti:
<lb/>Ma tra sereni placidi, e tranquilli
<lb/>Sien’ a lei d’Alcioni i nidi intesti;
<lb/>E del Parto a l’avviso habbian gioconde
<lb/>In sen’ al Verno Primavera l’onde.
<lb/>XXI
<lb/>La danza a’ i lieti accenti replicaro
<lb/>Misti con gli Amoretti i Numi ondosi;
<lb/>E di lascivo error scherzi formaro
<lb/>Ne’ campi del Tirreno dilettosi.
<lb/>Così danza tal’ hora il Dio di Claro
<lb/>Tra i chori de le stelle luminosi,
<lb/>E tra quelle del Cielo erranti forme
<lb/>Lascia di lampi variabil’ orme.
<lb/>XXII
<lb/>Amorosi gli amplessi, ed iterati
<lb/>Fan con le Ninfe i Numi del Tirreno;
<lb/>Poiche gli Amor tra lor danzan meschiati,
<lb/>E sciolto in lor di libertade è ‘l freno.
<lb/>Tanti l’Hebro non hà flutti gelati,
<lb/>Quante scintille, e fiamme hà ciascun seno;
<lb/>E pur’ al suon de l’Aure, al mormorío
<lb/>De’ lor vaghi sospir danza ogni Dio.
<pb n= "168"/>
<lb/>XXIII
<lb/>A terra il sacro Legno approda intanto,
<lb/>Ove l’Arno hà la foce; e l’alta d’oro
<lb/>Quercia i Numi honorando, in vario canto,
<lb/>Riempion l’aer muto, e ‘l mar sonoro.
<lb/>Zeffiro, e Flora a lei, che porta il vanto
<lb/>De la Madre d’Amore, e al salso choro
<lb/>Reser dovute gratie; e pregar lieti
<lb/>Amica Giuno, e favorevol Theti.
<lb/>XXIV
<lb/>Ed essi al Parto replicar felici
<lb/>Gli augurij de la vita, e de la pace.
<lb/>Poi ver l’alte di Cipro ampie pendici
<lb/>Se n’ và la Dea de l’amorosa face.
<lb/>E mentre seco con augurij amici
<lb/>Corre de’ salsi Dei l’ordin seguace,
<lb/>Con lor mille Colombe in aria vanno,
<lb/>E vaga a Citherea corona fanno.
<lb/>XXV
<lb/>A questi applausi fuor de l’acque sorse
<lb/>L’Arno di canne i crini incoronato,
<lb/>E da le rupi sue rapido corse
<lb/>Il selvoso Apennin co’l piè gelato.
<lb/>Quì Silvano il suo piè frondoso torse
<lb/>Da l’antro suo di tenebre gravato;
<lb/>La Napea con la Driade festante,
<lb/>E Fauno volse le selvaggie piante.
<pb n= "169"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Prendono l’Arno, e l’Apennino il Legno,
<lb/>E poderosi Dei sù per le rive
<lb/>Del Tosco Fiume il traggono; e sostegno
<lb/>A la mole anco son l’humide Dive,
<lb/>Quei Dei, c’hanno da’ fonti il natal degno,
<lb/>Ed albergano i Laghi, anch’ essi han prive
<lb/>Di se le sponde loro, e quivi addutti
<lb/>Fan la Nave immortal correre i flutti.
<lb/>XXVII
<lb/>Ed a la mole, ch’ è di Quercie intesta,
<lb/>Dicon’ a gara gloriosi carmi.
<lb/>Lunge, lunge da te suon di tempesta,
<lb/>Lunge, lunge da te rimbombo d’armi.
<lb/>Sovra te scenda in van saetta infesta,
<lb/>Nè l’ire contra te Giuno disarmi;
<lb/>E sovra te con infiammata mano
<lb/>Non fulmini il suo stral l’arso Vulcano.
<lb/>XXVIII
<lb/>Tu degna sei, che non di Mirto, o Lauro
<lb/>Incoronata sù per l’acqua vada,
<lb/>Ma ben di gemma pretiosa, e d’auro
<lb/>Quì del Fiume Tirren varchi la strada;
<lb/>E sovra te non stilli il suo tesauro
<lb/>La rigida Alba in gelida rugiada;
<lb/>Ma ‘l Sol tempesti da’ suoi ricchi crini
<lb/>Crisoliti, Topatij, Ambre, e Rubini.
<pb n= "170"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Tu porti Flora, che di fior Reina
<lb/>Incorona le chiome a Primavera;
<lb/>E vivo Sole di beltà divina
<lb/>Fà la Toscana sua lucente sfera.
<lb/>Per lei s’adorna d’imperlata brina
<lb/>L’Amaranto immortal, la Rosa altera;
<lb/>Il flessuoso, e cristallino Acanto,
<lb/>E ‘l Giglio, che d’argento hà ricco manto.
<lb/>XXX
<lb/>In te Zeffiro, scherza, Alma gentile,
<lb/>Lieto spirto del fertile terreno,
<lb/>Vago diletto del novello Aprile,
<lb/>Scorta fedel del placido sereno.
<lb/>Che rinovella à noi l’età senile
<lb/>Del freddo Verno, e sotto Cielo ameno
<lb/>Ambrosia piove, e nettare distilla,
<lb/>Le menti rasserena, e i cor tranquilla.
<lb/>XXXI
<lb/>E voi Numi felici, in sì bel Legno
<lb/>Non più tardate à renderne il dì vago,
<lb/>E co’l Regio del sen bramato pegno
<lb/>Fate di vostre glorie ogni cor pago:
<lb/>Nasca il Parto da voi, sol di voi degno,
<lb/>Di Zeffiro, e di Flora altera imago.
<lb/>Dal Padre i suoi costumi il Germe appigli,
<lb/>Ed i Padri germoglino ne’ Figli.
<pb n= "171"/>
<lb/>XXXII
<lb/>E, come l’onda sopraviene a l’onda,
<lb/>Così nasca di voi Serie novella,
<lb/>Che ne’ Figli Reali ogni hor feconda
<lb/>Al numero pareggi ogn’ alta Stella.
<lb/>E del ferro l’età per lor gioconda
<lb/>Non invidij de l’or l’età più bella.
<lb/>Ma presagisca ne’ germogli loro
<lb/>Il bel secolo d’or la Quercia d’oro.
<lb/>XXXIII
<lb/>Così mai sempre pretiosi, e fini
<lb/>Distenda il sacro Tronco i rami suoi,
<lb/>E di presagij nobili, e divini
<lb/>Adduca nova meraviglia a noi.
<lb/>Sian di Flora, e di Zeffiro i destini
<lb/>Concepir Regi, e partorir’ Eroi.
<lb/>Dicean; e giunti son, dove di Flora
<lb/>La Reggia famosissima s’honora.
<lb/>XXXIV
<lb/>E benche a la Città Zeffiro imperi,
<lb/>Pur da la Dea de’ fiori ella hà ‘l suo nome.
<lb/>Erge a le Stelle gli edifici alteri,
<lb/>E coronate d’or porta le chiome.
<lb/>Non più nudre nel seno odij guerrieri,
<lb/>Che d’ogni cor rubel le forze hà dome.
<lb/>Lieve a se stima il vincer’ i perigli,
<lb/>E per corona hà i suoi nativi gigli.
<pb n= "172"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Scendon’ intanto da la Nave i Dei,
<lb/>E come disse il Nume de gli Amanti,
<lb/>Il Tronco memorabile da lei,
<lb/>Per piantarlo nel suol, prendon festanti.
<lb/>E vi disegnan Tempio, ove i trofei
<lb/>Stian de la Quercia d’or; nè fluttuanti
<lb/>I moti de la Terra unqua paventi,
<lb/>O Giove contra lei fulmini avventi.
<lb/>XXXVI
<lb/>Altri de’ Numi gli alberi recide,
<lb/>Per far le travi al Tempio; altri ne’ monti
<lb/>Con agevole man sassi divide,
<lb/>E gli ordigni con l’opre altri hanno pronti.
<lb/>V’ è chi da l’alto in giù rotar si vide
<lb/>Superbi marmi; e da le dotte fronti
<lb/>Altri sudor stillaro, in formar vari
<lb/>Frontispitij Colonne, Archi, ed Altari.
<lb/>XXXVII
<lb/>Questi l’arene ravvolgeva, e quegli
<lb/>Stemprati sassi, ed acque ivi mescea;
<lb/>Ed i marmi lisciar, quai tersi spegli,
<lb/>L’Industria, e la Fatica si vedea.
<lb/>Ma chi lavori così eccelsi, e begli
<lb/>Formar sapesse con sovrana Idea,
<lb/>Era sol l’Arte, e la Virtù, che sole 
<lb/>Puon fabricar del Cielo anco la mole.
<pb n= "173"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>V’ è chi da saldi fondamenti altrove
<lb/>Pilastri ferma; e di cornice intorno
<lb/>Fà ricorrer bell’opra; e a le sue prove
<lb/>Rende il gran Tempio di bei fregi adorno.
<lb/>Ivi fia, che d’ogni ordine si trove
<lb/>Compartitura altera; e a i rai del giorno
<lb/>Tempio non sorse mai sì degno in terra,
<lb/>Come hor questo la mole ampia disserra.
<lb/>XXXIX
<lb/>Può vincer de’ gran Dei l’opra sublime
<lb/>L’edificio, ch’ al sacro Ammone eresse
<lb/>Africa polverosa, e l’alte cime
<lb/>Di quel, che caro a Cinthia Efeso havesse.
<lb/>Del duol del Parto sofferenze prime
<lb/>Flora intanto sostiene; e ogni hor’ oppresse
<lb/>In lei le forze il pondo arcano rende,
<lb/>Se non, che dal Consorte alito prende.
<lb/>XXXX
<lb/>Flora in Zeffiro vive, e per lui spira, 
<lb/>E da’ lumi di lui solo hà la pace.
<lb/>Poscia intorno a la Quercia ella s’aggira,
<lb/>E co’ bracci le fà nodo tenace.
<lb/>E dice, Ò Giove, i miei dolor rimira,
<lb/>Che solo da te spero aura vivace.
<lb/>Dice. E de l’aurea Quercia al piè si pone,
<lb/>E fausta il Parto a’ rai del Sole espone.
<pb n= "174"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Ond’ ella volta à la gran Quercia disse;
<lb/>Hor sì ch’ a pieno hò ‘l dubbio suono inteso,
<lb/>Ch’ in Dodona il gran Giove à me predisse,
<lb/>Che fia da Quercia il Parto mio disceso.
<lb/>Quercia cara, e beata; ove son fisse
<lb/>De’ Toschi le speranze, ed è compreso,
<lb/>Quanto Zeffiro mai da l’alte rote
<lb/>Ad honore de l’Arno attender puote.
<lb/>XXXXII
<lb/>Accolsero le Ninfe il Parto amato,
<lb/>E in bagno d’odoriferi liquori
<lb/>Purgar le membra al fanciullin bramato,
<lb/>E nembi vi stillar d’Arabi odori.
<lb/>Onde Zeffiro dice. Hoggi è svelato
<lb/>Ciò, che Giove accennò: fertili honori
<lb/>La Quercia n’ hà predetto, e i frutti suoi
<lb/>Fur di felice Parto annuntij à noi.
<lb/>XXXXIII
<lb/>O da me tanto desiata Prole,
<lb/>Che disgravando de la Madre il pondo,
<lb/>Quasi raggio primier de l’alto Sole,
<lb/>Per me giungesti à serenare il Mondo.
<lb/>A te da’ Campi de l’eterna Mole
<lb/>Il Ciel piova di gratie ogn’ hor fecondo:
<lb/>Io spirto sia, tu refrigerio al Core,
<lb/>E s’io Zeffiro son, tu sii l’Amore.
<pb n= "175"/>
<lb/>XXXXIV
<lb/>Disse. Ed à Giove consecrò l’Infante,
<lb/>E ‘l Tempio fù la Cuna a sì gran Nume.
<lb/>Indi a baciar del Fanciullin le piante
<lb/>Corse ogni vaga Ninfa, ed ogni Fiume.
<lb/>L’Arno a quei piè versò l’urna gemmante,
<lb/>E scosser l’Aure i fior da le lor piume.
<lb/>E co’ Fauni Silvan da Quercia incise
<lb/>Cuna, che di lavori hà belle guise.
<lb/>XXXXV
<lb/>Con dotte mani la Virtude, e l’Arte
<lb/>Ne l’opra consumando i proprij ingegni,
<lb/>Ivi scolpiron da la manca parte
<lb/>Di turrite Città lavori degni,
<lb/>Che quà ne’ campi lor veggonsi sparte,
<lb/>E là monti sublimi han per sostegni.
<lb/>E sonvi ancor quelle Città, che chiare
<lb/>Stendono i lor confini in seno al mare.
<lb/>XXXXVI
<lb/>V’ è Fiorenza, che nobile, e ferace,
<lb/>E d’Edifici alteramente vaga,
<lb/>Volta a l’opre de l’armi, e de la pace,
<lb/>Con le sue prove l’Universo appaga.
<lb/>Ogni Cigno per lei fatto loquace
<lb/>Voce d’eterno honor scioglie presaga.
<lb/>Come d’eterno merto anco in lei siede
<lb/>Valor, Prudenza, Maestade, e Fede.
<pb n= "176"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>V’ è Siena, che di Palla a l’opre è volta
<lb/>E teatro di scienze esser si mira,
<lb/>E la Virtude in lei mirasi scolta,
<lb/>Che con aure d’honor vita le spira.
<lb/>Nè men’ è Pisa in altra parte accolta,
<lb/>Ch’ ancor essa di Pallade s’ammira
<lb/>Esser famosa Reggia, e de l’amene
<lb/>Parti d’Italia ella è novella Athene.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>E v’eran’ altre, che la Terra accoglie
<lb/>Cittadi altere a meraviglie illustri,
<lb/>Che con la fama lor vittrici spoglie
<lb/>Han riportato da’ voraci lustri.
<lb/>E chi di forte il chiaro suon discioglie,
<lb/>E chi si vanta d’artificij industri.
<lb/>E quante son Cittadi, ivi son tante
<lb/>Reggie, ch’ offron tributi al Regio Infante.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Ma poi ne’ mari si vedean distinte
<lb/>Gran moli rassembrar ne’ seni torti,
<lb/>Per non esser da’ fiati Australi vinte,
<lb/>O abbattute dal mar, rinchiusi Porti,
<lb/>Che di valor, come di muri, cinte
<lb/>Sprezzan, chi l’arme ivi nemiche porti,
<lb/>Ed habbia à rio furor vano ardir misto,
<lb/>E pensi far di sì gran moli acquisto.
<pb n= "177"/>
<lb/>L
<lb/>Ma ben di te non taceran, Livorno,
<lb/>I miei deboli carmi, e ‘l frale ingegno,
<lb/>Poiche tu sol d’ogni eccellenza adorno
<lb/>Puoi meritar ne’ vasti mari il regno.
<lb/>Hà ‘l Valore, ed hà Marte in te soggiorno,
<lb/>A mille navi sei famoso segno:
<lb/>Ed a te drizza de’ volanti pini
<lb/>L’Oriente, e l’Occaso i curvi lini.
<lb/>LI
<lb/>Ivi in aspetti di terror graditi
<lb/>Vedeansi co’ lor liquidi volumi
<lb/>Lieti apparir sovra i Toscani liti
<lb/>Trecciati d’alghe i tributarij Fiumi.
<lb/>Ed a sì degna, e nobil pompa uniti
<lb/>Di bel piacere serenando i lumi
<lb/>Versavan perle; e d’oro havean corone
<lb/>L’Arbia, l’Era, la Chiana, Arno, ed Ombrone.
<lb/>LII
<lb/>Ma l’altra parte de la cuna hà scolti
<lb/>Di Zeffiro, e di Flora i primi amori,
<lb/>A l’hor, che dal Metauro ella quì volti
<lb/>I piè drizza, ed accresce i Toschi honori;
<lb/>E ne l’Etruria porta seco accolti
<lb/>Gli alti pregi, e i trofei de’ suoi Maggiori,
<lb/>Che dieder sotto a la gran Quercia d’oro
<lb/>A Valore, e Virtù campo, e ristoro,
<pb n= "178"/>
<lb/>LIII
<lb/>V’ è Sisto, e di Giulio il viso impresso,
<lb/>Cui sovra il colle altier del Vaticano
<lb/>Fu di serrare, e disserrar concesso
<lb/>Lo stellante del Ciel Regno sovrano.
<lb/>E gli altri ancora, che del germe istesso
<lb/>Vestiron manti d’Ostro, e nel Romano
<lb/>Cielo splenderon, qual più chiaro suole
<lb/>Choro di stelle sù l’eterna Mole.
<lb/>LIV
<lb/>Vi sono i Leonardi, e i Rafaelli,
<lb/>Ed i Giovanni, ed i Giuliani insieme,
<lb/>C’han pregi di virtude ogni hor novelli,
<lb/>E di sé propagar sì degno seme.
<lb/>E chi mai s’udirà, ch’ a pien favelli
<lb/>De’ Franceschi, e de’ Guidi, onde supreme
<lb/>Vantan’ a l’ombra de la Quercia d’oro
<lb/>Così gran Semidei le glorie loro?
<lb/>LV
<lb/>Di Zeffiro anco ammiransi i gran pregi,
<lb/>Ond’ egli chiaro di se stesso splende.
<lb/>E non men, che co’ Franchi invitti Regi,
<lb/>Co’ fortii Austriaci Eroi stretto si rende.
<lb/>D’ Augusto a se congiunto i vanti egregi
<lb/>In ogni clima glorioso stende.
<lb/>E ne l’Italia con altera prova
<lb/>De’ Re Toscani i primi honor rinova.
<pb n= "179"/>
<lb/>LVI
<lb/>Scorron’ i Legni suoi da l’Orto infido
<lb/>Sin’ a l’Occaso, e a mezo Giorno invitti.
<lb/>E da la man de’ suoi sovra ogni lido
<lb/>Miscredenti guerrier’ giaccion trafitti:
<lb/>Fin dove in stretto mar Sesto, ed Abído
<lb/>A’ nostri Legni i termini han prescritti,
<lb/>Van di Zeffiro i Legni in Guerra forti,
<lb/>A sperder gli empi, e seminar le morti.
<lb/>LVII
<lb/>Da’ rostri solo de le Navi avverse
<lb/>Ei fabricato hà bellici tormenti,
<lb/>E con l’armi lor proprie in mar disperse
<lb/>Hà mille schiere de le Maure genti.
<lb/>Hor’ in preda, hor’ in ceneri converse
<lb/>Hà d’Asia le Città, reca spaventi
<lb/>Sol del Giglio al gran segno; e rende dome 
<lb/>De’ Barbari le forze anco co’l nome.
<lb/>LVIII
<lb/>Ma tra popoli suoi di pace amico,
<lb/>Quanto sia giusto, egli altretanto è pio.
<lb/>Contra le forze del Livor nemico,
<lb/>E contra gli odij del nocente oblío.
<lb/>A la Virtude inferma il fianco antico
<lb/>Ristorando l’è Medico, e l’è Dio.
<lb/>D’oro per lui le Muse hanno i velami,
<lb/>E nel crin Febo hà di Smeraldi i rami.
<pb n= "180"/>
<lb/>LIX
<lb/>Giungon’ in tanto sù da l’aria à volo
<lb/>Con pretiosi ammanti; e ‘n foggie belle
<lb/>Al grand’ Infante scherzano dal Polo
<lb/>Ossequiose le Virtudi ancelle.
<lb/>E de gli eccelsi Dei lo scelto stuolo
<lb/>V’ accorre anco da’ regni de le Stelle.
<lb/>E chi l’ hasta, chi ‘l brando, e chi la clava
<lb/>Presagio di grand’ opre al Parto dava.
<lb/>LX
<lb/>Sol Giove in vece sua l’Aquila altera
<lb/>Mandavi amico, e a’ piedi de l’Infante
<lb/>Di vasto imperio degna messaggiera
<lb/>Vi depone la folgore tonante.
<lb/>A sì grand’ atto de l’eterna sfera,
<lb/>I Dei queste mandar dal sen festante
<lb/>Note d’honori; e l’aurea Quercia intanto
<lb/>Inchinò lieta i fertil rami al canto.
<lb/>LXI
<lb/>A così lieta, e fortunata Prole
<lb/>Il Ciel non neghi mai gioia, e sereno.
<lb/>Pronta ogni Stella da l’eccelsa mole
<lb/>A lei goda girar l’aspetto ameno.
<lb/>Per lei fiammeggi con bei lampi il Sole,
<lb/>E mostri i suoi candor Cinthia non meno:
<lb/>Nè l’ombra sorga da l’oscura Lete,
<lb/>Ma da gli Elisij a lei sparga quiete.
<pb n= "181"/>
<lb/>LXII
<lb/>Sotto Parto sì degno in erma parte
<lb/>Fia, che co’l suo furor, co’l suo terrore
<lb/>Tragga sbandito, e condennato marte
<lb/>Tra ‘l freddo giel de gli Arimaspi l’hore;
<lb/>La Pace, a cui sue gratie il Ciel comparte,
<lb/>Quì lunghe faccia amabili dimore.
<lb/>E per fonte, e per colle habbia il divino
<lb/>Apollo, ed ogni Musa, Arno, e Apennino.
<lb/>LXIII
<lb/>Cresci a Regij magnanimi pensieri
<lb/>Fanciul, nato d’Etruria a’ primi honori:
<lb/>La Terra sol di te degna hà gl’ Imperi,
<lb/>Ma le lodi hà Virtù per te minori.
<lb/>Giove in Dodona diè gli Oracol’ veri,
<lb/>E Venere nel Mar spirò favori.
<lb/>E a questo suon la Quercia, e ‘l Parto ancor.
<lb/>Riveriron di Zeffiro, e di Flora.
<lb/>LXIV
<lb/>Gode la bella Etruria; e in mille lochi
<lb/>Con ingegnosi spiriti di polve,
<lb/>Formando scherzi, e variando giochi,
<lb/>Tra il gel de l’Aria lieti ardori involve.
<lb/>Altrove tuoni d’innocenti fochi
<lb/>Dal cavo sen de’ bronzi suoi dissolve.
<lb/>E l’Aria da le voci intorno franta
<lb/>Ferdinando risuona, e ‘l Parto canta.
<lb/>Il fine del nono Canto.
<pb n= "182"/>
<lb/>Canto Decimo
<lb/>Argomento
<lb/>Giove il Bambino rapisce a l’alte Stelle;
<lb/>Duolsi, e si lagna Zeffiro con Flora,
<lb/>Ma Giove con presagij i Dei rancora,
<lb/>E promette d’honor Proli novelle.
<lb/>I
<lb/>Tra ricche fascie il Fanciullin Reale
<lb/>Entro l’Augusta cuna i dì godea;
<lb/>Tragge di cara luce aura vitale,
<lb/>E ogni alma Tosca al viver suo vivéa:
<lb/>La Fama spande a quei gran pregi l’ale,
<lb/>Che più bel Parto altrove non scorgéa.
<lb/>E ‘n dar le lodi, con la tromba fuori
<lb/>Mille sciogliea dal sen spirti sonori.
<pb n= "183"/>
<lb/>II
<lb/>Da gli antri cavi geminar gli accenti
<lb/>Udiasi l’Apennino à mille, à mille,
<lb/>E l’Arno palesar ne’ suoi contenti
<lb/>Dal sembiante d’amor dolci faville.
<lb/>Le Dive, e i Numi a novo scherzo intenti
<lb/>Liete da gli occhi lor versan le stille:
<lb/>E sù la cuna Castore, e Polluce
<lb/>Spandon de’ suoi bei raggi ampia la luce.
<lb/>III
<lb/>Lo scherzo ivi fù visto ordir suoi balli,
<lb/>Scorrer co’l Gioco nel Real soggiorno;
<lb/>E in un le Ninfe de le Tosche valli
<lb/>Più d’un serto intrecciar di fiori adorno:
<lb/>I Fiumi da’ lor liquidi cristalli
<lb/>Versar gemme nel Tempio; e vago il Giorno
<lb/>L’Oriente spogliar de’ suoi tesori,
<lb/>Per crescer’ a la pompa aurei splendori.
<lb/>IV
<lb/>Del nato Achille non così gli Achei
<lb/>Le pompe celebrar con lieti aspetti;
<lb/>Nè sì per Bacco alzarono trofei
<lb/>Gli habitatori de’ Tebani tetti:
<lb/>Nè tante gioie sù pe’ flutti Egei
<lb/>Delo mostrò, quando al bel dì concetti
<lb/>I suoi Gemelli partorì Latona,
<lb/>E per lor risonar Cinto, e Elicona.
<pb n= "184"/>
<lb/>V
<lb/>A sì gran plauso fin dal Cielo venne
<lb/>Giove de’ sommi Fati alto Rettore,
<lb/>E dibattendo l’Aquila le penne
<lb/>Formaron da quel moto aure canore.
<lb/>In mirar’ il Bambin Giove sostenne
<lb/>Attonito il suo ciglio per stupore;
<lb/>Poiche degna del Ciel vide la Prole,
<lb/>Ch’ era a la Terra un’ amoroso Sole.
<lb/>VI
<lb/>A tal Parto invaghisi il sommo Amante,
<lb/>C’ hà per amori suoi gloria superna,
<lb/>E scorse bene, ch’ il divin Sembiante
<lb/>Potea crescer’ al Ciel bellezza eterna.
<lb/>Tutto nel viso si mirò festante
<lb/>Rasserenar le luci; e da l’interna
<lb/>Parte per gli occhi il cor trasmise al volto,
<lb/>E’ l gran decreto in loro apparve scolto.
<lb/>VII
<lb/>Non sò, s’avido il Nume, od amoroso
<lb/>Di ritorre il Bambino a l’Arno elesse,
<lb/>Nè più goder’ in terra il dì gioioso
<lb/>Al pargoletto Regnator concesse.
<lb/>Di Giove al cenno (o Fato a’ Toschi odioso)
<lb/>Rapir sù ‘l tergo le Colombe istesse
<lb/>Di Citherea il Fanciullin Tirreno;
<lb/>E ‘l riposer sù ‘l carro a Giove in seno.
<pb n= "185"/>
<lb/>VIII
<lb/>Due notti in concepir’ Hercole al mondo
<lb/>S’affaticò la dolorosa Alcmena,
<lb/>E poi ‘l Nume produsse al dì giocondo,
<lb/>Ch’ a gli Empi fù di morte acerba pena.
<lb/>E quivi non Hercol nato, il dì fecondo
<lb/>Ritolto è de la Terra a l’aura amena;
<lb/>E verso il Ciel con nobili trofei
<lb/>S’inalza a crescer numero a gli Dei.
<lb/>IX
<lb/>Qual chi tocco da’ fulmini si miri,
<lb/>Tal Zeffiro dal duol dubbio s’arresta,
<lb/>Muto non torce de’ suoi lumi i giri,
<lb/>E tra cura, e stupor gela, e tempesta.
<lb/>Alfin gli affanni suoi scioglie in sospiri
<lb/>Volto a la Prole, che partiva; e ‘n questa
<lb/> Guisa sfogò del cor l’occulto duolo,
<lb/>E del martir fù testimonio il Polo.
<lb/>X
<lb/>Zeffiro hor sì, ch’ in occidente regni
<lb/>S’apparve a un punto, e sparve ogni tua speme;
<lb/>Tanti in terra, ed in mar contrari segni
<lb/>Fur certi inditij à te di doglie estreme;
<lb/>E più, che amori concepisti sdegni,
<lb/>In sparger voti a Deità supreme.
<lb/>Ah pria, ch’ io provi da le Stelle aita,
<lb/>Giove è fallace, e Venere è mentita.
<pb n= "186"/>
<lb/>XI
<lb/>Più non corra per me l’Arno al Tirreno,
<lb/>Che quest’ occhi potran con nembo ondoso
<lb/>A l’infelice, e lassa Etruria in seno
<lb/>Formar fiume più degno, e più famoso.
<lb/>Nè l’Apenin di selve atro, inameno
<lb/>Mostri più cigilo di terrori ombroso.
<lb/>A horror più grave questo sen dà loco,
<lb/>E de le selve hò gli spaventi a gioco.
<lb/>XII
<lb/>O come i mi fingea, ch’ Eroe Bambino
<lb/>Nascer dovesse da la Quercia d’oro
<lb/>A sollevar l’Italia; e ‘l suo destíno
<lb/>Fusse intrecciar’ il crin d’eterno alloro:
<lb/>Ed a Virtute l’adito divino
<lb/>In terra riaprendo, il suon canoro
<lb/>De’ Cigni ravvivar, che presso l’onde 
<lb/>Albergan d’Arno le fiorite sponde.
<lb/>XIII
<lb/>E già credea, che sovra il fiero Trace
<lb/>Hor sù le navi saettasse strali,
<lb/>E dentro il seno de l’Egeo vorace
<lb/>Aprisse a gli Ottomani urne fatali;
<lb/>Ed hora in terra, colmo il sen di face,
<lb/>Che Marte spira a gli animi immortali,
<lb/>Di formidabil’ Mori, e d’empi Setti
<lb/>Empisse i campi, ed ingombrasse i liti.
<pb n= "187"/>
<lb/>XIV
<lb/>Sì meritar poteva il grande effetto,
<lb/>Ond’ io ver la Caonia, e la mia Flora
<lb/>Drizzammo il volo a non vicino ogetto,
<lb/>E tra le Querce tue femmo dimora.
<lb/>A le tue voci era gioioso il petto,
<lb/>E n’ era lieta ogni sorgente Aurora;
<lb/>Ed altro Sol non desiai, che ‘l die,
<lb/>Ch’ era promesso a le speranze mie.
<lb/>XV
<lb/>O vana speme, ed o fallace giorno:
<lb/>Ch’ in ombre hai tramutato il tuo splendore;
<lb/>Fai nel Cielo per me fosco il ritorno,
<lb/>E gravi a Flora riconduci l’hore.
<lb/>(Lasso) credea, che nel divin soggiorno
<lb/>Non ritornasser mai voci d’errore,
<lb/>E che lunge da noi con bianco velo
<lb/>La Verità solo albergasse in Cielo,
<lb/>XVI
<lb/>A sì fiero destino io giunto sono,
<lb/>Che fin manca per me l’istesso Fato,
<lb/>Meglio a me fora, haver negato il dono,
<lb/>Che ritorre il Bambino a pena nato.
<lb/>Quando Flora dolente al mesto suono
<lb/>Ripiglia anch’ essa, e dice. E’ a noi mancato
<lb/>Prima, ch’ apparso, il desiato Infante,
<lb/>Di fragile desir speranza errante.
<pb n= "188"/>
<lb/>XVII
<lb/>Ah ch’ infeconda ero delusa in terra,
<lb/>Ed hor, che fertil sono, infesto hò ‘l Cielo;
<lb/>Regio Bambino il seno mio disserra,
<lb/>Ch’ in beltade adeguar può ‘l Dio di Delo,
<lb/>E dove Morte gli altrui Parti atterra,
<lb/>E fiera squarcia il lor corporeo velo,
<lb/>Mi toglie il Ciel la Prole; e ‘n dure prove
<lb/>Gli uffici de la Morte usurpa Giove.
<lb/>XVIII
<lb/>O voti vani, ed ò desir fallace,
<lb/>Poich’ è ‘l regno del Ciel volto a rapina.
<lb/>Non è stabile in terra humana pace,
<lb/>E manca fin nel Ciel la fe divina.
<lb/>Sembra la gioia in noi rosa mendace,
<lb/>Ch’ in se crede haver perla, ed è poi brina;
<lb/>Ch’ in un momento nata, a un punto è scossa,
<lb/>E co’l giro del Sol perde sua possa.
<lb/>XIX
<lb/>Dunque era d’ huopo, per cammin sì grave,
<lb/>Scontar tante, e sì rigide contese;
<lb/>Ed hor sù l’aria, hor ne la sacra trave
<lb/>Patir’ incontri, e sostener’ offese;
<lb/>S’ ad un tratto passar l’aura soave
<lb/>Dovea de le mie gioie; e a un punto accese
<lb/>Ammorzarsi le glorie anche in un punto;
<lb/>E starsi co’l piacere il duol congiunto.
<pb n= "189"/>
<lb/>XX
<lb/>Ah ch’ a la Terra, e non al Ciel produssi
<lb/>Il bramato dal Ciel Parto promesso;
<lb/>E se lui con rio duolo al giorno addussi,
<lb/>Perche goderlo a me non è concesso?
<lb/>Ah per me mal feconda io stata fussi,
<lb/>Se di torselo a Giove era permesso.
<lb/>La Sorte hà forze contra me rubelle,
<lb/>E invidia han de’ miei beni anco le stelle.
<lb/>XXI
<lb/>Tu pur’, o Giove, con la tua Giunone
<lb/>Potevi farti in Ciel fertile à gara,
<lb/>E de la Prole tua l’alta magione
<lb/>Render’ a voglie tue feconda, e chiara.
<lb/>E non rapire a me, chi le corone
<lb/>Del Regio sangue mio Bambin ripara;
<lb/>Ò pur con lui che non rapir me stessa,
<lb/>S’ è nel Figliol la Genetrice impressa?
<lb/>XXII
<lb/>E chi fia, che rapisca il corpo mio,
<lb/>E co’l mio Figlio il porti in aria a volo?
<lb/>Non tu Borea, ch’ a me contrario, e rio
<lb/>Tentasti sù per l’onde aggiunger duolo.
<lb/>E nè men da te, Zeffiro, desio
<lb/>Sù per le vie de’ venti alzarmi al Polo,
<lb/>S’ io di ristoro, e tu di ben sei privo;
<lb/>Tu senza spirto, ed io senz’ alma vivo.
<pb n= "190"/>
<lb/>XXIII
<lb/>Parto concesso à me sol per mio male,
<lb/>Fatto a’ desiri miei gioia nocente,
<lb/>Che havesti, nel partir, del Padre l’ale,
<lb/>A l’hor più lunge, ch’ eri a noi presente.
<lb/>E, mentre apparve il pregio tuo sì frale,
<lb/>Che ne’ suoi primi dì giacque languente,
<lb/>Mostrasti in lieve, e così breve volo,
<lb/>Che de la Dea de’ fiori eri Figliolo.
<lb/>XXIV
<lb/>Ah fussi io stata fra selvaggie piante
<lb/>Una mal nata Rovere infeconda,
<lb/>Hor non sarei di flebil duol stillante,
<lb/>Nè verserei quest’ alma in tepida onda.
<lb/>Ahi che val, che d’honor Diva mi vante,
<lb/>S’ anco d’immortal duolo io son feconda?
<lb/>Figlio, s’ in Ciel la Madre tua non sdegni,
<lb/>Hanno horti anco di fiori i sommi Regni.
<lb/>XXV
<lb/>Ma che? raccolta fra quei campi alteri
<lb/>Potranno le mie lagrime cocenti
<lb/>I fiori inaridir de’ sommi imperi,
<lb/>E di pompe privar gli horti lucenti.
<lb/>Ah Madre infausta; e che mal nata speri,
<lb/>Se sol, mercè del Ciel, spirti hai dolenti?
<lb/>E ti diero esser Dea gli eccelsi Giri,
<lb/>Per far, ch’ eterna in te la pena spiri.
<pb n= "191"/>
<lb/>XXVI
<lb/>Figlio, ove sei? dove te n’ gisti a un tratto,
<lb/>E la Madre a i martir lasciasti in preda.
<lb/>Ah torna, torna; nè per te disfatto
<lb/>In me lo spirto a tanti affanni ceda.
<lb/>Anzi, per te seguir, d’augello in atto
<lb/>A me, come l’amor, lo spirto rieda.
<lb/>O docle mia follía: del Cielo ei gode;
<lb/>E la Terra, e la Madre odia, e non ode.
<lb/>XXVII
<lb/>Infausti pregi miei; poich’ a me noce
<lb/>Haver’ in terra Deità produtto.
<lb/>Deh fosse stata la Sirena atroce
<lb/>In mare a me dolce cagion di lutto:
<lb/>O pur’ a danni miei Borea feroce
<lb/>Havesse in ghiaccio tramutato il tutto;
<lb/>E di macchie l’ardor spargendo il volto,
<lb/>M’havesse in fiamme, e ‘n cenere disciolto.
<lb/>XXVIII
<lb/>A pien ne’ danni miei sarei beata,
<lb/>E più, che d’esser Dea, mi vanterei.
<lb/>Ogni herba sia per me d’odori orbata,
<lb/>SIen vedovi di fiori i Colli Hiblei;
<lb/>Più non sorga di gigli incoronata
<lb/>L’Alba da’ lidi Eoi; nè più di bei
<lb/>Germi dipinti sù l’etherea mole
<lb/>Fiorito splenda il rinsacente Sole.
<pb n= "192"/>
<lb/>XXIX
<lb/>Desti da’ centri suoi Dori cruciosa
<lb/>Contra gli abeti altrui procelle infeste,
<lb/>E ‘n travagliare i pini ogni hor sdegnosa
<lb/>Accresca flutti, e accumuli tempeste:
<lb/>Apra il Suolo voragin spaventosa,
<lb/>E inghiotta in un co’ monti le foreste;
<lb/>Ed arrechi a l’Etruria ultima sorte
<lb/>Lutto, danno, sospir, lamento, e morte.
<lb/>XXX
<lb/>Sì sì l’Inferno da l’oscura sede
<lb/>Quivi sorga a goder Cielo migliore,
<lb/>Che trovar l’alma mia ne’ Numi crede
<lb/>De la Stigia magion fede maggiore.
<lb/>Proprie de l’Orco non son più le prede,
<lb/>Ch’ anco Giove a rapine hà volto il core.
<lb/>Novi Dei sù le Stelle egli riserra,
<lb/>E già satio del Ciel, spoglia la Terra.
<lb/>XXXI
<lb/>Ah che dico, ò mio Parto? a Giove in seno
<lb/>Godi i fulmin’ trattar con destra imbelle,
<lb/>E ne le fascie stretto il mar Thirreno,
<lb/>E ‘l suol Tosco difender da le Stelle.
<lb/>Ah che divisa in due già vengo meno,
<lb/>Nè miro più del dì le luci belle.
<lb/>Oppressa dal martir lo spirto hò stanco;
<lb/>Gemo, anhelo, sospiro, agghiaccio, e manco.
<pb n= "193"/>
<lb/>XXXII
<lb/>Cadde Flora a tai note; e parve rosa,
<lb/>Che tocca fusse dal vampar del giorno,
<lb/>Qual’hor sù noi da la magion focosa
<lb/>Vibra Apollo il suo stral di raggi adorno.
<lb/>Zeffiro accorre; e di cader dubbiosa
<lb/>Anch’ esso hà l’alma; ed ogni ogetto intorno
<lb/>A mostra sì spiacevole, e nocente
<lb/>Prende di lutto imagine dolente.
<lb/>XXXIII
<lb/>Quando Giove, ch’ à noi svela gli arcani,
<lb/>Con accento immortal tai note scioglie.
<lb/>Del sempiterno Rè gli honor sovrani
<lb/>Non soggiaccion a’ lai, nè mertan doglie.
<lb/>Pendon dal giusto Cielo i casi humani,
<lb/>E dal Ciel’ han virtù le basse voglie.
<lb/>Non sia, chi pugni al gran voler superno,
<lb/>Hà note di diamanti il Cielo eterno.
<lb/>XXXIV
<lb/>Feconda, qual’ io dissi, in terra Flora
<lb/>Prodotto hà Germe, ma di Stelle degno;
<lb/>Ond’ hora meco tra le Stelle ancora
<lb/>Ascenda, a posseder più nobil regno.
<lb/>E meco i fulmin tratti, onde tal’hora
<lb/>Giaccia lo stuolo de’ Rubelli indegno.
<lb/>Sien partite fra noi le nostre prove;
<lb/>Ed habbia la Toscana anco il suo Giove.
<pb n= "194"/>
<lb/>XXXV
<lb/>Sorgon Zeffiro; e Flora a tali accenti,
<lb/>Ed in se riedon da la scossa acerba;
<lb/>Poi segue il gran Tonante. A’ vostri eventi
<lb/>Il Cielo amico miglior sorte serba,
<lb/>E ‘n terra fia de’ vostri Eroi potenti
<lb/>La Gloria chiara, e la Virtù superba.
<lb/>Poiche dal Ceppo lor, c’ honor diserra,
<lb/>Havran Numi le Stelle, Eroi la Terra.
<lb/>XXXVI
<lb/>La Quercia, che nel Tempio alta si mira,
<lb/>Fato vi sia di fortunate prove;
<lb/>Ch’ ov’ ella hà Regij rami, anch’ ivi spira
<lb/>Il ben del Cielo, ed il favor di Giove.
<lb/>Nata a gran Germi, de l’Invidia in ira,
<lb/>A l’Arno produrrà pompe ogni hor nuove;
<lb/>E dal suo Ceppo sorgerà, chi torni
<lb/>Del secol d’oro i fortunati giorni.
<lb/>XXXVII
<lb/>Porgete incensi a Quercia sì sublime,
<lb/>Ch’ ella di sì gran Tempio è degna in terra.
<lb/>E da lei penderan le spoglie opime
<lb/>De’ rubellanti soggiogati in guerra.
<lb/>Ed in vece di lui, c’ hor sù le cime 
<lb/>A’ farsi Nume il volo suo disserra.
<lb/>Quanti rami la Quercia erge felice,
<lb/>Tanti Regi a l’Etruria il Ciel predice.
<pb n= "195"/>
<lb/>XXXVIII
<lb/>Disse, e la Quercia raddoppiar si vide
<lb/>Dal vivo tronco un’ ordine fecondo
<lb/>Di rami, onde vie più d’ un forte Alcide
<lb/>Sorga in Etruria, a sollevar’ il Mondo;
<lb/>Sì che per loro contra torme infide
<lb/>Vanti Honore, e Virtù trofeo giocondo.
<lb/>E fertil de la Rovere il rampollo
<lb/>Più d’ un Marte produca, e d’ un’ Apollo.
<lb/>XXXIX
<lb/>Riprese Flora, e Zeffiro la speme,
<lb/>Che già languía ne’ sospirosi cori;
<lb/>E non più l’Apennin, nè l’Arno geme,
<lb/>Ma porge al novo Dio supplici honori.
<lb/>Con Giove intanto a le magion supreme
<lb/>Ascende il Figlio de la Dea de’ fiori;
<lb/>E sotto auspicij d’alta Quercia d’oro
<lb/>Speran l’Arno, e l’Etruria i Regi loro.
<lb/>XXXX
<lb/>Per farlo habitator del sommo Cielo,
<lb/>E consecrarlo Dio de l’alta parte;
<lb/>Al Fanciullino il Regnator di Delo
<lb/>I bei tesori de’ suoi rai comparte.
<lb/>Sparsel Giove di nettare; e co’l telo
<lb/>Segnò l’Infante il bellicoso Marte.
<lb/>Ed Hebe, che d’età fresca si vede,
<lb/>Eternitade al Tosco Nume diede.
<pb n= "196"/>
<lb/>XXXXI
<lb/>Il Nume anch’ esso, ch’ a Cillene impera,
<lb/>E nel Tempio, ch’ in se la Quercia accoglie,
<lb/>Sceso è con gli altri Dei da l’aurea sfera,
<lb/>Desta co’l Caduceo placide voglie.
<lb/>Ed anche Alcide, c’hà la Clava altera,
<lb/>E nel tergo sostien selvaggie spoglie,
<lb/>Di quelle il Nume pargoletto copre,
<lb/>E spira a l’alma memorabil’ opre.
<lb/>XXXXII
<lb/>Lieta sin Giuno pe’l Toscano Infante
<lb/>Si vide serenar l’Auguste ciglia;
<lb/>E a tal’ aspetto fin la Regia amante
<lb/>De’ Numi in Ciel, gioì di meraviglia.
<lb/>Cangia il suo lutto in pace Arno festante;
<lb/>E Zeffiro speranza a pien ripiglia,
<lb/>Che germoglio novel per far gli sieno
<lb/>Di Giove il suono, e di sua Flora il seno.
<lb/>XXXXIII
<lb/>A le promesse del Tonante vaghi
<lb/>Frenan’ intanto i popoli le cure;
<lb/>Nè più rivolgon le lor luci in laghi
<lb/>Di pene, che nel cor serban più dure.
<lb/>Ma come il Sole fuor di nube appaghi
<lb/>La vista in terra con sue luci pure,
<lb/>E del chiaro splendor dispieghi i rai,
<lb/>Consolan’ i martir, temprano i lai.
<lb/>XXXXIV
<pb n= "197"/>
<lb/>Miran il terzo Cosmo in alto acceso,
<lb/>Che ne l’Etruria nato, è ‘n breve tolto
<lb/>(Volando a’ pregi sempiterni inteso)
<lb/>Hora a la cura de’ Thirreni è volto;
<lb/>Con plettri armoniosi, onde sospeso
<lb/>Il Vento in aria stassi, in carmi sciolto
<lb/>Cantan’ hinno di lode; e dal suo speco
<lb/>L’Apennino a le lodi è nobil’ Eco.
<lb/>XXXXV
<lb/>Applaude il Tosco regno, ed ogni Fiume,
<lb/>Che mesto rivolgea torbide l’onde,
<lb/>Par, che sereni il lagrimoso lume,
<lb/>E di novelli fior vesta le sponde.
<lb/>Nè fia, ch’ in pianto gli occhi suoi consume
<lb/>Il Choro delle Dee, che tra feconde 
<lb/>Selve gemean ne’ monti, e per le valli
<lb/>Crescean’ a ‘ fonti tepidi cristalli.
<lb/>XXXXVI
<lb/>Adoran Cosmo; e a la novella spene,
<lb/>Che loro diede il Regnator Tonante,
<lb/>Rivolgon l’alme, ch’ in gioir serene
<lb/>Tralucon dal lor placido sembiante;
<lb/>E mostran fra gli affanni ancor’ amene
<lb/>Aure di bel desir, che non errante
<lb/>Tempra in loro i pensieri, ed ogni noia,
<lb/>Vago tramuta in bel seren di gioia.
<pb n= "198"/>
<lb/>XXXXVII
<lb/>Poscia volta a la Quercia ogni alma amica
<lb/>Accende i cori di gradite voglie;
<lb/>E contra l’ire de l’età nemica
<lb/>Voti al futuro Regnator discioglie.
<lb/>Depone il Verno rio l’asprezza antica,
<lb/>E verdi a’ preghi altrui veste le foglie;
<lb/>Ornasi il bosco di smeraldi intorno,
<lb/>E ‘l campo si colora a’ rai del giorno.
<lb/>XXXXVIII
<lb/>Pe’l futuro Regnante ogniun’ a gara
<lb/>Sù ‘l tronco de la Quercia i voti appende;
<lb/>E fatta la lor gioia ogni hor più chiara,
<lb/>Mostran, che speme in lor più certa splende.
<lb/>Chi sù la Quercia d’or, chi sovra l’ara
<lb/>Di più pregiati fior’ serto sospende;
<lb/>E chi d’Arabia, tra sacrati ardori,
<lb/>Al venturo Bambin diffonde odori.
<lb/>XXXXIX
<lb/>Altri un’ ammanto tempestoso d’oro
<lb/>Fisso nel tronco pretioso pone;
<lb/>Ed altri con finissimo lavoro
<lb/>Rilucenti di gemme erge corone;
<lb/>E chi di scettro nobile tesoro
<lb/>Sù i rami de la Quercia alto ripone.
<lb/>E del novello Parto a i Toschi Regi
<lb/>Ravviva le promesse, e accerta i pregi.
<pb n= "199"/>
<lb/>L
<lb/>Dal novo Parto già l’Etruria attende
<lb/>Più fortunati de’ suoi giorni i lampi,
<lb/>A l’alta speme i pregi suoi riprende,
<lb/>E l’Etruria riveste i fertil’ campi:
<lb/>L’Italia anch’ essa a novo honor s’accende,
<lb/>Fia, ch’ orme in se di salda Pace stampi:
<lb/>E ‘l Mondo speri da’ Toscani Infanti
<lb/>D’Honore i pregi, e di Virtude i vanti.
<lb/>Il fine del decimo, &amp; ultimo Canto.
<p>Per non haver potuto l’Auttora ritrovarsi ogni volta presente alla correzzione delle stampe, in alcune Pagini del Poema vi è scorso qualche punto, o virgola di avantaggio, che verrebbe a mutare il senso, e come anco lettere false, o altro errore, tutto si lascia all’interpettatione del discreto Lettore.</p>
<lb/>A pagina 131. ottava terza. verso ottavo. Fra corretto. far
<lb/>A pagina 158. ottava terza. verso ottavo. lucenti corretto. paventi 
</body>
</text>
</TEI>
Margherita Costa's Flora Feconda (1640): A Basic TEI Edition Galileo’s Library Digitization Project Galileo’s Library Digitization Project Crystal Hall OCR creation Gaby Papper OCR cleaning Jenna Albanese XML creation the TEI Archiving, Publishing, and Access Service (TAPAS)
360 Huntington Avenue Northeastern University Boston, MA 02115
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Based on the copy at the Library of Congress Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana. In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori. Costa, Margherita Florence Massi, Amador; Landi, Lorenzo 1640.

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Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana. In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori Flora Feconda Poema di Margherita Costa Romana. Flora Feconda. Poema di Margherita Costa Romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana: In Fiorenza Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori. Serenissimo Grand Duca. Flora feconda presentasi a V.A.S. che ha potuto secondar di gratie la mia fortuna, e dalla bassezza inalzarla a’ meriti de’ suoi favori. Turbavasi in me l’animo, che nelle lodi del gran Parto io non potessi far dimostratione di dovuto ossequio, e di convenevole contentezza, ma dal soave Zeffiro della sua cortesissima benignità rasserenata, per celebrar l’altezza delle glorie Toscane, sono uscita anch’io a campeggiare co’l parto del mio basso ingegno. Per mostrare il mio desiderio, se non le forze, ho destata la mia Musa a fare il suo sforzo; Onde ho preso ardimento di formare opera di Poema: ma se V.A. da altri attenderà saldezza di gemme di virtù, hora da me, che porto la fecondità di Flora, si contenti, ch’io le porga in tributo tenerezza di fiori; più alto il mio ingegno non si solleva. E però s’ella ha in testa corona d’oro, io questa de’miei fiori a’suoi piedi presento. Ben’ egli è vero, che con infelicissimo avvenimento morte alle felicità del Mondo il Sereniss. Gran Principino ha rapito; ma coronansi anche di fiori le tombe de’morti Infanti. L’Altezza della Quercia, che l’ha prodotto, con la sua sublimità l’ha generato al Cielo, ed il Signore per pegno delle grandezze Toscane a sè l’ha chiamato; poiche le primitie devonsi a Dio. Sicura intanto della fecondità della Real Consorte prego ne’ miei caldi voti più stabil vita al futuro Parto, e per sua maggior consolazione facendole profondissima riverenza, le auguro dal Cielo altretanta ricompensa di felicità, quante sono le obligazioni della mia servitù. Di Firenze questo dì 26 di Genaio 1640 DiV. A Sereniss. Humiliss. diuotiss. ed obligatiss. Serva. Margherita Costa. A’ Lettori Benigno Lettore, nel presente Poema habbi riguardo al sogetto, se non alle mie fatiche, ed appagati dell’occasion dell’opera, se non del mio rozo, e poco avventurato talento; dal quale, se non bene espresso vedrai gli effetti del mio pensiero, sì quello compatisci, come l’estremità del tempo; poiche trovandomi occupata in altre compositioni, e desiderosa anch’io d’uscire con felice augurio all’applauso delle comuni allegrezze Toscane, in pochissimo Tempo è stato da me composto. Il Poema era ristretto in nove canti, che alludevano alli nove mesi del Parto della Serenissima Gran Duchessa; ma per l’infausto successo della Morte del Serenissimo Infante, a quelli ho aggiunto il decimo, che è il rapimento fatto da Giove del Real Bambino. Contentati dunque di godere nella rozezza del mio canto l’amenità degli due finti Numi, mentre pregandoti dal Cielo ogni bene, ti ricordo ancora, che dove troverassi Fato, Fortuna, Destino, Cielo, Dio, e parole simili s’intende che si parla favolosamente, e per allettatione poetica, e non per offendere la Pietà Cristiana. Argomento Il Poema è distinto in nove Canti, alludendo a’ nove mesi del Parto della Serenissima Gran Duchessa: ma poi per l’avverso avvenimento della repentina morte del Serenissimo Gran Principino si è aggiunto il decimo Canto. L’invenzione, acciò sia nota, è appoggiata a persone e luoghi noti, e Favole chiare. Quì dunque Flora con Zeffiro manchevoli di Prole (rappresentanti il Serenissimo Ferdinando Secondo Gran Duca di Toscana, e la Serenissima Vittoria della Rovere Gran Duchessa) consigliansi con la Deità di Venere, e d’Amore; passano scontri di vari casi, e vanno all’Oracolo di Giove nella Caonia, dove è la Selva Dodonea, che per mezzo di Colombe, e di Quercie dà risposte certissime al Mondo. Hanno risposta, e dentro Nave, data loro da Giove, dove l’Albero è una di quelle Quercie sacre, (e quì s’allude a Casa della Rovere) ritornano nell’Etruria, le parole dell’Oracolo si verificano, e si celebra la loro Fecondità. E poi segue la giunta del rapimento fatto da Giove. CANTO PRIMO Flora, che da Greci fu detta Cloride, e Zeffiro si lamentano, come tutto il Mondo sia per loro fecondo di vaghezze, ed essi nell’Etruria, ove hanno posto la loro Reggia, non possino havere fecondità di Prole. Venere intanto con Amore ne’ giorni lieti di Maggio scorrendo la marina, e ritiratisi su’l mezzo giorno in un’Antro amenissimo della Toscana. Quivi giunge Zeffiro, ed ammiratosi degli scherzi, e pompe della Dea, e poi espostole le sue querele, da Venere intende, che solo da Giove in Dodona s’hanno le vere risposte. Zeffiro parte. CANTO SECONDO Zeffiro torna a Flora, e persuasala di andare all’Oracolo di Giove in Dodona, ove dalle Colombe, Uccelli di Venere, e dalle Quercie, Arbori di Giove, s’attendono le vere risposte. Determinano partire. Zeffiro in un bel mattino fabricata bellissima nuvola parte con Flora per aria, e trapassando, e vedendo le vaghezze del mare godono, e giunti al golfo delle Sirene, mentre queste con suoni, e canti s’affaticano ritardargli, Zeffiro soavemente spira dalla nuvola, sì che a quel fiato, i Cigni delle sponde vicine ragunati fanno così dolce armonia, che confuse le Sirene s’affondano, ed essi salvi, e lieti trapassano. CANTO TERZO Drizzano il volo verso la Sicilia, e visto uno amenissimo luogo, ivi smontano, ed erano i Campi bagnati dal Fonte d’Aretusa: quivi sono accolti dalla Ninfa, ed essa narra loro gli antichi amori di Alfeo con lei, ed intanto giungendo Alfeo canta le vaghezze di Flora, e di Zeffiro, ed i diletti d’Amore. CANTO QUARTO Seguono sovra la nuvola il viaggio in Feacia, dove è il Re Alcinoo, e da lui inviati a lautissima mensa; essi in ricompensa gli rendono i Campi ricchi d’ogni fecondità di piante, e di fiori, sì che il luogo diviene un’incomparabil’horto di perpetua amenità, ove si descrive l’eccesso delle maraviglie terrene. CANTO QUINTO Ultimamente su ‘l mare giungono a vista del lido della Caonia, dove è Dodona, ove di ghiande si vive, e si descrive quivi essere l’Età dell’oro rimasta. Entrano nel luogo dell’Oracolo, e Zeffiro offerti i doni a Giove, e Flora sparsi i prieghi, le Quercie, e le Colombe rispondono. Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole, Che stenderà l’impero a par del Sole. Dopo haver quivi dimorato molti giorni, e fatte continue feste al Tempio, tornano al Lido, ed in vece della nuvola, trovano una Nave, che ha per Arbore una di quelle Quercie sacre: entrano, e risolcano il mare verso l’Etruria. CANTO SESTO Aquilone inimico di Zeffiro nel ritorno, mentre questi vogliono entrare nel Faro di Sicilia, opponsi alla Nave, e falla errare altrove. A quel moto scotesi Nettunno, tranquilla il mare, e incatenato Aquilone alla Nave, ordina a gli Dei, e Dee marine, che accompagnino sì felice ritorno de’ vaghi Amanti alle rive dell’Arno. CANTO SETTIMO Aci, che è uno de’ Dei de fonti, ed era in questa pompa, visto la bellezza di Flora, e d’amore fortemente acceso scordasi della sua bella Galatea; e Polisemo dal monte vedendo la Ninfa, che abandonata dolevasi, rinova i vecchi amori: giungono in tanto Zeffiro, e Flora all’Isola Eolia, e visto l’antro del Re de’ Venti, gli consegnano Aquilone incatenato; Euro per alcuni giorni li festeggia con varie danze d’Aure; e di Venti. Aci pentito ritorna a gli amori di Galatea. Flora, e Zeffiro partono. CANTO OTTAVO Annoiata da gran caldo Flora prova un male, che le conturba il Parto, e par, che la sparga d’alcune macchie (e qui s’allude al male del Vaiolo della Sereniss. Gran Duchessa.) Per il che ritorna con Zeffiro nell’Eolia, dove per opera di Glauco Flora risanasi; e da ivi partono, e da Tritone Araldo del mare sentono le lodi de’ loro Maggiori. Dopo entrando nel mar Tirreno, Arione sopra un Delfino li si fa incontro, e canta su la Lira le grandezze dell’Arno. CANTO NONO Venere, ed Amore incontrano la pompa degli Dei marini, e Flora, e Zeffiro; e dopo molti scherzi, e giochi marini si vide l’Albero di Querica della Nave germogliare, e partoririe ghiande d’oro; ed intanto scorto l’Oracolo adempirsi, smontano su’l Lido, e dentro nobil Tempio dall’Arte, e dalla Virtù fabricato ripongono la Nave, e l’albero della Quercia d’oro. Finita sì grand’ opera Flora a piè della Quercia espone bellissimo fanciullo: accorrono tutte le Deità, e con doni cantano all’Infante eternità d’honori. CANTO DECIMO, ET ULTIMO Giove chiama in Cielo il nato Bambino, e dopo gran lamenti di Zeffiro, e di Flora in virtù della Quercia d’oro promette loro più stabile Prole, ed i Numi al decreto divino si consolano. Si stampino l’infrascritti Canti se però così piace al Reverremdissimo P. Inquisitore. D. il di 12. Novembre 1639. Vincenzio Rabatta Vic: di Firenze. Si possono stampare in Fir. li 13. Novemb. 1639. Fr. Gio. Inquisit. Gen. di Fir. Alessandro Vettori Senat. Auditore di S.A.S. CANTO PRIMO Argomento Privi son Flora, e Zeffiro di Prole, Ond’ ei l’evento a Citherea richiede; Ed ella dice. A Giove haver dei fede, Ch’ in Dodona haver dido oracol suole. I. Musa, dettmai il suono, onde la Prole Di Zeffiro, e di Flora in carte spieghi; E s’altri bere in Helicona suole, Febo di bere in Arno à me non neghi. Ove sono grandezze al Mondo sole, De’ carmi l’armonia l’anime leghi, E, se le chiome altrui cinge l’alloro, Incoroni i miei crin la Quercia d’oro. II Già più non veggio a tante gioie amari Spender’ i flutti placido il Terrno; Ma di cor alli rivestiti i Mari Aprir tranquillo a vaghe Ninfe il seno: Già la Diva di Cipro co’ suoi cari Augelli fende il liquido sereno; Apre Giove gli arcani; e da Dodona. Lieti fati la selva à noi risona. III Sù sù, con crine d’oro, e piè di gemme Danzin le Stelle ne l’eterne sfere; Del Tosco mar le nobili Maremme Sien di Tesor non men, che d’onda, altere. Più di smeraldi l’Apennino ingemme, Che di frondi, le piante: a amiche schiere D’aure vezzose, ventilando ardori, Piovin da’ Ciel d’ Amor nembri di fiori. IV Fernando, che de l’Arno il freno reggi, E contra ‘l Mauro vincitore spiri: E ne’ remoti, Orientali seggi Per te la Tracia Luna essangue miri. Con felici a’ miei voti amiche leggi Non sdegnar di far paghi i miei desiri; Per te provi l’oblío superbo crollo, E sii de la mia Musa unico Apollo. V Non bramo ne’ miei carmi altro Elicona, Che l’Apennino tuo, dove non verna; Ma sol d’augelli armoniosi suona Maestrevole scherzo, e gara eterna: Poich’ a le glorie tue rimbombo tuona; Che co’l tuo nome gli altrui nomi eterna: E de le lodi tue chiare, e divine L’Oceano, e ‘l mar’ Indico è confine. VI Mentre Flora con Zeffiro feconda Quest’amena d’Italia antica parte, Sia l’alma con bei voti in te gioconda, Come in me son d’Amor liete le carte. Per me de l’Arno sù l’amica sponda Mira tue gioie in questi Numi sparte. E’n un co’l nome di Vittoria impresso Ne l’imagini lor godi te stesso. VII Per tratto d’anni la vezzosa Flora Con Zeffiro in amor giunta vivea; L’una per l’altro hor sospirava, ed hora L’altra da gli ozii altrui pace trahea. Se quegli mira in lei la vaga Aurora; Questa in quei chiari lumi il Sole havea. Né v’era parte in lor senza vaghezza; E son cambi tra lor luce, e bellezza. VIII Ambo traggon da Numi origin degna, E ‘n un co’l Mondo nacquero a’ Mortali. L’una à vestir di fiori i campi insegna, E diffonder d’odor nembi vitali; L’altro del bel seren ne’ campi regna, E di rose odorate impenna l’ali: Ma sovra l’Arno, che di gioie ondeggia, Hanno unito il piacer, commun la Reggia. IX Ond’ è, che Flora à Zeffiro rivolta Dice. O’ de l’alma mia parte gradita, Non fia, chi veggia la mia fè disciolta, Ove il tuo fido amore à me fia vita: A te donata, ed à me stessa tolta Serbo quest’ alma, che sol teco unita In me se n’ vive, e dolcemente prova, Che ne’ cambi del cor gioia si trova. X Del chiaro memorabile Metauro Le sponde famosissime albergai, E co’ tesori miei di fertil’ auro Fin l’infeconde Roveri indorai. Ma quì del placido Arno al bel tesauro Amo per te rivolger’ i miei rai; E godo, che l’altissimo Appennino Sia de gli amori miei dolce destino. XI Per te, Zeffiro mio, tempro il mio foco, E l’ale tue, co’l ventillar, mi sono Sì bel ristoro, c’ho le fiamme a gioco, Ed aure di contenti hò per tuo dono: In me sereno sol di pace hà loco, Ed hò posto ogni cura in abbandono; Se non quanto al mio seno è dolce cura Di Zeffiro d’amor soave arsura. XII E ben’ il sanno questi colli intorno, C’hor per te vesto di fioriti argenti; Hora di pompe d’or vivace adorno, Ed hor gli’ ingemmo di rubin ridenti: Applaudon vagamente al mio soggiorno Co’ pinti vanni amorosetti i venti: Sempre spuntan gli odori, ove m’aggiro, E, per te, Dea di Primavera spiro. XIII Ma del nome, per altri, io fertil vivo, E, per te, manca son d’amata prole: Non è ‘l monte, per me, di parti privo, E spunto mille Figli a’ rai del Sole: Ha fertili, per me, le sponde il Rivo, Per me, d’amor languiscon le viole; Ed odorati Germi, e ricchi Figli Son l’auree rose, e gli argentati gigli. XIV E pur Madre non son di picciol Nume, Che scherzi à te bambolleggiando innanti: Cieca à me sono, se per altri hò lume, E vie più, che d’honor, degna di pianti. Ah che la Deitade in van profume In me de l’alte glorie i sommi vanti, E và per l’aure leggiermente à vuoto Più di Zeffiro lieve ogni mio voto. XV Disse; e grondar da gl’ occhi de la Diva Anco fur viste numerose stille; E sì calde del duol le vene apriva, Che sembravan le gote arse faville. Onde beltà languía, qual sù la riva L’alga si mira, cui da cento, e mille Scosse di flutti è ripercosso il crine, E da l’onde, ove hà vita, hà le ruine. XVI Zeffiro all’hor, cui l’altrui duolo, e pena, Altamente sospira, e quasi anch’ esso Da’ lumi fuor versando amara vena, Havea tutto al dolor dato se stesso. Ma, perch’ altri consoli, egli serena Il ciglio dagli affanni in se dimesso; Scaccia a forza il cordoglio, e con l’aspetto Invita Flora à tranquillare il petto. XVII Anzi ei di propria mano il pianto terge Da gl’ occhi della Diva; e dolci baci In quel volto imprimendo, i pensier’ erge A serenar le cure in lei mordaci. E dice. Altera Dea, non ben s’immerge L’animo in aspre pene; à te vivaci Dato hà gli spirti eternamente Giove; E in noi le gioie sol di Dei son prove. XVIII Sù sù le stille, che turbaro il core, Fuggan dal Cielo del divin sembiante; Nè più d’affanni tempestoso horrore L’animo ingombri di piaceri amante. Non hà due giorni, che la Dea d’Amore Da Cipro in questo mar volte hà le piante, E quì co’l figlio è giunta in sù ‘l Tirreno, Per recar’ al mar Tosco almo sereno. XIX Come ben sai, sù ‘l cominciar di Maggio, Ella se n’ viene à queste rive amica, Riveste i rami suoi la Quercia, e ‘l Faggio Nuovi fior sù la sponda il Rio nudrica. E ‘l Sole, sol per lei vi stende il raggio, E d’amori, e di rami il bosco implica. Là vuò stender’ i passi, e da Ciprigna Saper, s’ha ‘l Ciel per noi sorte benigna. XX Ella oracol ne fia; qual’ à sua Prole, Giove a lei diè d’amori esser Nodrice, E quanto di facondo hà questa mole, Tutto degli amor suoi parto è felice. Onde, se’l Ciel tra noi mentir non suole, Sol la gratia da lei sperar ne lice: E, s’ a lei produciam frutti d’odore, Ella ne renda à noi parti d’amore. XXI Consolosi la Diva, e come in stelo Languente fiore, se vi giunge il lampo Del Sole amico, s’erge lieto al Cielo, Ed arricchisce di sue gemme il campo, Sì Flora del suo duol ritolta al gelo Rinvigorissi a’ detti, e caldo vampo Al cor l’augurio le stillò di lei, Che de gli huomini è Madre, e de gli Dei. XXII Al nominar di Venere si sente Flora riprender lena, e al suo Consorte Volgendo ciglio di seren ridente, Spira à quei voti favorevol sorte. Al gioir de la Dea partir repente Furon viste le nebbie à l’aria forte, E ‘l Ciel da le caligini ritolto Puro a le Stelle d’or render’ il volto. XXIII Lieto più, che mai suol, Zeffiro a l’hora Di rose più vermiglie impenna l’ale, E benche parta, pur congiunto a Flora Nel cor porta di lei l’alma immortale. Tronca da speme acceso ogni dimora, E ratto al suo desio và più di strale. Lieve se n’ vola, e al suo passaggio senti Formar l’onde, e gli augelli emuli accenti. XXIV Ogni nube da lui fugata cede, E ‘l Sol nel Cielo più sereno torna; L’argento a’ rivi più purgato riede, E di novi smeraldi il prato s’orna. Ovunque il volo indirizzar si vede, Primavera di fiori ivi soggiorna; E al dolce sospirar d’ aura gentile Di vive gemme s’incorona Aprile: XXV Giunge alfin, dove argheggia antro frondoso Lussureggiante d’hedere, e di rose, E con volo, c’hà suono armonioso, Trascorron’ a la cura Aure vezzose. L’albergo è sol de’ pregi suoi pomposo, Ed hà per suoi tesor gioie amorose. Quindi lunge se n’ và Tuono, e Baleno, E v’è la Pace, e scherzavi il Sereno. XXVI Pura è la fonte, che serpeggia fuori, Di muti pesci albergo innamorato: Vi sono di Piacer misti gli ardori; E di tranquillità messaggio è ‘l Fato. Non vi posan’ augei, se non canori, E sol ripieno di bei Cigni è ‘l prato; E ‘l Mare al suono del famoso speco E’ di gratie, e d’ amori anima, ed Eco, XVII In ricco seggio di bei fior tessuto Stava di Pafo la ridente Diva; Parla di sua beltà l’ albergo muto, Ed ogni pianta à quegli sguardi è viva. L’ Aura istessa, che vola, in suono arguto Di scherzi favellar vaga s’udiva; E ‘l Mar, ch’ è tal’ hor fiero, ivi soave Chiamava a gli otij suoi lieta ogni nave. XXVIII Ben’ egli è ver, che nel più crudo verno, A l’hora ch’ Aquilon crudo tempesta, E armato il forte sen di ghiaccio eterno Le selve scote, e le campagne infesta, La Diva, che de gli animi hà ‘l governo, Entro il sen de l’ Egeo passa l’ infesta Stagion de l’anno, e tra piacevol riti Suol de l’Isola sua gioir ne’ liti. XXIX Stà nel suolo nativo ella, ch’ a Gnido Le leggi impone, ed in quei Ciprij campi De le delitie sue tenendo il nido, De le vittime ardenti hà cari i lampi. E diffusi a la Dea dal popol fido Sono ben mille odori, onde sù gli ampi Spatij del verde pian veggonsi immensi A le Stelle fumar globi d’incensi. XXX Chi di Colombe i doni offerti haveva, E di sacrato vin sparsi gli altari: E chi diserti di bei fior godeva Haver’ appesi ordin superbi, e vari. Quando cessati i voti, ecco si leva Sovra alto carro a volo, e varca i mari; E per temprar del caldo Ciel la noia, Posar ne’ Toschi lidi hà per sua gioia, XXXI Perche dopo c’hà scosso il sommo Toro La sua Virtù da l’infiammato volto, E ‘l Sole diffondendo i raggi d’oro, Con giorni più sereni à noi s’ è volto, Ella ama in compagnia del vago choro, Che forman gl’ Amoretti a volo sciolto, Varcare, ove d’Etruria il mar spumeggia, E ne’ lidi Tirreni hà la sua Reggia. XXXII Quì soggiorna la Dea, come in suo trono, E quì gode Cithera, ed Amathunta; E pon l’istesso Cipro in abbandono, Pur che non sia da’ Toschi ella disgiunta. Hà l’Italico Cielo per miglior dono, E quivi sol per lui d’amore è punta; E gode, che per sede a lei novella Sia trono di beltà l’Italia bella. XXXIII Qui si scorge la Diva in lieto aspetto Fugar dal lieto sen l’ombre di noia, Con piè di molle avorio intorno al tetto Vedeasi à gara saltellar la Gioia. Il Canto fuor d’armonioso petto Note disciorre contra ‘l duol, ch’ annoia, E ‘l Suono co’ suoi musici concenti Arrestar l’onde, e inprigionare i venti. XXXIV Il Ballo anch’ esso discioglieva intorno Di salti, e di rivolte arti novelle, E dilettoso ancor, del Tempo a scorno, Il Gioco vi spendea l’hore più belle. E la Pace tra loro à par del giorno Cingea candida veste; e le ribelle Cure lasciano in preda agli otij amici, Di pene, e di pensier stuoli nemici. XXXV Ma sovra gli altri festeggiando in giro Scotonsi gli Amoretti à cento, à mille; E vaghi di dolcissimo martiro Chi strali ministrava, e chi faville. Mandavan dal lor sen più d’un sospiro, Con l’acque confondevan le scintille, E tesson per la Dea cinti superbi Di gioie estreme, e di dolori acerbi. XXXVI Chi sovra un sasso raffinar lo strale Ingegnavasi ardent; e chi le piume Al Sol tergeva; e, con dibatter l’ale, Aure spirava à l’amoroso Nume. E chi di varij fior nembo vitale In quel dì radoppiava oltre il costume, Quasi presago, ch’ ivi il Dio de’ fiori Giunger doveva, ad impetrare Amori. XXXVII Meraviglie dirò. Visto il sembiante Di Zeffiro, quei fiori in belle guise Ricolorirsi; e al lor’ aspetto amante Con bei spirti d’odor l’Aria sorrise; E con Cupido Venere festante Ad ischerzare, à vezzeggiar si mise, Sì che del Tosco mar sovra le sponde S’ammutirono i venti, e tacquer l’onde. XXXVIII Quando Zeffiro volto al Nume ardente Disse. O de l’alme eccelsa Genetrice, Creato in seno a l’acque Idol possente, De la Terra, e del Mondo alma Nodrice, Sotto l’imperio tuo sorge ridente Quanto di vago hà Giove, e di felice. E sol per tua cagion, de’ ghiacci in ira, Nascer dal sen del Verno il fior si mira. XXXIX Solo per te fù Cerere feconda, E produsse per te regia la Prole. Latona de’ suoi parti andò gioconda Madre a la Luna, e Genitrice al Sole. E Theti ancor sù la cerulea sponda Di figli riempì l’ondosa mole: Regnano i parti tuoi sù l’aureo trono, E i chori de gli Dei sono tuo dono. XXXX Anzi fin partorir fai questi campi, A cui diè nome il tumido Tirreno; E cento Ninfe nascer sù per gli ampi Regni de l’onde sue miri non meno. Hora steril per me tra ghiacchi avvampi, Ed infelice hà la mia Flora il seno; Provo ne’ parti miei fato infecondo, E nome più, che Nume, io sono al Mondo. XXXXI Io non offesi già l’altera Giuno, Che contra me, qual’ Hercole, s’adiri: Nè di Cinthia turbai già fonte alcuno, O’ à l’onde, aspersi di veleno, i giri. Nè già macchiar di Pallade inportuno Ardij gli honori, o i tumidi desiri Adeguai di Tifeo, ch’in campo d’ire A le Stelle inalzò monti d’ardire. XXXXII Pur’, ò Venere, amico a te le piante De’ cari mirti io vesto, e ‘l bosco adombro; E più de’ tuoi, che de’ miei beni, amante Sol di placido sonno il cor t’ingombro; E, quando Sirio in Cielo arde anhelante, L’arsa vampa del Sol da te disgombro, E vane son de gli Amoretti l’ale, Se non hai da’ miei vanni aura vitale. XXXXII Amore istesso, che tra ‘l foco acceso Del zoppo Dio s’avvolge, accorto anch’ ei, Che da le proprie piume è in van difeso, Hà sol per refrigerio i fiati miei. Tal’ hor sù ‘l colle, o sovra il pian disteso, Dopo haver riportato alti trofei, Languido giace, e sol da le mie piume Spera i sonni addolcir lo stanco Nume. XXXXIV Anzi se dopo il Verno, o Diva altera, Fai ritornar la Primavera a noi, E vaga dopo la stagion più fiera L’aria intorno addolcisci à gli Amor tuoi. Io non men, che mi sia di Primavera, Di te son nuntio, e quanto al mondo poi Mostri di bello, io presagisco à pieno, Di Venere, e d’Amor nuntio sereno. XXXXV E pur, come in me sian prove ribelle, Tu me di prole genitor non fai: Inutili per me giran le Stelle, Ed infecondi il Sol distende i rai: Ma, s’a’ tuoi cenni son mie brame ancelle, Propitia a’ voti miei mostrati homai, E chi fior ti produca, ed aure spiri, Di bei parti d’amor fertil si miri. XXXXVI Da gli oracoli tuoi, Venere, io pendo, Bramo risposta a’ voti miei seconda; E da le voci tue già spirto prendo, E spero amica del Tirren la sponda. Ch’ altro, che dolci note, io non attendo Da Diva, ch’ è d’ Amor Madre gioconda; Nè speme altra di pregio me si serra, Che fecondar de’ parti miei la terra. XXXXVII Venere a l’hor con un sorriso disse Volto à lui, ch’attendea gioconde note, Ciò, che il Tonante per tue gioie scrisse Ne’ gran volumi de l’eterne rote; E ciò, che servo di quei cenni fisse Là fra le Stelle il Fato, à me non puote Esser sì noto, ch’ à te chiaro sveli I gran decreti de gli occulti Cieli. XXXXVIII A me la cura di rotare è dato, E tra Pianeti annoverarmi anch’io. Ma chiare penetrar l’arti del Fato E’ pregio sol del fulminante Dio: Egli, ch’ impera sovra il Ciel Stellato, Move, e frena quei lumi à suo desio; E sono in terra di sua voglia ancelle Sovra gli alti Zaffir l’eterne Stelle. XXXXIX Così dunque gli Oracoli da lui Attender devi, ò Zeffiro amoroso, Che senza fallo à le proposte altrui Apre da l’alte rote il tempo ascoso. Ch’ io sol di rinfiammar gli spirti tui Vaglio a’ placidi scherzi, e sol gioso Hor tu provi per me con la Consorte Tra gli amplessi il tenor de la tua sorte. L Ma non fia vano, che tu volga il piede Ver me, Zeffiro amato, e sciolga il volo: Queste Colombe mie, ch’ entro la sede Amoreggiando temprano il lor duolo; E, dove in aria il mio desir richiede, M’alzan tal’ hora sù le nubi al Polo, Voce, ch’ a gli altrui voti il ver risona, Tra fatidiche Quercie hanno in Dodona. LI Ivi il Tonante da quei boschi scioglie Note, che sono altrui nuntie del vero, E con stupor de le spiranti foglie V’ hà la sicura Fè nido sincero. Ond’ ivi co ‘l tuo vol’ drizza le voglie, Ch’ egli d’ogni decreto è Padre altero; E l’eccelso destin fia chiaro al die Fra le sue Quercie, e le Colombe mie. LII A queste voci entro lo speco liete Le Colombe di Venere gioiro, E impatienti de la loro quiete Concepiron nel sen novo desiro; Nè più de le lor brame hebber per mete O gemito formare, o scior martìro: Ma co’ vezzosi augei garrir festanti, E di gemito in vece hebber’ i canti. LIII Quì Mergo non s’udìo snodare accento, E chiamar sovra il lido altre procelle: Nè presaghe di pena, e di tormento, L’Upupe errar sotto notturne stelle: Ma l’Alcioni in note di contento Liete invocar del Sol l’auree facelle; E de’ Cigni felici à l’armonia Sonar la spiaggia, e rimbombar la via. LIV L’Arno con le sue Ninfe in un seguaci Inver l’Etrusco mar volsero l’onde, E scotendo di perle urne vivaci, Fer de’ tesori lor ricche le sponde. Così scotendo l’amorose faci Là, dove ha ‘l Ciprio mar rive feconde, Seguon le Ninfe sù le conche in schiera L’innamorato Dio, ch’ a l’alme impera. LV Onde l’Etrura à la sembianza vaga Di Zeffiro, e di Flora anch’ essa è lieta, Di pace a quei ppiacer’ gode presaga, E ne’ diletti altrui l’animo accheta. E ben’ in Flora, e in Zeffiro s’appaga Il regno d’Arno; poi ch’ in lui, qual meta, (Cinto il crin d’odorifere corone) Zeffir’ con Flora la sua Reggia pone. LVI Tra così varij scherzi il Vento amico Inchinando colei, che l’alme frena, Move da l’antro, e sovra il lido aprìco Ver Flora indirizzando, il Ciel serena. Sì, che parte per lui Borea nimico, Ride tra fiori la campagna amena; E ‘l mar con l’aure, e ‘l campo con gli augelli Son di fausto gioir nuntij novelli. Il fine del primo Canto. Canto Secondo Argomento Sovra nube con Zeffiro gioconda Flora sen parte. Ad arrestarli intanto Van le Sirene; ma de’ Cigni al canto, Vinte moion’ infide in seno a l’onda. I Flora in herboso pian volta à la cura De begli horti Tirreni, ivi cogliea Con ma vie più di bianche nevi pura L’ardente fior de l’amorosa Dea. E vie più viva la spirante arsura Sotto le mani sue far si vedea; E d’insolito odor l’Aere intorno Diffonder vago, e innamorare il giorno. II E non meno de’ gigli anco gli avori Con gli alabastri de la mano prende, E di corona in guisa, onde gli odori Spargansi a l’alto Ciel, torti li rende: Ma de la destra sua prede maggiori Vedeansi le Peonie; onde s’accende Il campo di fin’ ostro e ‘l suo tesoro La ricca piaggia non invidia à l’oro. III Amica la Viola ancor vi coglie, Che de’ pallidi Amandti il volto imìta. Il Tulipan, che con gemmanti spoglie De’ bei tesori le richezze addìta: Il Gelsomin, che de l’argento accoglie Entro gli argenti suoi l’età gradita. E prede son de la fiorita mano Ciò, che ‘l Messico odora, e ‘l Peruano. IV E dicea. Deh che val cangiar di Cielo, E del Metauro haver lasciati i campi, Se splende à me da lo Stellato velo L’infausto Ciel con infecondi lampi? E Sol ne gli horti, sù ‘l materno stelo Son de’ miei vanti honor superbi, ed ampi Mirar con vane pompe dilettose Nascer’ i gigli, e germogliar le rose? V Ma perche sono vagamente al mondo I parti miei di vive gemme ornati, E mentre il Cielo folgora infecondo, D’odorate ricchezze ingemmo i prati, E rendo a l’Alba, ed a gli Dei fecondo L’horto immortal de’ regni bei stellati, Se prego unqua di merto al Cielo ascese, Io spero Cielo a’ voti miei cortese. VI Quanto l’alato Zeffiro se n’ giunge A lei messaggio de la Dea d’Amorel E come alto desire il cor gli punge, Sì ratto à lei spiegò gli accenti fuore. E disse. Ogni aspro duol da noi sia lunge, Poich’ è lieto piacer scorta a buon cuore. Vidi l’antro di Venere; e da lei Hebbi saggia risposta a’ desir miei. VII Ella, ch’è figlia del sovran Tonante, A cui son chiari i più riposti arcani, Ama, che sol dal Nume fulminante La fé s’attenda de’ destin sovrani; Onde per suo consiglio inver Levante Forza è, ch’ i passi indirizziam lontani; Ed amici in Dodona a’ nostri affetti Tra Quercie, e tra Colombe udiamo i detti. VIII La bella Citherea propitio affetto Promesso a’ nostri voti ella hà clemente. Onde in noi può di gioia empirsi il petto, E l’alma tranquillarsi in noi ridente. Ch’ ella di Giove è figlia, ed à l’aspetto Di lei se n’ fugge ogni pensier dolente. Ove sien giunti in un Venere, e Giove Gioia si sparge, e contentezza piove, IX Di Dodona le Quercie a te fian care, Se spesso in sù ‘l Metauro ombra ti furo. Al suono de la Dea placossi il Mare, Fiorì la Terra, ed hor’ il Cielo è puro. Ciò, ch’ a le luci di presagio appare E’ nostro invito; e già nel cor figuro Udir tal suono, ch’ in risposte liete I sembianti tranquilli, e l’alme acchete. X Con me, Flora, convienti a la gran via Prepararti bramosa, e sciorre i voti, Che deve a l’alto Nume anima pia; E sacrare al gran Padre i cor devoti: Fra Toschi più dimora hor non si fia, Drizziamo in altri lidi à noi remoti. Tra Quercie care, e tra Colombi amati Giove, e Venere amici habbin’ i fati. XI Al nominar de le sue Quercie Flora, Ov’ ella à l’ombra riposar si suole, Gli spiriti rinfranca, e ‘l sen ristora, Nè brame nel cor lieto altre più vuole. Sdegna ne’ campi suoi far più dimora, Fatta antiosa di novella Prole; E tra le Quercie di Dodona altera Facile a’ voti suoi Giove ne spera. XII Zeffiro al bel piacer de l’alma Dea, Che già si scorge al gran viaggio accinta, Soave pace in se d’amore havea, E d’alte gioie la sembianza tinta. Con riflessi di sguardi si scorgea L’allegrezza fra lor starsi indistinta. L’uno ne l’altra scintillava, e fuori Non meno dei desiri ardean gli amori. XIII E già dal mare se n’ tornava a noi Nuntia del Sol la rugiadosa Aurora, E di se colorando i prati Eoi, Rassomigliava in Ciel novella Flora. Ond’ à lo scintillar de’ lampi suoi Quà il Rio s’imperla, e là ‘l Mone s’indora; E ciò, che ‘l Mondo in se chiuder si mira, Gioia nudre, ardor move, e vita spira. XIV Oltre l’usato, sù nel Ciel sereno Giove stendeva il manto suo lucente; Euro non si scotea, ch’ a l’aria il seno Vaglia con l’ale sue fender nocente; Taccion le frondi dentro il bosco ameno, E mormorìo soave ha ‘l Rio corrente: Di vivaci rubini il Dì scintilla, E Giuno senza nubi il Ciel tranquilla. XV Del Tosco regno il sen varcano i Numi, Hor’ i colli passando, ed hor’ i piani; Si coronan di Gigli intorno i Dumi, E riveston le Rose ostri sovrani. Perle da l’urne lor versan’ i Fiumi, E modi v’ hà la Gioia alteri, e strani: E le Città, dove i lor piè drizzaro, D’oro, e di gemme i Regij sogli ornaro. XVI Sì nel varcar del Nume trionfante, Che de le viti hà dilettevol cura, Gioir colà nel florido Levante Si vide l’odorifera pianura: Di novelle vaghezze il suo sembiante Adornò preziosa la Natura; E per far ricca mostra in gemme espresso Tutti i tesor vi sparse il Cielo istesso. XVII Riconoscon gli Amanti in più di un lato L’Arno, che per quei campi s’attraversa, Ov’ Era, ed Elfa corre; e ‘n più d’un prato Arbia il tesor de le sue linfe versa; E quanto bagna à breve tratto nato L’Ombrone, che la via nel mar conversa, (Abbandonando il letto suo nativo) Del corso in breve, de la vita è privo. XVIII Giungono al fin, dove il Tirreno abonda D’argentee spume, e d’humidi Zaffiri; Ed havvi porto, ch’ in ricurva sponda Imprigiona de l’acque i vasti giri. Placida starsi, e senze crespe l’onda In seno tranquillissimo vi miri; E l’ancore riposte, e avvolto il lino Non aleggiano i remi, e posa il pino. XIX Quivi Zeffiro, e Flora il piè ritenne, E frenò ‘l tratto de la lunga via. Raccolse in se le volatrici penne, E pose in opra ciò, ch’ il Ciel desia. Da le miniere più pregiate ottenne, Ove stassi l’argento, l’or vi sia, Purissime le nebbie; e in un da’ prati Trasse vapor di nuvoli odorati. XX Anco da’ fiori più pregiati ei trasse Sottilissimi humor, perche più lieve La pretiosa nuvola formasse, Onde gir sovra l’aria à volo deve. La nube à quei vapor, lucida fasse, E nel sen puro il guardo altrui riceve, E par’ aria, ed è nube; ed è si mista, Ch’ in un vi si confonde anco la vista. XXI Dal seno spande chiari lampi intorno, E par, che lo splendor’ ivi s’annidi: Al balenare di quel raggio adorno Vaghi scintillan ripercossi i lidil E sembrano, ch’ il Sol da quel soggiorno A noi rinato il dì novello guidi; Se non, ch’aure spargendo d’odor care, Può la nube del Sole anco avanzare. XXII Del Porto à vista, che sù ‘l lido è posto, Poggian sovra la nube i Numi amanti, Erran con plauso di chi mira; e tosto S’erge la nube a l’altrui luce inanti. Ma pur non cela il suo tesor nascosto, C’ hà di sembianza luminosa i vanti. E la sede, ch’ a lor ne l’aria porge, Tanto più chiara appar, quanto più sorge. XXIII Se n’ varcan lieti; e veggion sovra l’onda Là scogli contra il Cielo armar la fronte, E quà vie più d’ un’ Isola feconda Verdeggiante sù ‘l dorso haver’ un monte. Co’l pondo ivi Città gravar la sponda, Quivi sgorgare in mar vie più d’ un fonte; E con ondosi, rapidi volumi Varij in sen del Tirren correr’ i Fiumi. XXIV Passan sù l’aria il mar’ Etrusco à volo, E miran poi, dove il gran Latio impera, E rinchiude Cittadi in ampio soulo, Che di gran Reggia hanno sembianza altera. Con l’ampia mole lor s’ergono al Polo, E con lor’ ombre adombran l’alta sfera, E non men, che Città ne’ campi sui, Rassembrano Provincie a gli occhi altrui. XXV E dicevan gli Amanti. A questa parte Quanti, deh quanti popoli rivolti Vedransi paventar l’armi di Marte, E in lacci andran di servitude avvolti. Gli habiti augusti lor posti in disparte, Ed à la libertà fin’ i Re tolti, Dal Latio astrtti in sanguinosa guerra Riveriran la Reggia de la Terra. XXVI Tributo il Mondo fia del chiaro impero; Servo il Partho fra nodi andrà non meno; Incatenato fia l’Arabo arciero, E ‘l carro seguirà vinto l’Armeno: Gli Afri in se scossi dal lor fasto altero, Del giogo soffriranno il grave freno; E l’Egitto obliando opre, e costumi, Nel Latio inchinerà più degni Numi. XXVII Anco il Britanno indomito, e feroce Accrescer deve il numero a’ trofei; Il Batavo, ch’ in guerra hà spirto atroce, Adorerà l’Imperio de gli Dei. Verran del Tebro à l’honorata foce Gli habitanti de’ gelidi Rifei. E tra ‘l rigore placidi, e graditi Dal Latio apprenderà la Scithia i riti. XXVIII Fin’ i mari deposti i loro orgogli, E raffrenati i flutti, e gli odij loro; Per li trofei del Tebro i duri scogli Ravvolgeran di trionfante alloro: Il mar’ Egeo da’ suoi cerulei sogli E ‘l Caspio manderà servil tesoro; E di Cipro la sponda; e l’Oceano Sarà trofeo del vincitor Romano. XXIX Vedeansi in tanto sù per l’onde amare Solcare i flutti veleggianti i pini; E, quasi ombrando il Sol, nel vasto mare Spandersi à l’aura numerosi lini, Sì che liete in mirar l’Anime care Predicevano à se dolci i destini; E ne la nube con gentil maniere Colmavano il lor sen d’alto piacere. XXX Scogevan poscia, ove del Sol la Maga Prole in belve cangiava i corpi humani; E d’offuscar la ragion nostra vaga Godea Mostri mirar sù ‘l lido insani. Ma, perche il Ciel de la virtù s’appaga, Fur contra Ulisse gli artificij vani; Ed al canto per lui le voci sparte Fù vil di Circe incantatrice l’arte. XXXI Vider poi, dove Enea sopra pendic D’alte rupi honorò di nobil tomba La gravosa d’età cara Nudrice, Sì che la fama ancor chiara rimbomba. E ‘l luogo rimirar, per cui felice Di Virgilio rammentasi la tromba, Mentre chiaro à noi fe di Palinuro Al suono de la Fama il fato oscuro. XXXII Indi si scorge, ove in gran tomba giace Di Partenope bella il corpo algente, Ed ogni lingua sol per lei loquace Nel sen de l’onde rimbombar si sente: Il mar sonante, che per lei non tace, Hà ne le lodi sue flutto eloquente; E da quell’ urna escon del giorno a’ regni Mille Fenici d’immortali ingegni. XXXIII Giungono intanto, dove in secche arene Di beltà micidiale horridi mostri, Albergano vaghissime Sirene, Piacere infausto di quei salsi Chiostri. Per far difesa da nocenti pene, Non fia chi contra lor saldo si mostri, Che fin ne’ vezzi han flebili le sorti, E vincon, co’ lor canti anco i cor forti. XXXIV Di fetide ossa è ricoperto il lido, E per mille cadaveri è nocente, Ne le vaghezze acerbamente infido, Ove sin l’herba giacesi languente: Più, che ne l’Orco, alberga in questo nido La Parca, horror del Tartaro cocente; E ‘l Fato con la Morte ivi a tutt’ hore Adopra l’ira, e essercita il furore. XXXV Ergono le Sirene in alto i guardi, E mirano la nube errar volante; Ond’una con accenti a l’hor men tardi Si reca harpa sonora al petto inante, E saettando, quai veloci dardi, Note, che di piacer fin l’aria errante A quel suono arrestaro; e i proprij venti Languiro imprigionati à quelli accenti. XXXVI Ove, Zeffiro, il volo amico stendi, Ove, Flora, t’aggiri, alma vezzosa? Sù l’aria variabile à che prendi Strada, ò leggiadra Coppia, altrui dubbiosa? Ah più facil ti fia, se ‘l vero intendi, Dimora trarre in sù ‘l terren gioiosa. E ‘n letto d’herbe tra lo scherzo, e ‘l gioco Temprar del seno inamorato il foco. XXXVII E chi non fia, ch’ à musica dolcezza Non ami essercitar gli atti d’amore? E, s’arde il core a la gentil bellezza, Non gli sien refrigerio aure canore? Sù ‘l campo con soave placidezza Scherzano l’aure, ed amoreggia il fiore; Mà tra concenti di ruscel sonoro Han le lor contentezze, e gli amor loro. XXXVIII Non pria ritorna Primavera à noi, E coloriti ne ridona i prati; E, vezzeggiando con gli amori suoi, I poggi rende di sue gemme ornati, Se tu, vago Usigniol, co’ canti tuoi Non habbia i regni del seren purgati, E teco Progne dolcemente snodi Musice tempre, e dilettosi modi. XXXIX Venere presso il mare hà sede eletta, E de l’impero suo stende il confine; Perche, se ‘l Figlio à dolce ardor l’alletta, E le spira d’amor vampe divine, Al mormorio de’ mari si diletta De le sue cure rintuzzar le spine, Spiriti nudre d’ardor vago accensi E desta al suon soavemente i sensi. XXXX Anzi Giove, ch’il tutto in Cielo frena, Se con Giuno tal’ hor dimorar suole, E ne la region di Stelle amena Essercitar d’amor le gioie vuole; Non meno tra diletti alma hà serena, Ch’ in udir l’armonia de l’alta mole; Gode, in Ciel, di Giunon l’amato ardore, E l’armonia de’ Cieli, è suon d’Amore. XXXXI Sì dicea la Sirena, e già già Flora A quegli accenti intenerir si vede, E, in rai d’amore scintillando fuora, Già già calava da l’aerea sede. Se non ch’ in tanto con piacevol’ ora I campi del seren Zeffiro fiede; Dibatte l’ale, che di rose pinge, E l’aria de’ suoi fiati intorno cinge. XXXXII Soavemente spandesi gradito L’alto susurro de l’amabil Vento; E come entro giardin di fior vestito Tacito l’odor gira in un momento; Così lo spirto suo sù ‘l mar, sù ‘l lito Erra tacitamente; e per contento A lo spirar di Zeffiro si mira, Ch’ ivi di Cigni stuol canoro gira. XXXXIII Quanti il Caistro suol da’ lidi suoi Esporre à l’aure placide d’Aprile, E quanti d’Asia la palude à noi Ne diè di vago armonioso stile; Quanti, o Meandro, ne’ gran giri tuoi Dolce n’alletti, e non ti prendi à vile Tardar’ i flutti, per udire il suono; Da Zeffiro quì tratti à gara sono. XXXXIV Snodan’ al suon di Zeffiro festanti I Cigni armoniosi accenti lieti, Sì che gentil ne’ regni suoi spumanti A sì dolce armonia temprasi Theti: Maggior non ohebbe del sereno i vanti L’Aria nel sen de’ campi suoi quieti; E l’Aura a’ Cigni dilettosi intenta Rai di gioia dal volto anch’essa avventa. XXXXV De’ Cigni a l’armonia l’altro, ch’ in Cielo Splende ne’ campi de l’eterne Stelle, Odesi a gara sù ‘l gemmato velo Formar d’alta armonia tempre novelle. Sfavillava di gioia il Dio di Delo, E sembianze mostrava altrui più belle; E con unite melodie fra tanto Eran la Terra, e ‘l Cielo emuli al canto. XXXXVI Le Sirene à quel suon restan confuse, E attonite di lor taccion dolenti, Ch’ i Cigni, e ‘l Ciel le più canore muse Vincer potean di tempre, e di concenti. Nè qual’hor’ entro il suol Giove rinchiuse I Giganti, Amor diè si lieti accenti; O’ Venere a’ trofei del forte Enea, Come Natura al suon lieta godea. XXXXVII Disperse l’Empie i lor canori legni Franser ne’ sassi de l’incolta sponda; Di Zeffiro, e di Flora i vanti degni Detestando s’immersero ne l’onda; E come il fallo la vergogna insegni, Abborriscon del dì l’aura gioconda; Giacquero in mare, e de’ lor vani orgogli Furon teatro, e spettator’ gli scogli. XXXXVIII Cadeste, o Fere, che tra noi l’imago De la beltade rassembrar potete, Poiche, qual voi, l’aspetto anch’ essa hà vago, Ma mostro, è formidabile di Lete. Il dolce è de l’amaro in voi presago, La Vita somigliante, e Morte sete; E non men la Beltà gioia è mentita, E horror di morte hà nel fiorir di vita. XXXXIX Ne l’affondar de le Sirene infeste Sì la sponda del Mar da’ flutti è scossa, Che per timore in quelle parti, e in queste De’ Morti s’agitar pallide l’ossa: L’arene sotto il pondo lor funeste Tumultuaro in aria; e la percossa Rassembrò terremoto a l’ hor, ch’ il seno L’imprigionato Cauro apre al terreno. L Le serpi, ch’ ivi s’avvolgevan voraci Di sugger de’ cadaveri hor’ il sangue, Ed hora le midolla, a l’hor fugaci S’appiattano; e la fame in loro langue: Altri mostri frà lor non men rapaci Sbigottiti s’inselvano; ed essangue Ivi mirossi la sembianza pura In aspetto d’horror cangiar Natura. LI Ma la Nube, ch’ in alto errar si mira, Al dipartir di lor più chiara splende; Tal, dove di caligini s’aggira Globo, ch’ oscuro al Cielo il volto rende; Se ne’ campi de l’aria il vento spira, E l’ale infaticabili vi stende, Puro il dì torna; e sù l’eccelsa mole Di rai più fini s’incorona il Sole. LII Flora intanto con Zeffiro scherzando Dal periglio se n’ gia salva, e festante; Ogni cura più grave hà posto in bando, E sol de’ suoi piacer pinto hà ‘l sembiante. Nè men Zeffiro anch’ ei l’aria solcando, Se n’ gia gradito, e baldanzoso amante. E d’amore avvempando, e di gioire De le Sirene deridea l’ardire. LIII Vittoriosi raddoppiaro i Cigni A quella gioia i canti lor graditi;; Sprezzando i Fati rigidi, e maligni Fer lieti al suono rimbombare i liti. De le sponde i confin non più sanguigni Serban memoria, che la strage additi; Ma di Zaffiri il mar forme hà più vive, E di fiori per Flora orna le rive. Il fine del secondo Canto. Canto Terzo Argomentno. Giungon gli amati, ov’ è Sicilia; e accolti Da la bella Aretusa odon gli amori D’Alfeo seguace; e poi con fausti honori Se n’ parton lieti à la lor via rivolti. I Lieta è de’ vaghi Dei l’interna mente; E ne dà grata mostra, e dolce avviso L’occhio sereno, e ‘l volto risplendente, Il caro sguardo, ed il soave riso. Così del Sole à lo splendor lucente La nube, che spandea torbido il viso, Da se scacciando l’horror tetro, e folto Di contentezza colorisce il volto. II Van rimirando da l’aerea sede Scherzar con squamme notator pennuti, E (come del seren la gioia chiede) Forma lubriche danze i popol muti. Fatto messaggio d’amichevol fede, Non hà ‘l placido mar flutti canuti; E senza crespe l’acqua, e senza grido In se se n’ giace, e non si frange al lido. III Miran da’ vari lati in foggie belle Sorger Cittadi con turrite fronti, Ed Isole nel sen de l’onde ancelle Haver vaghe, e dolcissime le fonti; Ed altrove inalzar verso le Stelle Concavi scogli minacciosi monti; E varij fiumi con l’ondose some Perdere in seno al mar l’antico nome. IV Dicevan’. O’ di Giove alta possanza, E di gran Padre incomprensibil forza, Ch’ in tante guise al mar varia sembianza, Ed hora molce l’onde, hor le rinforza. I venti chiama da l’Eolia stanza, Ed hor gl’ impeti accresce, ed hor gli ammorza; E s’ è stabil’ altrove, in seno a’ mari Sempre ne’ proprij errori hà moti vari. V Sì, ch’ ivi la Natura hà ‘l sen vivace, E quanto più ne’ scherzi ivi s’aggira, Men’ abbattuta in sen’ a gli ozij giace, E ne le scosse nudrimento spira; Ch’onda si more, che riposa in pace, E sol la sua virtù prende da l’ira; Riposo haver ne’ campi suoi si sdegna, E pur ne’ moti suoi di prole è degna. VI Non v’è popolo in terra sì frequente, O volgo l’Aria crea si numeroso, Come feconda è l’acqua, e ‘l Mar fremente Empie di pesci il regno procelloso; Non v’è lido, ò v’è scoglio, ove sovente La prole non germogli; e’l sen spumoso Non men di pesci fertile, che d’onde, Esserciti animati hà tra le sponde. VII Chi puote numerare de l’Egeo Gli squammosi drappelli, e quanti in seno N’ hà l’Ocean’ co’ flutti horridi, e reo, E quai nudre l’amabile Tirreno. Sà, quante fiamme hà ‘l foco, e ‘l Pireneo Hà foglie ne’ suoi boschi; e noto à pieno Gl’ è de l’arene il numero infinito In mal feconda piaggia, ò in secco lito. VIII Nudre il Cavallo, ed il Leon la Terra, Ed è de’ parti suoi Madre feconda, Ed i Cavalli, ed i Leon riserra Non meno il mar ne la sua fertil sponda, La Rondine ne l’aria, e ‘l Turbin v’erra, E ‘l Turbine, e la Rondine anco hà l’onda; E, se nel Cielo son le Stelle, in mare Anco la Stella natatrice appare. IX Già lungo tratto d’aria havea varcato L’un Nume, e l’altro sù la nube amica, Godean del loro amore otio beato, E sprezzavan di Sorte aura nemica; E contra l’odio perfido del Fato Ratti solcavan l’aria, ove fatica Il mar de la Trinacria in stretto seno A dilatar de le sue furie il freno. X De l’Isola Trinacria in sù la spiaggia, Scorgon non lunge dilettevol loco, Ove scherza non grave, e non selvaggia Aura, che d’ivi errar prendesi à gioco. Il Sol la terra vagamente irraggia, L’herba hà vita ridente, e non v’è roco Ne l’onda il mormorio, ma dolce suona, E sol d’amori il flutto suo ragiona. XI Vedeasi il Prato di leggiadri fiori Vestir’ il seno, e tempestare il manto; E con nuvole fertili d’odori In se de la Sabea portare il vanto. Mille s’odon con numeri sonori Scioglier’ augelli dilettoso canto; E ciò, che sparse la Natura altrove, Ivi unite di pregi hà le sue prove. XII Da quell’ inviti persuaso il Nume De gli amorosi fiati, e de’ fioretti, Arresta in aria l’odorate piume, E à vista sì gentil cangia gli affetti. Ivi drizzano il volo, ove da brume, O da’ rai, che ne’ campi il Sol saetti, L’ameno loco non è punto scosso. Ma d’herbe hà ‘l seno, ed hà di fiori il dosso. XIII Cala la Nube, e sù la terra posa La coppia felicissima d’amore; Stiman gli Amanti, ch’ in quel piano ascosa Vi sia la gioia d’ogni humano core; E che l’acqua di perle pretiosa, Che ‘l campo irriga con lucente humore, Quasi in superbo cristallino velo Accolga vaghe Deità del Cielo. XIV Quand’ ecco dal bell’antro esce a la luce Ninfa, che di vaghezze hà vanto altero, Aretusa si noma, in cui riluce Lo splendor tutto de l’alato Arciero; E ciò, che di beltà Venere adduce, Ella raccoglie, ed hà de’ cor l’impero. Sì, ch’ ò doppia Diana, ò pur sol’ una Maggiore di Diana il campo aduna. XV Hà d’oro il crine, che sù ‘l capo splende, E sventolar sù gli homeri si vede; Di vivace Zaffir l’occhio s’accende, Ed a la fronte l’alabastro cede. Misti à rose la gota i gigli rende, Il labro i pregi de’ rubini eccede; E sono in guise nobili à vederle I puri denti orientali perle. XVI Succinta veste al fianco ella raccoglie, Mostra dal mezo in giù nude le braccia, Hà di perle il suo sen gravi le spoglie, E nodo di diamanti il petto allaccia. Di ceruleo color velo discioglie, Che dal capo l’ondeggia; e puote in traccia (Così leggiero hà ‘l piè) vincere il vento, E sono i suoi cothurni opre d’argento. XVII A l’apparir di Zeffiro, e di Flora Aretusa, che Ninfa era del fonte, Di vaghe gioie il volto suo colora, E mostra di seren pinta la fronte. Spirar contento i Dei dal ciglio fuora, E s’appressaro al dilettoso monte; Fassi a gli sguardi lor l’acqua lucente, E mormorio d’amor formar si sente. XVIII Dicono i Numi. Sotto il raggio estivo Deh concedine, ò bella, albergo amato, Nè di raccorre i Numi à te sia schivo, A cui le Stelle dier tranquillo fato. Le noie de la via temprare al rivo, Che bagna questo verdeggiante prato, Lasciane, ò Ninfa; così verde il suolo Sempre à te dia l’innamorato Polo. XIX Disse Aretusa a l’ hor. La Fonte mia Albergo dar non può già mai più degno, Mentre accoglie chi fiori al prato dia, E sereni co ‘l vol l’aereo regno. S’eccelso honore in terra si desia, Hor sia il mio tetto a’ vostri passi il segno. Amo tra Dei passar serene l’hore, E frà scherzi goder gli otij d’Amore. XX Ma Flora dice à lei. Come amoroso Ver noi quì puote, o Ninga, esser’ il petto; Se sola vivi in questo prato herboso, Nè compagnia ti desta à dolce affetto. Mal s’aita pensiero dilettoso, Se non li corrisponde amico ogetto; Ch’ Amor’ altro non è, ch’ innesto vago, Onde di viver l’un ne l’altro è pago. XXI Dicean’. E già ne l’antro erano giunti, Ov’ ha ‘l ricovro suo la bella Diva. V’han conche, e perle i lor tesor congiunti, E vie più d’una gemma ivi appariva. Non hà da l’Arte quì pregi disgiunti Natura; anzi tra lor miste più viva Vi rendon’ ogni forma, ed ogni instinto; Ed è del vero più vivace il finto. XXII Miravansi con ordine partite (Alternando fra lor scherzi, e diletti) Imagini spirar vaghe, e gradite Anhelanti d’amor, gravi d’affetti; Boscaglie intorno di folte ombre ordite Erger’ in sen de’ campi ombrosi tetti; E in mille lati à le fugaci belve Porger ricovro solitarie selve. XXIII Là vedeasi una Lepre, e quivi un cane Correr’ il piano di fiorito prato, E quà fuggendo da scoverte tane Sovra il monte poggiar Cighiale irato. Quivi con voci risonar non vane Stuolo di Cacciator di dardi armato; E quindi fuori di nascosto speco Risonar, rimbombar la valle, e l’Eco. XXIV Altrove sù quei muri in seno a l’onde Vedeasi espressa nobil Natatrice, Ch’ a lo splendor de’ lumi suoi gioconde Fea l’acque, di beltà viva Fenice. Hora da l’alto sen volta a le sponde Scorgeasi il nuoto indirizzar felice, E Nume amante d’acqua, in preda a’ venti, A lei scioglieva innamorati accenti. XXV Il tutto riempia de le sue note, E inteneriva a’ suoi lamenti i sassi. Ma l’Amante doglioso in vani si scote, Ch’ambo in acque rivolgon’ i lor passi. Sciogliesi ogn’ alma in onde; e al guardo ignote Fuggon le fiamme, e ‘l foco occulto stassi. Quand’ ecco i corpi altrove escon erranti; E, benche volti in acque, ardono amanti. XXVI Onde Flora à la Dea rivolta chiede: E quali meraviglie hor quivi impresse Sù i muri veggio? e sovra ogni gran fede Nuove forme à tai corpi il Ciel concesse? Un sospiro dal sen la Ninfa diede, Sì che ‘l dolor nel volto suo si lesse. Indi à narrar l’historia sua si volse, E misto di cordogli il canto sciolse. XXVII Io l’arte già seguij di Cinthia imbelle, E lieve tra le valli, e tra le selve Le fere nel fuggir tracciai più snelle, Nè sdegnai d’incontrar robuste belve. E vincitrice in queste parti, e ‘n quelle Mostro non era, che tra noi s’inselve, Che non cadesse sanguinoso al piano Al fermo saettar de la mia mano. XXVIII À più d’ un crudo Alano il duro morso Io solea sciorre per gli aperti campi, E per me più d’un Veltro al lieve corso Adeguava in fin gl’ impeti de’ lampi. I molossi scorrean de’ monti il dorso, Nè v’era belva, che trovasse scampi; Poi ch’ à l’aperto da’ miei cani spinta Era in un punto sol giunta, ed estinta. XXIX Più d’una volta à Cinthia sù l’altare Hora d’un Cervo sospendea le spoglie, E l’hostie, i simulacri, i tempij, e l’are Incoronai di trionfanti foglie. Ma con sembianze oltre ogni stima rare Io più gradij de l’honestà le voglie; S’ ad altre la beltà diè vanti egregi, Io di pudico sen vantava i pregi. XXX In Achaia, ove nacqui, errar godea, E un dì fuggendo de l’ardente Dio Il caldo raggio, verso un fiume havea Rivolto, per lavarmi, il passo mio. E giuntavi, le membra ivi tergea; Nè d’haver altro speglio hebbi desio, Poich’ in quell’acque compariva à pieno Candido il petto, e alabastrino il seno. XXXI Hor con la dritta man l’onde percoto, Ed hor l’homero manco al lancio hò volto; Quì con ambe le mani il flutto scoto, Là co’l corpo ne l’acque inalzò il volto; Ed hor cangiando gli ordini del nuoto, Ho ‘l petto steso, ed hora il sen raccolto. E, rivolgendo inverso il Cielo il lume, Mi lascio in preda al violento fiume. XXXII Così tal’ hora Salmace si scorse Fender le linfe notatrice snella; Ne l’acque hor s’arrestava, ed hor le corse, E ne’ suoi moti oprava arte novella; Quì si stendea ne l’onde, e là si torse, Hora dal crin, qual matutina Stella, Disciolto in perle ricco humor piovea, Ed hor tra flutti Sol d’Amor parea. XXXIII Quand’ ecco fuor de l’acque il Dio del fiume Venne con mormorio tacito, e roco. Alfeo si noma di quell’ onde il Nume, E vide me, che scorrea l’acque à gioco, Pria s’arresta, e poi fissa in me ‘l suo lume, E ‘n mezzo a l’acque concepisce il foco. Arde, nè de l’ardore intende i modi, Ed occulte d’Amor prova le frodi. XXXIV A tal vista la fuga in ver la sponda Rapidamente sù per l’acque io prendo, Quand’ Egli disse. A che fuggir da l’onda, S’anco tra l’onda del tuo amor m’accendo? Deh, bella, il nuoto arresta; e quì gioconda Habbi la stanza, che d’amarti intendo: Non son Nume di sdegni, e dolci l’acque Mostran, ch’ anco in me dolce il senso nacque. XXXV L’amore, e ‘l priego dal mio sen bandij E del seguace Alfeo schivai la traccia; Inver la riva rapida fuggij, Ma già già mi prendea ne le sue braccia, Lieve mi segue; e mille lodi udij, C’ hor del mio sen faceva, hor de la faccia; Hora lodava il piè; ma si dolea, Che cruda ver lui fusse opra di Dea. XXXVI Varco per pruni, e non vi trovo agguato, Che la fuga difenda, e l’honestade: Scioglio pregherai al Cielo, e non m’è dato, Che sien le mie preghiere al Cielo grate. Lacero hò fin’ il petto, e in ogni lato Provo mille nel corpo offese ingrate; E dal piè, ch’ in fuggir stanco già langue, Spando nel campo più d’ un rio di sangue. XXXVII Ma punto dal suo corso Alfeo non manca, Poiche la fuga in me beltade accresce; Che la parte, ch’ in me le membra imbianca, Nel faticar s’accende, e rossor mesce. Onde homai già languia misera, e stanca, E già dal sen lo spirto mio sen’ esce: Quando’ ecco giungo in riva al mar, che fiede Le sponde, ov’ erge Pisa altera sede. XXXVIII Pisa, da cui la vostra Pisa hà preso Ne’ campi de l’Etruria il nome chiaro, Sì, che per tal membranza hò ‘l seno acceso Per voi d’amore, e ‘l venir vostro hò caro. E chi fra Toschi hà ‘l regno suo disteso, Hò sempre amato. In riva al flutto amaro Poi mi volsi de’ boschi a la gran Dea, E note d’honestà ver lei sciogliea. XXXIX Dissi. Intatto l’honore in me conserva, Salva, chi ‘l suono à te supplice snoda; E scacciar da me lunge alma proterva, Sia de’ gran vanti tuoi primiera loda. Chi Cinthia segue, e l’arti di Minerva Deh non provi per te d’Amor la froda; Perche nuda non hò, donde salvarme, Le difese del Cielo à me sien’ arme. XXXX Sottraggi il corpo del seguace Alfeo, E sien mia libertà pompe d’honore. A questo suon da l’alto Ciel cadeo Nube, c’ hà forma in se d’aspro terrore; Sì ch’ il vedermi l’Amator perdeo, Ed arrestossi con dubbioso core: Cerca, e nulla distingue; e non vi scorge Se non la nube, ch’ atro horror gli porge. XXXXI Così da veltro rapido seguita Corre la lepre per l’aperto campo, E per balze, e per monti erra smarrita, E scontra più d’un periglioso inciampo. Sin che tra macchie celasi; e sparita Fugge dal guardo, qual veloce lampo. Stupido è ‘l veltro, e di se dubbio stassi, Cerca chi fugge, e ‘n se ritorce i passi. XXXXII Io dentro quella nube al Ciel le voglie Rivolgo ogn’ hor più fervide, e cocenti, Sì ch’ à quel suon lo spirto mio si scioglie, E stempransi le membra in rio languenti: Indi la nube in aria si raccoglie, E lieve si disperde à par de’ venti. E pur ne l’onde amate ei mi ravvisa, E co’ sospiri in me li sguardi affisa. XXXXIII E tai note distinse. Acqua è ‘l mio foco, E pur’ avampo al fluttuar de l’acque. L’onda gli ardori miei prendesi à gioco, Che la Dea de gli ardori anco in mar nacque. Ah c’ hà l’humor del pianto in me già loco, S’ella volta in humori hor’ hor quì giacque; E mentre il foco mio ne l’onde sdegna, Con le sue stille à lagrimar m’ insegna. XXXXIV Ma deh, che ‘l foco tra l’humor s’avviva, Che ‘l ferro è tra le Stille anco più ardente. Anzi già l’alma mia d’ardore è priva, Ed hò lo spirto per dolori algente: E à par di questo rivo fuggitiva Stemprasi la mia vita in rio corrente. Vuol ragion, che mi volga in stille anch’io, E sia d’un rivo innamorato un rio. XXXXV A queste note Alfeo stemprasi in onda, E di seguir’ agogna il corso mio. Mà Cinthia con un’ hasta apre la sponda, E mi salva dal perfido desio. Entro in sen de la terra più profonda, Schiva mi celo in sotterraneo rio; E tra l’arene a l’importuno Amante Nascondo con gli amori anco il sembiante. XXXXVI Vò sotto il mare, e da l’Achivo suolo Timorosa men’ corro ad altra terra, E quì me n’ giungo, e sotto amico Polo Dal mar salvo il mio fonte si disserra. Ma l’altro, che nel sen nudre gran duolo, Anch’ ei per altre vie corre sotterra, E benche volta in acqua ancora m’ ama, E co’l suo mormorio ogn’ hor mi chiama. XXXXVII Zeffiro, e Flora à queste ardenti note Compativa d’Alfeo gli amori intensi, E l’imagini a l’hora al guardo note Parver sù i muri intenerir’ i sensi. Quand’ ecco dolcemente il suol si scote, Ed ivi il Fiume sorge, in cui sospensi Affisa Flora i lumi; e legge fuori Spiranti in quelle luci anco gli amori. XXXXVIII A questi amori l’Aure stesse in alto Sospiraron più liete, e più festanti; Che vince Amore ogni più duro smalto, Ed ogni scoglio in mar perde a’ suoi vanti. E’ vano contra Amor forza d’assalto, Ch’ ei può scotere al piano anco i Giganti: Fà gelar la scintilla, ardere il gelo; Nè son di lui sicuri i Numi in Cielo. XXXXIX Alfeo, che Flora, e Zeffiro in quel tetto Raccolti mira, e la cagione intende, Ch’ ivi loro sospinge; hà gioia in petto, E piacer doppio à quei sembianti prende. Di contento comun l’antro è ricetto, E misto in ogni lato amor s’accende; E i pesci insieme, e gli augelletti à paro Ordiron danze, e melodie formaro. L Così l’antro di Dori a l’acque in riva, O lo speco di Theti in quello, e ‘n questo Lato, per inschivar la noia estiva, Di pietre miniate era contesto: E di fonti, e d’imagini appariva Superbamente altero; e à scherzi desto Quinci l’augello, e quindi il pesce ordìa Prove di danza, e gare d’armonia. LI Quando’ Alfeo, che predir suole ad altrui Del Ciel le meraviglie altere, e nuove, E disvelare ne gli accenti sui Gli arcani occulti del superno Giove, Disse. Non saran vani i preghi tui, Bella Coppia, à cui il Ciel sue gratie piove: A’ vostri voti ubidienti ancelle Saran nel servo Cielo anco le Stelle. LII Giove, che tra gli Olimpici certami, E tra quelle di Pisa à me ben noto Suole spesso mostrarsi, anco tra rami Di Dodona risponde ad ogni voto; Ed ivi secondar ciò, ch’ altri brami, Determina tal’ hora; in odio à Cloto Vostro Germe immortal da l’alto seggio Degno di sommo honor prometter veggio. LIII E, se ben forse contra voi la Sorte Avvenimenti volgerà molesti, E fia, ch’ a danno altrui superbo, e forte D’Etruria le grandezze il Fato infesti; Avverrà, che ‘l Periglio honor v’apporte, Ed il Contrasto a voi le glorie desti. E, come globo dal soverchio pondo, Scosso a le Stelle per voi s’alzi il Mondo. LIV Partiti, o Coppia generosa, e bella, E sù la nube tua vola sublime; Che ‘l Cielo à te con fortunata Stella Del bel parto darà le glorie prime, Così ‘l mio Giove l’immortal favella Da Dodona ti snoda; e da le cime De le sue Quercie a te, Flora vezzosa, Predice d’alti Heroi serie famosa. LV Zeffiro, Flora, ed Aretusa al detto Applauser dolcemente; e ‘l Ciel cortese Mostrò sì vago, e luminoso aspetto, Che sù la nube sua la Coppia ascese. E vaga di felici augurij, il petto A’ novi honori, à nove glorie accese. Sparver’ i Numi; e Alfeo de l’arso core Con Aretusa sua temprò l’ardore. Il fine del Terzo Canto. Canto Quarto Argomento Gli Dei van di Corcìra a l’erme spiagge; E perch’ Alcinoo pretiosa mensa A’ Toschi Numi prodigo dispensa, Il Suol da loro amenità ritragge. I Sovra la nube da’ terresti piani Poggian’ i Numi, e con soavi detti D’Aretusa, e d’Alfeo (ne’ regni vani) Van rammentando i dilettosi affetti; Ond’ à quel foco gli Amator’ sovrani Fan di vampa maggior caldi i lor petti. Forman’ in queste note amico accento, E dolce al loro amor mormora il vento. II Ben di Vulcano, è Venere consorte, E sol da loro con effetti vari Per nostra cruda, lagrimevol sorte I natali d’Amor sono à noi chiari. Onde languendo ogn’ uno in preda à morte Di gemer più, che di godere, impari; E in ogni tempo l’alma, e in ogni loco O tema l’acqua, o pur paventi il foco. III E ben giunto à Vulcano Amor si vede; Poiche senza sperar tregua, nè pace, Nel seno, ov’ habbia Amor posta la sede, Nudrisce eterna, inestinguibil face: E se di mantenerne altri si crede, Ei di volgerne in cener si compiace. Ch’ ove chiara beltà gli sguardi volve, In fiamma ne converte, e cangia in polve. IV Mentre l’altrui beltà goder n’è dato, E sciogliersi in amabile dolcezza, Quant’ altri gode più l’ogetto amato, Più brama fiamme, e d’arder’ hà vaghezza. Sì che l’ardore da l’ardor rinato Vive ogn’ hora avvampando; e la bellezza Con novel sì, ma dilettevol gioco E’ Fenice d’Amor, ch’ alma hà dal foco. V Ma da Venere ancora è nato Amore; E, se Venere nacque in seno a’ flutti, E fù del crudo mar mostro maggiore, Con l’humor suo n’insegna à temer lutti; E così grave duol n’aggiunge al core, Che son gemiti, e lagrime i suoi frutti. E quante fiamme hà ‘l sen, tanti da gli occhi Fia, che nembi di pianti Amore scocchi. VI Hora con sdegni altrui conturba, e parte In mille parti la dolente vita; Sì ch’ abbandona in noi l’alma ogni parte, E fà dal carcer suo cruda partita; Ed hor con lontananza altrui comparte Martir sì grave la beltà gradita, Che da le luci fuor sù l’arso suolo Mille versa l’amante urne di duolo. VII Sì ch’ in foco, ed in lagrime converso Convien, che moia l’Amator fedele; E ne’ propri martiri à se diverso Hora canti disciolga, ed hor querele. Ma provi altri in amore il foco avverso, O in gemiti lo scioglia il duol crudele, A’ noi punto non noce onda, nè foco, La beltà n’ è piacer, l’amore n’ è gioco. VIII A queste note si vedean da lunge Sparir de la Trinacria i chiari lidi, E dov’ il mar d’Italia si disgiunge, L’Ionio dilatare i flutti infidi. V’è copia d’acqua; e dove il guardo giunge, Termini non ritrova a l’occhio fidi. Thetide in ampio seno si diffonde, E son confini al guardo i Cieli, e l’onde. IX Così Dedalo à l’hor, ch’ il patrio suolo Abbandonava, sù per l’alta via Industri piume diabttendo à volo, L’aria con l’agitar de’ vanni aprìa: Varcando in alto, sol le vie del Pol, E gl’immensi del mar campi scoprìa: Havea la mente d’alte glorie lieta, E gli spatij del Mondo eran sua meta. X Sovra la Nube pretiosa, e chiara Vanno per l’alto gli amorosi Dei; E vi spiegan di gioia altera, e rara Soavi, e placidissimi trofei. Lascian l’Africa à destra, ove in avara Spiaggia son’ habitanti ingordi, e rei; E volgon di Corcìra inver la riva Il vago Nume, e l’amorosa Diva. XI Videro cento sovra i flutti alteri Con temerari, impetuosi orgogli Ver gli Stellanti, sempiterni imperi Erger la fronte formidabil scogli; E non men’ anco horribilmente fieri Mostri inalzarsi da’ cerulei sogli; Ma di quei Numi a’ generosi peti Le minaccie de’ mostri eran diletti. XII Miran’ ancor con generose sponde Grand’ Isole distendersi ne’ mari, E tra l’arene loro anco feconde Popoli accorre industriosi, e vari. Chi di loro offerisce al Dio de l’onde Pomposi sacrifici in sù gli altari; E chi di sacro odor messe Sabea Al gran Tonante adorator spargea. XIII Altri le Rose, e le Colombe offirva A la Dea de le Gratie, e de gli Amori, E di quei flutti procellosi in riva Spargea corone d’odorati fiori: Altri godea la faretrata Diva Lieto inchinar de’ boscherecci horrori; E di cervi, e di damme altere spoglie Dilettoso sospende, e i voti scioglie. XIV Ed altri à Marte di destrier veloe, Che ne le guerre trionfante scorse, Trafisse in sù l’altare il sen feroce, E mite al Dio de l’armi i preghi porse. E v’era, chi di Pallade l’atroce Usbergo riveriva; e chi ritorse Le sue brame in Alcide, e da lui solo L’unica aita richiedea del Polo. XV Varij di varie genti erano i riti, E diversi infra loro i sagrifici; E innumerabil hostie in sù quei liti Cadevano sacrate a’ Numi amici: E con ivi placare gl’ infiniti Perigli hora de’ turbini nemici, Ed hor de’ flutti infesti entro quei mari Fumavan sacri a’ Dei sempre gli altari. XVI Godevan’ à tal vista i Toschi Numi, (Che nel suo vario oprar bella è Natura) E di piacere coloriano i lumi, E l’aria à quel gioir ridea più pura. E cento si vedean, sovra i volumi Per l’onde, correr via poco sicura Alate travi; e di superbi pini Ad oscurare il Sole, ergersi i lini. XVII Zeffiro, e Flora per lontan cammino Sovra i campi de l’aria havean varcato Gran tratto de l’Ionio; e del destino L’ordin s’era in gran parte essercitato; Quand’ ecco di Corcìra il suol vicino A loro s’appresenta; e in ampio lato Sù le spumose region marine Distende la vasta Isola il confine. XVIII L’Isola in mar per lungo si distende, E stretto, e angusto il seno suo dimostra, Sì che d’una saetta imagin prende Nel cupo sen de la cerulea chiostra. Ne la parte, ch’inver ponente pende, Feacia fà di se mirabil mostra: Vaghissima Cittade, ove la Reggia D’Alcinoo di bellezza, e d’or lampeggia. XIX Sovra cento colonne ella si vede Inalzar maestoso, augusto tetto; E’ l Portico real de l’ampia sede E’ d’altrettante nicchie altier ricetto: Statue, in cui l’arte se medesma eccede, Vi mostran’ ammirabile l’aspetto: Il marmo hà vita ne’ rigori suoi, E simulacri son d’invitti Heroi. XX Per numerosi gradi in alto i passi Stendonsi à rimirar novi stupori, Ove son vaghi, e rilucenti sassi Di doppie logge nobili lavori. Per larga porta in ricca sala vassi. E in camere di gemme adorne, e d’ori; Ove il pennel vivaci forme impresse, E più vero del vivo il finto espresse. XXI E altrove appese in sù le regie mura Vi stan con arti nobili, e novelle D’industre Babilonica cestura Superbe Sete à maraviglia belle, Ove con dota, e maestrevol cura Enea, che d’Ilio schiva le facelle, Era intessuto a l’hor, ch’ egli se n’viene A ricovrar ne le Feacie arene. XXII Ei con Ascanio, e con gli Dei Penati Inver l’Italia aprendosi i sentieri Ad arrecar al Latio i degni Fati, E de la Terra i gloriosi imperi, Quì con Alcinoo a mensa fortunati Trahea dal lungo errar dolci piaceri, E’ l Rege a l’esche per compagni havea I Dei Penati, e l’immortale Enea. XXIII Sovra gran pietra in altra parte stesa Era la storia, quando il Greco Ulisse La lunga via del suo ritorno presa Vers’ Itaca, quì posa egli prescrisse: E benche l’alma fusse à glorie intesa Per terminar de’ Proci suoi le risse, Pur quì tra cibi, e tra diletti amici Con Alcinoo trahea giorni felici. XXIV E’, benche in marmo ivi apparisse scolto, Il Greco dicitore, il Sasso algente Il suono di facondia ivi rivolto Tra le gelide vene era eloquente. Anzi vivea, e con spirante volto Movesi il Greco, e favellar si sente; E l’ire ridiria con suon loquace, Ma cauto a l’ire per prudenza tace. XXV Così l’hospite Alcinoo in quel suo regno Le grand’ alme albergar suole tal’ hora, E ‘l peregrino il Re di laude degno Ne le magnificenze ama, ed honora. Quand’ ivi d’albergar non hanno a sdegno Fuor de la nube lor Zeffiro, e Flora; E scendon per goder Reggia sì vaga, Che di sue meraviglie i mari appaga. XXVI Ben’ egli è vero, che nel lungo campo Non è d’amenità sparsa ogni parte; Ma, quasi habbia del Sole avverso il lampo, Non vi preval Natura, e manca è l’Arte; Nè da’ rigidi Verni ivi hà ‘l suo scampo La piaggia, e ‘l prato, ch’ in più luoghi sparte Son Elci, ch’infeconde ahnn’ hirto crine, E folte macchie stan d’incolte spine. XXVII V’ hanno Soveri ancor sterili foglie, E mostran vano il mal vestito seno; Più d’un’ ombroso Platano raccoglie L’infruttuoso, ed arido terreno; E mal tra gli Alni il volo suo discioglie Infranta l’Aura; pur di bosco ameno L’Isola al mormorar d’Euro giocondo Ver l’Oriente ha ‘l campo suo fecondo. XXVIII A l’avviso, che Zeffiro, e la Diva Son giunti di Corcíra à la riira, Parte il Rè da Feacia, e al mar’ in riva Adduce seco numerosa schiera. Ove gran multitudine appariva Chi d’oro ricca, e chi di gemme altera; Fan d’argento, e di perle altri gran mostra, E chi d’ Augusta porpora s’inostra. XXIX Nobil’ alme a i destrier premono il dosso, Chi piume inalza, e chi si cinge il brando; Dal nitrir de’ Cavalli è l’aere scosso, E co’l piè fan tremar’ il suol, raspando. Con selle ornate à color bianco, e rosso Vann’ Indiche ricchezze folgorando; Pretioso è l’arnese, e à cento, à mille Forma il petto, ed il piè suoni di squille. XXX Di quei destrieri chi ‘l mantello hà savro, E son valor del bellicoso armento; Chi misto à coloro varij hà tergo Mauro, E sfida nel suo corso à volo il vento; Vivace, e candidissimo tesauro Altri nel dorso suo porta d’argento; E con macchie pomate altri è leardo, Ed è baleno al piè, fulmine al guardo. XXXI Indi seguon d’Eunuchi ordini folti, A cui dal ferro con nocente asprezza Furon de l’human seme i pondi tolti, E quella offesa à lor crescea bellezza. Poi di Paggi, e Scudieri ivi raccolti Rende leggiadro stuol pompa, e vaghezza; E suon di Flauti, e Trombe, in dolci modi Tanto diletta più, quanto più l’odi. XXXII Vien poi sù carro, che di perle, e gemme E’ riccamente nobile, e pomposo, E pregi accoglie d’Eritree maremme, Di Corcíra, e Feacia il Rè famoso. E fia, ch’à quei splendori ogn’ un s’ingemme, Sì ‘l lor riflesso è puro, e luminoso; Porta d’or la corona, e d’ostro il manto, E di sua maestade empie ogni canto. XXXIII Visto, ch’i Numi imprimon sù l’arena L’orme divine il Regnator cortese, I corridori suoi dolce raffrena, E ‘n contro a’ Toschi Dei dal carro scese. E dice. Ogni mia brama hoggi è serena, Nè più cara dal Ciel gratia s’apprese, Poscia ch’ à me da la sua lieta parte Hetruria alteri Numi hoggi comparte. XXXIV Venite, ò cari, il cui sembiante è noto A l’universo intero, e quì godete (Secondando i vostri otij, ed il mio voto) Di soave piacer la dolce quiete. Presso è la Reggia mia, ch’ in sen remoto Capir vi puote, e ‘n dimostranze liete Farvi gli arcani penetrar di lei, Ch’ esser dee Reggia de’ superni Dei. XXXV Venite, e s’altro ivi mancar mai puote, Fatela Cielo voi co’l vostro aspetto, Sì ch’ il destin de le superne rote Per voi quì non invidij hoggi il mio tetto, Benche da questa parte horride, e vote Sien di cultura le mie piagge; e schietto, Fuori che verso l’Orto, il Ciel non sia, A far’ amena la Campagna mia. XXXVI A questo suono replicar gli Amanti, Che de l’Etruria frenano l’impero, E sù la nube varcano volanti, Ov’ è l’Oracol di Dodona altero. E dicon’. A te sempre i Ciel’ costanti Volghin il corso de’ favori intero; Che ne sei degno. Arrida Giove, e nuova Gratia ogni hora da lui sovra te piova. XXXVII Alcinoo, già tua fama al mondo è nota, C’hospite sei de’ più sublimi Heroi; E d’ogni Region da noi remota Hà penetrato il suon degli honor tuoi: Grato il tuo soglio fia, ne mai si scota Memoria ricordevole da noi: Che degno sei con più superbe prove. D’accor ne la tua Reggia anco il gran Giove. XXXVIII Con questo, ed altro suon la lunga via Givan scorrendo, e consumando l’hore, Da quando il Sole fuor del mar s’invia, Sin che ne l’Ocean languido more. E tra loro (alternando) hora s’udía Spiegar vanti di guerra, ed hor d’amore, Hor di Virtù l’alloro, ed hor ferace L’ulivo rammentar de l’aurea Pace. XXXIX Miran gli Amanti Dei l’Isola intorno In cui scherzò diversa la Natura; Ch’ altrove ell’ è d’amenità soggiorno, Ed ivi sol nudría steril verdura. Quand’ ecco entraron ne l’albergo adorno De l’alta Reggia, e de le ricche mura: Stupir Zeffiro, e Flora a l’opre illustri, Che puon chiare schernir l’ombre de’ lustri. XXXX Posa per breve raggirarsi d’hora La Coppia maestevole, ed altera, Quando in augusta sala, ove dimora Folt’ ordine di lumi, appar gran schiera, E posta in mezo tavola s’honora, Ch’ in se di stupor vince ogni maniera; Ed hà de’ liquor suoi larga la mensa Ciò, che di Chio la vite à noi dispensa. XXXXI E ciò, che la vendemmia à noi felice Di Creta nel suo pian fertil produce, E quanto ancor la Nassica pendice Prodigamente à l’altrui sete adduce. Quì posta in vasel d’oro è la Pernice, Di Faside l’Augel brame v’induce; E l’esche rare de’ Pavoni sono Del Rege Alcinoo pretioso dono. XXXXII Evvi à l’altrui palato ancor gioconda La Lepre fuggitiva, e timidetta; E del cervo non men l’esca v’abonda, E ne gli argentei vasi à fame alletta. E di ciò, che Pomona il suol feconda, Quivi la mensa è sparsa, e altrui diletta; E de l’aurate poma ivi minori Han l’Hesperidi Suore i lor tesori. XXXXIII Non altrimenti Giove in foggie belle Dopo gli scossi Enceladi, e Tifei Sù l’alte regioni de le Stelle Diè lauta mensa a’ trionfanti Dei. Quand’ ecco Alauro, che la cetra imbelle Al fianco tiene, ed hà da’ fonti Ascrei Tratto il liquor di Febo; al dir concorde Fa con la mano il suon de le sue corde. XXXXIV E volto ver gli Amanti. Un tempo il Mondo (Cantò) se n’ giacque senza vaghi amori Entro il suo seno languido, infecondo, E furon vani i suoi primieri honori. Fin che dal Ciel, per renderlo fecondo, Saturno trasse i genitali humori, E lanciolli nel mar, per fargli a pieno De la virtù di lor fertile il seno. XXXXV La calda spuma con quel giel de l’onda Si rassoda al vibrar de’ rai del Sole, E l’acqua al seme altrui resa feconda A noi produsse gloriosa Prole; Poich’ ivi de gli amor’ la Dea gioconda Hebbe natale; e sovra lei viole, E rose sparge il bel giardin del Cielo, Che reso havea del mar fertile il gelo. XXXXVI Corser’ a l’hor da le vicine rive Glauci, e Tritoni, a rimirar la bella, Che Reina apparì de l’altre Dive, E del Sol si mostrò lucida Stella. E disse Alauro, come al Ciel s’ascrive Con virtù, ch’ ad ogni hor si rinovella, Il produr germi in mare, e ne la terra; E tutti del crear gli orgin disserra. XXXXVII Indi sù ‘l lido del gran Cipro ascende La Dea de’ vezzi; e dopo nove Lune Partorisce quel Dio, ch’ i cori accende, Ed hà ne le nostr’ alme alberghi, e cune. Ond’ anco in mare tra le braccia prende Ogni Dio la sua Ninfa; e amor comune Ferve ne’ flutti; e son di nuove Dee Fertil le sponde Ionie, e l’acque Egee. XXXXVIII Sù i flutti per amor l’Orche gioconde, E le Balene vidersi scherzare; Lieti i Delfini errar verso le sponde, Provaro amor le Pistrici nel mare. E lo squammoso popolo sù l’onde Fè di se mostre inusitate, e rare: E non men sù la terra, anco novelli Sciolser’ i canti lor fertil gli augelli. XXXXIX Indi gli huomini in terra ancor la prole Di sè formaro, e per beltà lucenti Produsser figli a’ vaghi rai del Sole; E furon parti di virtù possenti. Il Mondo empì di lor la vasta mole, E fur varij i pensier, come le menti: Sì ch’ altri furon saggi, altri fur Regi, E chi di forti Heroi mostrò gran pregi. L Ond’ hor la Terra de’ lor fatti altera Andar si vede, e pareggiare il Cielo. Disse; e la notte trapassaro intera, Sin ch’ à noi fè ritorno il Dio di Delo. Poi Zeffiro, e la Dea di Primavera Reser gratie ad Alcinoo; e dal suo velo Flora piovvè virtù, che rese à pieno Gioconda l’aria, e florido il terreno. LI E Zeffiro co’l volo anch’ ei secondo A l’opra arrise, e sua virtude infuse. Sì ch’ il suol, ch’ à l’occaso era infecondo, Novelle prove à quei favor diffuse. Ogni ermo prato vi ridea fecondo, E Natura ogni pregio ivi dischiuse; Vaghi v’erraro, e mansuete belve, E di poma vestironsi le selve. LII Con numeroso, dilettevol frutto Vi stende le sue porpore il Ciregio; E quasi regnator del bosco tutto V’ hà ‘l Granato Corona, e manto regio: L’Arbor, ch’ à Filli diè nocente lutto, Ivi de’ fermi suoi dimostra il pregio; Il Fico in dolci lagrime si scioglie, E’l Persico la lingua hà ne le foglie. LIII Vi sono ancor per quei novelli prati Sù verde gambo teneri Giunchigli; Tesori v’appariscon’ odorati D’ardenti Rose, e d’imperlati Gigli; E la Peonia i pregi altier spiegati V’hà de gli ardori suoi vaghi, e vermigli; E vi mostran l’Anemone, e l’Acanto Di gemme il pregio, e di tesori il vanto. LIV Quà si volgevan per amene valli Di vive perle gelidi ruscelli; E là scorrean di limpidi cristalli Con dolce mormorío fonti novelli: Diversi con piacevoli intervalli Vi forman canti armoniosi augelli; E per favor, che da gli Amanti spira, Delitie del terren fatta è Corcíra. LV Felice Alcinoo, ch’albergando i Numi Fausta ti rendi ogni superna Stella: Di bei frutti per lor fai ricchi i dumi, E l’Ionio non hà spiaggia più bella. Ogni vaghezza in lei mirano i lumi, Lunge il Verno hà da te l’ira rubella: Da Flora hai nobil fato, e ubbidienti A le delitie tue servono i venti. Il fine del Quarto Canto. Canto Quinto Argomento Giungon Amanti de l’Epiro, e poi Ne la Caonia, ed a Dodona vanno: Fido a’ voti da Giove Oracol’ hanno; E ‘n sacra nave fan ritorno a’ suoi. I Già fuori del Mar Indo a noi ritorno Con rosea fronte, e piedi alabastrini Facea l’Aurora; e ‘l Regnator del giorno Guidava sovra carro di rubini. Veniva il Sole di suoi raggi adorno, E di tesoro incoronava i crini; Ed eran tra bei fiori a’ ricchi lampi Colorite le valli, e pinti i campi. II Quando Zeffiro, e Flora in aria à volo Si videro inalzar la nube loro, E (abbandonato di Feacia il suolo) Sfavillar gemme, e balenar tesoro. Gioiva al lor piacer ridente il Polo, E rispondea con raggi anch’ esso d’oro. E dir sembrava. Tra miei Cieli anch’ io Nube à sì bella Coppia esser desio. III Alcinoo al lor partir’ sovra gli altari Sparse di sacri odori Arabi fumi, E di doni offerì Arabi fumi, E di doni offerì pregiati, e rari Pretiosi tributi a’ vaghi Numi. E tra quei Regij preghi in lati vari Frutto diedero i tronchi, e rose i dumi. D’amenitade il suolo è fatto alunno, E spiega la Feacia eterno Autunno. IV Tai forse gli horti son de l’Alba eterna Sovra i bei campi del lucente Cielo, Ove caliginosa ombra non verna, Nè vi stende Aquilon l’ale di gelo; Ma l’aura placidissima superna Vi tempra co’ suoi raggi il Dio di Delo; E senza alternar mai ghiaccio, nè vampa, La luce nudre, e Primavera accampa. V Van lieti de’ lor vanti i Numi amici, E godon, che la Terra à loro arríde. E dicevan. Per noi così felici Girin’ i Cieli le lor sfere fide, E ne le Tosche floride pendici Gioia di Prole meritata anníde; E come il vento in mar produce i flutti, Così da i nostri fior’ sorgano i frutti. VI Diana, che di prole in terra è priva, E di gravido sen pregio non porta, Dal Cielo abbandonata à un fonte in riva, O tra le selve errante il piè traporta. Sol lieve cervo, e damma fuggitiva Hà per proprio diletto, hà per sua scorta: E non merta infeconda haver tra selve Altro in sua compagnia, che spine, e belve. VII Fin l’acque, che per altro entro le sponde Punto non son di Deità capaci, E solo ne le valli lor profonde Son di Mostri ricoveri voraci. Vollero con le spume esser feconde, E di parti divini andar feraci. E più, che de’ lor pesci, hebbero honore, Ch’ in lor nascesse la gran Dea d’Amore. VIII E la fertilità si cara è a Giove, E così d’esser Padre ei si prevale, Che con estreme, e memorabil prove E’ di Parto ogni parte in lui fatale, Poiche creò dal divin fianco, dove Pria nascosto l’havea, Bacco immortale; E Madre, come Padre, ancor possente Pallade partorì da la sua mente. IX Con sì queruli accenti, hor de le Stelle, Hor di Natura si dolean gli Amanti: Ne l’une l’opre detestavan felle, E ne l’altra abhorrian gl’ ingiusti vanti. Quando, non dopo gran viaggio, in quelle Parti men ree de’ pelagi spumanti Sponda inalzarsi nobile si vede, In cui Regie Cittadi han la lor sede, X Questo è d’Epíro il suolo, ov’ il Valore Porrà fra l’armi bellicoso il grido; Nè men de la Virtude, anco l’Honore Famoso à gara stenderavvi il nido. E da le forze lor fia più d’un core D’invitto Duce spento; e Marte infido, E rio il terror de’ rigidi Destini Proveranno per loro anco i Latini. XI A questi lidi Zeffiro, e la Dea Rivolgon la lor nube, e riverenti Scendon’ in parte, dove il mar porgea Riposo in curvo seno a’ fluti, a i venti. E lievi erraron fin là, dove fea La Caonia di se mostre possenti. Giunger’ al Cielo co’ suoi monti ardía, E di Giove le Quercie alte scopría. XII Entran in quei confini; e da la manca Parte drizza ver loro i tesi vanni Colomba, de le nevi assai più bianca, E con l’aspetto a lor tempra gli affanni. E fatta guida, che tra via non manca, Conduce lor, c’hanno infecondi gli anni, Ove la selva di Dodona accoglie Sacre colombe, ed eloquenti foglie, XIII Muti in quei campi sono l’acque, e ‘l vento; E fin l’istesso augello anche vi tace, Sol, perche non conturbi ivi il Contento, E inviolata annidisi la Pace: Grato silentio ogni romore hà spento, E la Tranquillità solo vi giacie. E senza tuono, e fulmin v’ hà riposo, Chi di fulmini, e tuoni è Rè sdegnoso. XIV E’ la Caonia region felice, E del Secolo d’or reliquia, e segno. Stilla ricca di mele ogni pendice, E l’Innocenza hà posto ivi il suo regno. Da l’Elci cave dolce humor s’elice E la Terra è di sè fertil’ ingegno. L’ardor di Sirio non aspetta il campo, E più, che ‘l Sol, la sua virtù gli è lampo. XV Produce il Rivo più, che l’acque erranti, Liquori soavissimi di latte: Stillan manna dal Ciel l’aure volanti, E da le brine son le piaggie intatte. Ivi il Leone hà placidi sembianti, Nè l’Orse al furor cieco ivi son’ atte. Il Bue di sue fatiche non si lagna, E ‘n compagnia vi stanno il lupo, e l’agna. XVI Più volte l’anno fertili gli augelli Fan ne le piante i nidi amorosetti, E vagheggiarsi in questi rami, e ‘n quelli Sono gli studij lor, sono i diletti. Non hà tosco la Biscia, e non son felli De gli Aspidi gli scontri; e ne’ lor petti S’habitar vi potessero i furori, Havrian gli Odij, e le Furie aure d’amori. XVII A così liete meraviglie intesi Giungon intanto i Toschi Numi, dove Hà mille voti sovra Quercie appesi Il Re de’ Cieli fulminante Giove. Quì di Tempio non stanno archi sospesi, Che son d’ ingegno humano uniche prove, Nè d’argento, nè d’oro ivi si vede Splender là volta, e balenar la sede. XVIII Nè Caistro v’ addusse i marmi suoi, O le pietre s’ammirano di Paro: O pur Numidia, co’ gran sassi tuoi Industriose mani i muri alzaro, Nè desti, o Gange, da’ gran lidi Eoi Di gemme dono pretioso, e raro; Nè ‘l ricco Tago da l’Esperie vene A te votò le rilucenti arene. XIX Ma tra ben mille Quercie un’ Ara stassi, Ch’ a discoperto Cielo hà ‘l tufo eretto. E fabricata di quei rozi sassi Ne la rozezza hà maestoso aspetto. Quà drizzan Flora, e Zeffiro i lor passi, Spiran dal volto riverente affetto; E riconoscon, ch’ ivi il Dio s’accoglie, Che tra Quercie, e Colombe il ver discioglie. XX Zeffiro al Nume, ossequioso, offerse Di fiorito tesor ricche vaghezze, E sovra il suolo, e sù l’altar disperse Di Natura, e d’Amor mille bellezze. Indi intrecciò di fior pompe diverse, E corone compose; e di ricchezze Di pretiose piante in guise rare Ornò le Quercie, e incoronò l’altare. XXI Poscia visto, che Giove à lui non rende Amichevol risposta, elegge odori Sparger d’Arabia, e ciò, che l’Indo prende Da’ Campi, usi del Sole a’ primi ardori; Ciò, che Natura prodiga sospende Ne l’arse piagge de’ Sabei cultori; E ciò, che la Panchaia in un raguna A l’hor, ch’ a la Fenice è tomba, e cuna. XXII Ma scorto, che gli odori anco son vani E ne l’aria se n’ vanno à vuoto i voti, Cangia pensiero, e al Re de’ Ciel’ sovrani Tributi d’ holocausti offre devoti. Stese al piano con modi alteri, e strani Volanti augelli al nostro guardo ignoti, Fà d’alme alate vaghe offerte al Nume, E copre il suol di colorite piume. XXIII Nè ciò Giove curando, ei da pensiero Non usitato sovrapreso, e vinto, Di fere offrirgli sagrificio altero Entro l’animo suo seco hà distinto. Ferisce il Cervo, e cade il Toro fiero, E ‘l Lepre sù l’altar giacesi estinto; E la Damma, che sacra à Cinthia vive, Per Giove quì di vita hà l’hore prive. XXIV E perche a’ suoi desiri non arríde Con risposte seconde il Dio Tonante, Tra quelle quercie sospiroso ancide Vittime sacre al Regnator stellante. Ordini cangia, e modo; e pur non fide Le voci ascolta frà l’ombrose piante; Onde penoso manca; e da giocondo Spirto d’amor, fatto è di fuol fecondo. XXV Per molti giorni rinovò l’offerte, Ma sempre in vano, l’Amator fedele; Sì c’hor le gratie in lui plora deserte, Ed hor’ il fato suo chiama crudele. Onde Flora con brame assai più certe Queste sciolse ver Giove aspre querele. Ed à quel suono udironsi dolenti Sospirar l’aria, e lamentarsi i venti. XXVI Giove, dicea, che Padre sei del tutto, E nel giovar’ al Mondo hai posto il vanto; Deh, come Padre à me sembri di lutto, E sol per me nocente opre hai di pianto? Quì vvedi un Nume à lagrimar ridutto, Che degno per suoi pregi è d’alto canto: E per te si dirà ne’ dolor miei, Che possa la miseria anco sù i Dei? XXVII Tù pur’ hai dato il parturire a’ Mostri, Ov’ Affrica più sterile fiammeggia. E veneno non hanno i campi nostri, Che ne gli Angui fecondo hor non si veggia. Il Mare istesso ne gli ondosi chiostri Di gran portenti prodigo spumeggia E fin il Foco, che divora il Mondo, De le sue Salamandre hà ‘l sen fecondo. XXVIII Ed io mi giaccio languida, infeconda, E nata solo à colorire il campo: E, come sù l’arene in curva sponda; Steril’ d’inutil’ orme il suolo stampo. E si dirà; che Giove appien feconda Le crude belve; e solo i Numi al lampo Del dì non produrran l’amata Prole, In odio al Cielo, ed in dispregio al Sole. XXIX Ah poiche nulla l’esser Dea mi vale, Rinuntio il Cielo, e le superne doti: Non più, non più desío vanto immortale, Sol di morte, e d’oblío sono i miei voti. Non già sù i Tempij, ma sù me lo strale De la tua destra fulminante scoti. Giovi l’esser’, o nulla, o mostro almeno; Poi c’hanno i Mostri almeno fecondo il seno. XXX Vieni, Aquilon, dal tuo gelato regno, Spoglia il terren di florida verdura; E tu non tardar’ Austro, al cui disdegno Gli ultimi honori suoi teme Natura, E dal tuo suolo, ch’ è di pompe indegno, Al Mondo reca l’Affricana arsura: Fermi Estate ne’ campi i regni suoi, E più non torni Primavera à noi. XXXI Inaridite homai per me viole, Sterili fiate, ò languidetti gigli: Non più adorni la Rosa, come suole, Le tempie mie co’ suoi color vermigli. Ecco ti sfrondo, e sterile di prole Non fia, ch’ a vane pompe i più m’appigli. Ite lunge da me, trofei mal nati, E sol pianto, ed horror sien’ i miei fati. XXXII Infausti Amori, a che lusinghe, e vezzi Mi prometteste inutili, e mendaci. Se sono i vanti miei pene, e disprezzi, Amare gioie, e combattute paci. Amor, s’ hai spirti a l’Infecondia avezzi; O’ cangia nome, ò muta i ben fallaci: Da steril lampo Amore ardor non spira, E Venere per Flora è Madre d’ira. XXXIII Quercie, s’in voi lo spirto, e ‘l senso havete Non più stupide siate a’ miei sospiri; Deh, per tormi al dolor, sù me cadete, E con me seppellite anco i martiri. Quercie ben dure, e ben crudeli siete, Se voi non secondate i miei desiri; E ch’ in voi sia lo spirto hora mi giovi, Perche solo da voi la morte i provi. XXXIV Quercie voi sorde sete: ah ben m’avveggio Ch’ in voi regna per me qualche pietate; Se da me sù ‘l Metauro amico seggio Haver goduto, hor quì vi rammentate. Se mai da me voi foste culte; io chieggio C’hoggi gli honori miei voi disprezziate, A chi morte desia porgete aita; E siate tomba à chi non merta vita. XXXV In rendermi infeconda, i sommi Dei Han la virtù divina in me dannata: Nè voglion, che miei nobili trofei Sien d’eccelso valor prole beata. Ma che mi lagno? ahi lassa. I fati miei Conoscer ben dovevo alma mal nata, Che mi negava il Ciel speme di figlio, Se da fior, non da frutti il nome piglio. XXXVI Misero Nume, che dal Ciel negletto Per aita a le quercie aspre ricorre, E spera, in lor pietade haver ricetto, Poiche pietade il sen di Giove abhorre. Folle: qual vano suon movo dal petto? Quercia, ove Giove manca, in van soccorre. Arbor, ch’ i frutti spande, i fior disdegna; E tra le selve la pietà non regna. XXXVII Deh pur Quercia selvaggia io stata fosse, Ch’ almen vantar potrei frutti, e germogli? Nè soffrirei di duolo acerbe scosse, Nè sarei preda d’horridi cordogli. Poiche Giove non m’ode, ed hà rimosse Da se mie glorie; e rozo è a par de scogli. Quercie, s’havete il suon, da voi mia doglia Più degnamente al vostro Dio si scioglia. XXXVIII Altro attender da me voi non potete, Se non, che voi narrando con la fronda Le mie brame ansiose, immansuete, Io sù voi le mie lagrime diffonda: Vita da l’acque del mio pianto havrete, Onde più fia la lingua in voi feconda; E si dica. Che Flora a i pianti sui Fece prima, che se, fertile altrui. XXXIX Crescete pur’ al pianto mio dolente Figlie del mio Metauro à parlar nate, E se ‘l mio duol non è forse eloquente, Per me fertile almeno il suon snodate. Si sciolga in voi quest’anima languente, Pur che nel mio languir noi v’avvivate. E si ridica. Se Dodona suona, Tra Quercie al suon di Flora ella ragiona. XXXX Le mute Quercie a l’hor di Flora al nome Tutte tremanti scossersi dal fondo; E fluttuanti con instabil chiome De’ gravi preghi sospiraro al pondo: Tuonò l’Antro di Giove; e non sò come, L’Ara anch’ essa crollò: l’Aer giocondo Nubi accolse in un tempo, e le disperse, E meraviglie il Bosco hebbe diverse. XXXXI Zeffiro istesso paventò la sorte, De la sua Flora, e di sua vita incerto. Quando da manca un tuon, con vaghe scorte, Di gratie rimbombò nuntio più certo. Sparver gli avversi augurij; e ‘n tanto sorte Da le Quercie s’udir voci di merto. DA QUERCIA D’ORO SORGERÀ GRAN PROLE CHE STENDERÀ L’IMPERO A PAR DEL SOLE. XXXXII A tai note l’Augel, ch’ inver l’altare Ne l’entrar di quel bosco a’ Dei fù scorta, A l’Oracol’ applaude; e ‘n fogge rare Sù ‘l crin di lei co’l volo si traporta, E fatto nuntio di allegrezze care Co’l suo calor fecondità l’apporta. Gioirò a l’hor gli Amanti, e ‘n dolci amplessi, Com’ hanno i cori, uniro i corpi istessi. XXXXIII E fertil fatti Zeffiro, e l’Amata Raccolser lieti i loro spirti al core; Di rai di maestà la fronte ornata A’ lor pregi accresceva eccelso honore. L’Ara a l’hor del Tonante incoronata Fu di più vago, e più gradito fiore; E bei nembi di manna in guise nuove Piovvè da le sue Quercie il sommo Giove. XXXXIV Di più fini smeraldi le sue foglie Tutto il bosco vestì ricco, e lucente; D’ augelli il choro melodía discioglie, Che molce co’l suo suon l’aria ridente; Onde ver Giove Zeffiro, e la Moglie Spiega accenti d’amor dal seno ardente; E, come merto, e fè gli animi accende, A don di gratie, suon di gratie rende. XXXXV A nuova così insolita, ed altera Festeggiante Himeneo da Pindo accorse, E de le Gratie la vezzosa schiera Snella co’ passi il vago Dio precorse; Del bosco le Napee lieta maniera Ordir d’industri feste;; e ‘l Ciel si scorse Al vezzeggiar de’ Toschi Dei rivolto Di più lieto seren sparger’ il volto. XXXXVI E per girar di molti Soli il piede Vi mosser quei drappelli à vaghi balli, E gioì tutta la frondosa sede Al mormorío de’ liquidi cristalli. Odonsi accenti; e ‘l suono in giro riede, Che son del lieto suono Echo le valli: E per Coppia sì degna in dolci accenti Ragionan l’Aure, e parlan gli Elementi. XXXXVII Manna, ed Ambrosia sono i cibi eletti, Onde si pascon’ in quei giorni l’alme; E tra giochi, e tra danze, e tra diletti, Di Venere, e d’Amor son le lor palme. Mille serti di fiori in cerchio stretti Pendon, e son di Quercie altere salme. S’empie il bosco d’odor, di fiori s’orna, E Primavera in lui stabil soggiorna. XXXXVIII Quando Giove immortal, che ‘l tutto puote, Ed han da lui gli Oracoli gran fama; Lieto a le gioie altrui scioglie tai note, E con le Dee Silvano anco à se chiama. Nave ordite a gli Amanti, e ver le note Piagge d’Etruria, ove l’Italia gli ama, Ricorran fausti; e contra il rio destino Propitio habbian ver l’Arno il lor cammino. XXXXIX Disse; e cento si vider da la selva Satiri, e Fauni mover pronti i passi; Cadon tronche le piante, ed ogni belva A rinselvar trà lontan bosco vassi. Ove più ‘l luogo d’alberi s’inselva, La sede ombrosa à diramar più stassi: Trascinansi le piante; e à sì grand’ opra Ogni selvaggio Dio le mano adopra. L V’ hà chi pulisce co’ suoi ferri il legno, E chi comparte con misura i lati; Altri le travi assetta, e con disegno A unirle son gli ordigni fabricati. Chi sù i chiodi colpisce, e chi l’ingegno Ivi impiega a segar gli assi tagliati; Ed è fatto, ò mirabil magistero, Di tavole diverse un corpo intero. LI Ferve l’opra de’ Dei, qual suole il folto Popol de’ Mirmidoni in verde prato, Qual’ hor tema, ch’ il Ciel tra nubi accolto Sovra la messe sua sciolgasi irato. La nube intanto de gli Amanti sciolto Disperde in aria il suo tesor gemmato. Che Giove vuol, ch’ à lor ritorno solo Rada la fatal Nave il salso suolo. LII Con le Dive, e co’ Satiri Silvano Vanno di pece ricoprendo i fianchi, Spingon la Nave in mar con forte mano, Nè mai d’affatigarsi ivi son stanchi; V’ alzan le sarte, e sù l’aereo vano Spiegan le vele; e i destri remi, e i manchi Adattan’ al gran Legno; ed Argo pare Che fù pregio del Ciel, stupor del mare. LIII D’Helicona le Dee giunsero intanto, E Febo in un da la Castalia riva: E per Zeffiro, e Flora in dolce canto La sua lira animò lieta ogni Diva. Clio gareggia con Erato, e ‘l suo vanto Polinnia à lor non cede; e d’honor priva Ogni alta tromba ivi giacer potría; Ove l’Aonie Dee fanno armonía LIV Cantar di Giove le gran lodi eterne, E com’ egli feconda il Mondo intorno; E de l’Oracol suo l’opre superne Con dotti carmi rinovaro al giorno. Lodan le Quercie, che da parti interne Versan note veraci; e in quel soggiorno Le Colombe fatidiche, che puri Scopron’ ivi di Giove i sommi auguri. LV Quando Zeffiro, e Flora al Cielo amici Dopo rivolte di gran Soli al fine Partiron da Dodona; e al mar felici Drizzan de’ passi lor l’orme divine. Giungon’ i Toschi Dei non più infelici Là, ve sferzan’ il suol l’onde marine; E de la nube in vece appare à loro De’ Dei selvaggi l’immortal lavoro. LVI Così tal’ hora ne’ Theatri alteri, Che Roma eresse a le superne Stelle, E tra quei scherzi a’ popoli guerrieri Mostrò sembianze maestose, e belle; Con varij, memorabil’ magisteri Diè il Martio campo imagini novelle. Al mirarsi del mar, l’aer disparve, E dove Nube fù, Nave conparve. LVII Attoniti à tal’ opra i vaghi Amanti Di quei Numi stupirono, e di Giove. Premon’ entro quel Legno i mar spumanti, Nè temon d’Austri tempestose prove. Godon, che sacra Quercia à l’aure erranti Ivi per arbor s’alzi; e gioie nuove In se accogliendo, ver l’Etrusco Regno Pari al Zeffiro Dio se n’ vola il Legno. Il fine del quinto Canto. Canto Sesto Argomento Contra ‘l Legno de’ Dei dal freddo Polo Vien Borea, e turba in mar le salse arene Placa l’onde Nettun; stretto in catene E ‘l Vento; e lieta và la Nave à volo. I Al partir de gli Dei dolce Himeneo Cantò l’origin de’ lor primi amori, Sparso il sembiante suo d’odor Sabeo, E adorno il capo d’odorati fiori. Soavemente con la lira féo Risonar l’aria a’ detti suoi canori; E al vago Legno suo spirando vita, Loquaci in un co’l suono havea le dita. II Sovra ‘l lido danzar le Gratie belle, Gli avori ad arte mossero animati, E con arti atteggiando ogni hor novelle, Incurvavan’ industri i nudi lati; Hor’ ergeansi dal suolo, ed hora snelle A le fughe sciogliean’ i piè gemmati: Confusi eran’ i moti, e in un distinti; E d’industrie assembravan laberinti. III Ed in un per diletto Apollo istesso Vago di riveder la bella mole, Vi stese i passi, e diede applausi anch’ esso A l’opre oltr’ ogni fè nobili, e sole. Spirò dal volto il Rè del bel Permesso Influssi lieti à la crescente Prole. E, dove pose il piè, con fertil vena Perle il mare produsse, oro l’arena. IV Le Muse in compagnia non men gioconde I lor strumenti musici tempraro, Ed a’ concenti lor sovra le sponde Cento Cigni d’Amor vaghi scherzaro. Di lor colori quelle spiaggie, e l’onde Con le native porpore adornaro; E a gara de le Dee snodar da’ colli Di placidi amoretti accenti molli. V Poi le Muse, Figlioli de l’Auretta, Gigli, e rose raccolsero dal prato, De l’amaranto, e de la mammoletta Intrecciaron lung’ ordine odorato; E di ghirlanda di bei fiori eletta Cinser il Legno intorno; e coronato Fù d’odoroso, e colorito innesto Quel Legno, che di Quercie era contesto. VI Con applauso minor d’Argo la Nave Già fù veduta ne la patria riva; Che fabricata anch’ essa era di trave, Che fù sacrata a la Palladia Diva Ivi i Guerrieri Heroi fean’ insoave Ogetto al guardo; e quì due Stelle apriva, Anzi un Sol di beltà, che ‘l Mondo indora, Unito in fè d’Amor Zeffiro a Flora. VII Quand’ ogni altro sù i Cigni in aria eretto Con mirabil virtù scorgesi altrove Torcer lunge dal lido il vago aspetto, E celebrar gli Oracoli di Giove. Dal ricurvo del mare ondoso letto La gran Nave Sacrata intanto move; E per l’Oracol del gran Padre lieta L’Italia al suo cammino havea per meta. VIII E dicean. Quanto è frale audacia humana, Che sol di suo mortalità si fida; La pompa de gli honor stima non vana, E ‘n grandezza di regni il tutto annída. L’ira non teme del Rettor sovrana, Ed à tenzone in fin’ il Cielo sfida; E a crude prove di Tiranni avvezza Fuori de le sue prove altro non prezza. IX Ah, che regna sù noi Giove dal Cielo, Ed arbitro de’ Fati al tutto impera. Più de l’humano ardir puote il suo telo, E regge il Mondo da l’eccelsa Sfera. Face non scote lo stellante velo, Che non sia nuntia del suo cenno altera; Poscia ch’ à noi da Region sì belle Con raggi di splendor parlan le Stelle. X O’ quanti à noi con l’arte lor fallace Giunser di finto Ciel folli indovini, E ne mentiron da propitia face Promessi, un tempo fà, Parti divini. E’ ch’ à quest’ hora già sarai ferace Per noi ‘l Tosco terren d’Heroi bambini; E l’Arno al nostro germe havria più volte Offerti i voti, e le preghiere sciolte. XI Ed altri poi de’ lor’ arcani oscuri Insoavi svelando à noi le note, Predir con infelici, avversi auguri, Per noi sterili il Ciel volger le rote, E d’Heredi mancare a noi futuri Il rampollo, onde pompe il Mondo hà note: Ed in marmi scolpite, ed in historie Tacer le lodi, ed ammutir le glorie. XII O’ folli mentitori, ecco a noi ‘l vero Fra Toschi Citherea predir si vide; Ed hora il Re de lo stellato impero Da la Caonia à noi felice arríde. La Quercia hà spirti d’intelletto vero, E la Colomba ne diè scorte fide; E con alti prodigij il Ciel s’è mostro Auspice glorioso al germe nostro. XIII Con tai note rendean gratie ben mille Al gran Fattor de la superna mole; E, dal Ciel folgorando auree faville, Fu testimonio à sì bei vanti il Sole. Và lieve il Legno à suon d’aure tranquille, E lieto corre il mar più, che non suole; Nè men, ch’ il Cielo, à Nave sì gradita Spira Zeffiro anch’esso aure d’aita. XIV Già ne la terza Luna erano giunti Di lor fertilitade i fausti Amanti, E d’amore tra lor quasi consunti Colmavan d’alta gioia i lor sembianti: Mai non le vide il Sol tra se disgiunti, Nè l’ombra li trovò da se distanti: Vivean concordi; e’ n fè d’amore uniti Correan’ i mari, e trascorreano i liti. XV Alcuni Dei de l’acque à quel governo Siedon’ entro la Nave, e varij in vista Fan, che per loro con stupore alterno Sia gioia, e meraviglia in altri mista. Di quà, di là sen’ vanno; e ‘l crudo verno Vincon de l’onde salse; e l’ira trista, Che, per nudrir’ in sen spiriti fieri; Hanno contra le Navi i Venti alteri. XVI Cocente era l’Estate, e fuggitivi Non si vedevan per l’arsiccie valli Tra sassi, e balze mormorando i rivi Rivolger’ i lor limpidi cristalli. Ne vinte le Napee da’ raggi estivi Ordian ne’ campi leggiadretti balli. Ombra il Platano altier più non facea; E languía ne’ suoi fonti arsa ogni Dea. XVII Il Cane al rivo sitibondo gia, E anhelando mancava a tanto ardore, Sì che le caccie semivivo oblía, E sol per suo ristoro ama dimore. Le brame, onde cacciar rapido ardía, Hà posto solo in cristallino humore; E, perche tempri de l’ardor la fiamma, E’ sicuro il Cinghial, salva la Damma. XVIII La Terra il seno a se medesma fende, E del suo fin si lacera tremante: E mentre in due partito il campo rende, Par, ch’ apra a se medesma urna avampante. Non più l’augel tra rami albergo prende, Nè sù l’aria scherzar mirasi errante. Il pesce istesso dentro l’onda muore, E gli è l’acqua del Rio lampo d’ardore. XIX Hanno il lor corso ancor perduto i Fiumi, E sono i letti lor sterili arene; E dentro il mare gli ondeggianti Numi Soffron di grave arsura estreme pene. E ‘l vento, ch’ in quei torbidi volumi Essercita d’orgoglio ultime lene, Chiuso non spira; e in se da l’ima terra Arso d’ira a se move acerba guerra. XX Ma più d’ogni altro Borea, a cui l’Estate Lungo carcer prescrive in lacci stretto, Con forze d’ira, e di furore armate Fatto di se maggior rompe il ricetto. Da la caverna de’ Rifei slegate L’ali in aria dispiega; e à furie eletto In alto imperversando al Sole in faccia Ardente assalitore onte minaccia. XXI Ciò, che scontra Aquilon fiero tra via, Od inchina, o divide, o spinge al piano; Scosso da quel furor l’augel partía A nido più sicuro, e più lontanto: Agitata da lui l’Elce muggía; E la torre crollava al moto insanol E si vedevan con scoscese fronti Nel campo dirupar gli eccesli monti. XXII Ma da gl’ incendi del lucente Dio Vie maggiormente acceso in mar s’abbassa, E qual Baccante, o furibondo Enío Ogni ogetto, ogno scontro urta, e fracassa. Con aspro formidabil mormorío Lacera ogn’ onda freme; e franta, e lassa A l’impeto del Vento urla feroce, E ‘n campo d’ira hà di terror la voce. XXIII Ogn hor più cresce d’Aquilon l’orgoglio; Poich’ il soave Zeffiro ivi scorge Di gioia trionfare; e a lui cordoglio La contentezza de gli Amanti porge. Ove il Siculo mar tra doppio scoglio Si stringe, e l’onda rimbombando sorge, Già già la Nave rimirar potea Cariddi disdegnata, e Scilla rea. XXIV Ivi più fiero l’Aquilon s’oppone, E ristretto à quel varco hà maggior forza. Resiste il Legno, mà più ria tenzone Borea contra gli Amanti ivi rinforza; E stima, inoltraggiarli, haver corone Degne de le sue furie, erra, e si sforza Come Padre di gel volgere al fondo De la beltà d’Etruria il Sol giocondo. XXV L’onda in valle ruina, e poi sù l’alto Risorge in foggia di spumoso monte: Par, che mova a le Stelle audace assalto, Ed alzi in Ciel la tempestosa fronte. Disperso è ‘l regno del ceruleo smalto, Nè più val sostener di Borea l’onte. E, se sacro non fusse il Legno à Giove, Soffrirebbe di danni ultime prove. XXVI Era il Sol chiaro, e Giuno non copría D’horrre i campi del suo regno errante; Nè Giove a l’atre nubi il sen fería Con la triforme vampa fulminante: Il balen non ardéa; ne ‘vi s’udía Con spavento mortal tuono sonante. La Prole d’Eulo non fremea rubella, E pur l’Ionio havea fiera procella. XXVII Chi vide mai, che senza nubi il Cielo Potesse mai recar procelle amare, E senza pioggie tempestose il gelo Cresca, ne’ giorni estivi, in seno al mare? Borea, a le vampe del Rettor di Delo, L’Ionio sospingendo, ivi inalzare I flutti gode, e prende i legni à scherno; E l’Aquilone al mare è Vento, e Verno. XXVIII Da l’onda procellosa è spinta in alto La grand’ Orca, ch’ un scoglio rappresenta, Ed il Delfin con tempestoso salto In fino al Ciel’ horribile s’avventa. Il popol muto de l’ondoso smalto Disperso in aria il fine suo paventa: Stupido mira, ch’ il Sol luce, e pure Il Furor procelloso hà notti oscure. XXIX Il Ciel l’ordin del Fato, e de le Stelle Per tutti gira, e con sinistro aspetto Le faci sovra noi vibri rubelle, Per farne di miseria aspro ricetto; O da sembianze gratiose, e belle Influssi piova di sovran diletto. Soggetti sono a’ Fati ò buoni, o rei Le proprie Stelle, ed i medesmi Dei. XXX Nè puossi homai più contrastare à l’ire, Ch’ Aquilon sovra Zeffiro raguna, Sì ch’ ei non tema il forsennato ardire, O infesta al suo cammin non sia Fortuna. Anzi frà tante scosse homai perire Franto da scogli si rimira; e bruna, E profonda vorago in cupa notte De’ Numi il Legno vacillante inghiotte. XXXI Quando Nettuno, c’hà de’ mari il regno, E le tempeste al suo voler raffrena, Da l’antro, ov’ egli giace, ode lo sdegno, Ch’ i Toschi Numi à rei perigli mena, E in un sossopra co’l sacrato Legno Balza à le Stelle la Sicana arena; Le forze à contrastarli il varco stringe, E indietro ne l’Ionio il Legno spinge. XXXII Fuor di gran Scoglio, che nel mar s’inalza, Sorge il temuto Dio de le salse onde, E su la cima i suoi corsier’ rincalza Da le più cupe risonanti sponde. I crini de’ Destrier spargon la balza Di lor cadenti brine; e le gioconde Luci del giorno par, che mirin lieti, Tolti da l’omre de l’interna Teti XXXIII Ma Nettuno, che scorge il Vento infesto Mover guerra a’ suoi Regni, in lui converso Fisa grave lo sguardo, e à l’ire presto Tra l’acque hà ‘l volto suo di lampi asperso Alzo la mano; ed in quel lato, e ‘n questo Il tridente girando. A che disperso (Dice) veggio per te, Borea oltraggioso, Senz’ i gran cenni miei l’impero ondoso, XXXIV E come hora, ch’ il Ciel ferve d’ardore, Gelido contra ‘l mar spandi il tuo volo, E Nave, che Dei porta arsi d’amore, Travagli audace nel ceruleo suolo? Sù Numi, ch’ al Tirren, seggio d’honore, Guidate il Legno, ch’ al Rettor del Polo Mio germano è sacrato, il reo stringete, E vendetta da lui degna prendete. XXXV Intimorissi Borea al sommo accento; Che tal’ ancora indomito Leone La libertà natíva, e l’ardimento A’ cenni del Rettor pronto suppone. Pur, benche vinto sia, reca spavento, E move, benche vinto anco tenzone; Tra le catene a l’Arbor sacra stretto Spira dal sen, dal volto ira, e dispetto. XXXVI Indi Nettun comanda a’ Dei del mare, E de’ Fonti, ch’ al sacro, amico Legno Faccian superba corte; e ‘n foggie rare Secondino la via del salso Regno. Poscia, per ritornar ne l’onde amare, Dando a’ spumosi suoi destrieri il segno, Scote flagello di coralli altero, E s’apre in ampia via l’ondoso impero. XXXVII Scende l’humido Dio ne la gran Reggia Fabricata di lucido cristallo, E si riede a le stanze, ove pompeggia Ogni gemma, ogni perla, ogni corall: Placida nel mar l’onda si vagheggia, Non più s’innalza il flutto Ionio; e fallo Mite il suon di Nettun; pace soggiorna, Ove fù guerra, e ‘l mar nel mar ritorna. XXXVIII Mille accorron dal Mar Fonti diversi, E mille Numi a la pomopsa festa Chi d’apio hà i crini, e chi coralli tersi Alza per chioma su la molle testa. Altri con canna stringe i crin dispersi, Altri di ricche perle orna la vesta: Chi d’argento coprirsi hà per suo vanto, E chi di gemme hà tempestato il manto. XXXIX Un si vede, che frena altier Delfino, Ed ondeggiando và su mobil piano; L’altro regge per remo alpestre pino, E tutto squame è ‘l sen, squame la mano. Chi di lor preme un’Orca, e cristallino Hà ‘l piede, e ‘l crine, e chi d’aspetto humano, Ma con scaglioso pieded apre il mar fiero, E pompa a’ Numi è un’ Elemento intero XXXX Quì con Tritone suo Cimmotoe gira, E innestano fra lor dolci gli amplessi. A gara l’un de l’altra amori spira, E tra lor son gli scherzi, e i baci spessi. V’ è Salmace la bella, e andar si mira Di due sessi superba; e i flutti anch’ essi Cercan (co’l circondarla) in lei godere Di Natura, e d’Amor dolce piacere. XXXXI Glauco, lo Dio, non più ne’ pesci intento, Ma volto ver gli Dei cangia costume; E dietro la gran Nave à par del vento Rade, benche sia veglio, à vol le spume. Ino non versa quì grave lamento, Ma gode a l’altrui gioie, e dal suo lume Così vaga d’amor luce scintilla, Che tutta l’aria intorno arde, e sfavilla. XXXXII E la leggiadra Spio con Melicerta, E in un co’l variabile Vertunno Van radendo la via de’ flutti incerta, E l’erranti campagne di Nettunno. Neera ancor, ch’ i primi vanti merta, Non lunge và dal placido Portunno; E con Nereo Cimmodoce, che vale Far’ un Cielo d’Amor l’ondoso sale. XXXXIII Tra quelle Ninfe, che del Legno sacro La pompa accompagnavan dilettosa, V’ è Galatea, ch’ è pregio, e simulacro De la Reina d’Idalo amorosa; E come il Sol nel mare hà ‘l suo lavacro, Quì tuffa anch’ essa i membri suoi vezzosa, E vaga è tra le Ninfe, come suole Esser tra mille Stelle unico il Sole. XXXXIV E non lunge da lei giovan si vede, In cui Natura ogni beltà comprende; Aci è garzon sì vago, e dolci prede Fà de la Ninfa, è ‘n lacci il cor le prende. Se ‘l Sole, e Cinthia sù l’eccelsa sede Non splendesser’ a noi con lor vicende; Questi co’ volti lor per beltà rari Foran la Luna, e ‘l Sol de’ nostri mari. XXXXV Chi di lor batte a numero la scaglia, Ed a l’aria rendeva accento raro; Scote cave testuggini, e v’ uguaglia Altri qual suon la Cetra habbia più caro. Chi da canne palustri a l’aure scaglia Acuto suono; ed altri il regno amaro Scorrendo a balzi, con la man le vote Parti d’un rame strepitoso scote. XXXXVI Da conche ancor s’udian vaghe, e ritorte Spandersi a l’aria armoniosi accenti. E da ricurve trombe in varia sorte Dolcemente confusi usciano i venti. Liete a danze d’amor leggiadre scorte L’Aure facean con musici strumenti; E non haveva il mar ceruleo speco, Che del gioir de’ Dei non fusse l’Eco. XXXXVII Poscia i Marini Dei sciolser da’ petti D’ogni soavità note ripiene. Non più nemico de gli altrui diletti Turbi Borea crudel le salse arene, Nè più d’atre tempeste ampi ricetti Sien l’Ionie campagne, e le Tirrene. Perche in Italia torni alta beltate, Amiche a’ Toschi Numi Aure volate. XXXXVIII Frema il crudo rubel fra torti lacci, Indarno spiri ingiurioso, e fero; Co’ guardi inutilmente il Ciel minacci, E lieto di Nettun miri l’impero. Avvinto i piedi, e catenato i bracci Stiasi infelicemente il Mostro altero. In vano hà sdegni, in darno hà feritate, Amiche a’ Toschi Numi Aure spirate. XXXXIX Scuota ogn’ un le catene, ond’ egli avvinto Giace miseramente al sacro Legno; E da gli urti di noi frema sospinto, E contra se per duol volga il suo sdegno. Gioia n’occupi l’alme; il forte è vinto, E de gli scherzi nostri è fatto segno. Son nel feroce cor l’ire mancate, Amiche a’ Toschi Numi Aure scherzate. L Vè, che per sdegno par’ inaspri il ciglio, E scota in un la catenata mano; Sembra, che l’aria ancor desti a periglio, E correr voglia il procelloso piano. Ma lieve sforzo, e inutile consiglio Hà l’ira insana, e l’ardimento vano. Il rio furore in lui l’ale hà tarpate, Amiche a’ Toschi Numi Aure girate. LI Dibatte il folle de la chioma il gelo, E svelle disdegnoso il bianco crine. Fulmina con le luci; e par, ch’ al Cielo Osi recar’ altissime ruine. E teme, e fassi qual tremante stelo De’ venti al soffio sù le balze Alpine. E ancor le guerre in lui spiran rinate, Amiche a’ Toschi Numi Aure danzate. LII Già manca il fiero, già languisce, e posa. Tutte hà tentate in van le vie de l’ira. Già l’alterigia in lui sì minacciosa Intepidirsi, e perdersi s’ammira. Non più dal suo venen vita sdegnosa Hà il rio Furore, e debellato spira. Trofei, con liete pompe, a l’aure amate Amiche a’ Toschi Numi aure spiegate. LIII E giovi scherzar, vinto è ‘l rubello, Giace sicuro il pelago da’ flutti: Non più, non più contra noi rechi il fello Annunzij miserabili di lutti. Il Cielo ne seconda con novello, E stabile sereno. Odansi tutti Ridir. Per bel trionfo ale odorate Amiche a’ Toschi Numi Aure spiegate. LIV Intanto da quei scogli a l’aure fuore Per bel trionfo replicar s’udiva; E in voci rispondeva ancor canore Aure la vaga, e ripercossa riva; E fin’ il Cielo per honor maggiore Toschi Numi nel suon dir si sentiva. E quasi fusse il Mondo un cavo speco, A honor de’ Toschi Numi era fatt’ Eco. LV Così lieti se n’ gian Zeffiro, e Flora; E risolcavan di Sicilia il mare, Catenato Aquilone ad hora, ad hora Havría mosso, fremendo, irate gare; Ma vano de l’ardir, ch’in lui dimora, Lo sforzo in lui sentía. L’Aure scherzare Veggonsi al Legno intorno; e ‘l Dio di Delo Coloría ‘l mare, e serenava il Cielo. Il fine del sesto Canto. Canto Settimo Argomento Aci ardendo per lei, ch’ è Dea de’ fiori, Galatea sprezza, ea cui spiega sua pena In darno Polisemo: Eolo incatena Borea; ed Aci ritorna a’ primi amori. I Tra le pompe del mare Aci il vezzoso Tutto se n’ giva de’ suoi pregi altero, E l’Idolo de’ scherzi dilettoso Sembrar poteva entro ‘l ceruleo impero. Il crine di fin’ or splende fastoso; E doppio hà ne le ciglia arco guerriero, Donde folgora dardi, e ‘n dolci ardori Saetta l’alme, e incenerisce i cori. II Paion le luci due rotanti giri D’un animato Ciel, ch’il tutto avampi, E felici sospiransi i martiri, Che nascon fuor da sì beati lampi. Chi fia, ch’intento quelle gote miri, Non vien, che da l’ardor sicuro scampi, Benche tra fresche rose in quel bel volto Primavera il suo regno habbia raccolto, III Vivi rubini son gli accesi labri, Che fra denti, di perle han lor ricchezze; Di dolce morte altrui vermigli fabri Tra vampe di delitie, e di bellezze. Ch’ avanzan de l’Aurora anco i cinabri, E sin di Citherea l’alte vaghezze: Alabastro è la fronte, avorio il collo, E sembra Ganimede, e vince Apollo. IV Questi di Galatea gran tempo acceso Ne la Sicania sol di lei languío. E con gli affetti a quelle luci inteso. L’adorava d’Amor novello Dio. Quand’ ei ver Flora il guardo suo disteso, Ed ogni hor più scorgendo in lui natío Il fior de la beltade entro il suo core Prende le fiamme, e concepisce amore. V Ah che non puote un legiadretto volio? Ah che non vaglion due vezzosi sguardi? È ‘l vecchio ardor da novo amor ritolto, E cruda piaga hà da novelli dardi. Và da la prima servitù disciolto; E son gli antichi affetti infermi, e tardi. Flora vagheggia; in Flora vive; e Flora Qual’ Idolo d’Amor con l’alma adora. VI E seco dice. Qual beltà di Cielo S’offre a’ miei lumi sovra ogn’ altra vaga? Avampo, bench’io sia nel mezo al gelo, E ‘l mio cor di tal Dea solo s’appaga. Felice me, se da sì dolce telo Mi vien’ a l’Alma salutevol piaga. Purch’ ella sia mia Diva, ed amor mio, O Ninfe a Dio, o Galatea a Dio. VII Non hanno i mari aspetto così degno, Che vaglia pareggiar di Flora i rai; E se potesse dal ceruleo regno Novella Citherea risorger mai, Ella sarebbe: se non c’hora il segno Di Venere ella avanza; e dirsi homai Potria, ch’ il mar due Veneri albergaro. Ò sol di questa Venere è ‘l mar chiaro. VIII Vili a me, Galatea, sono i tuoi crini, Che di cristallo sembrano, e non d’oro; E quelli, che stimai pregi marini, In costei son del Ciel ricco tesoro. E s’ in te vagheggiai coralli fini, In lei ricchezze d’alte gemme adoro. Galatea più non t’amo; arde il mio core Per lei, ch’ è nova Galatea d’Amore. IX Deh chi dicesse mai, che dentro il mare Fiore sì vago soggiornar valesse? E, dove tante Ninfe han lampe chiare, Quì l’Anfitrite de le Dee splendesse? E per Flora, c’ hà forme al mondo rare, Primavera nel mar fiorir potesse? Godete, ò flutti, a Nume sì gentile, Hà ‘l Mare ancora il suo vezzoso Aprile. X Fonte (ahi lasso) son’ io, ma ben conviene, Ch’ un’amator, ch’ in lagrime si stilla, Si scioglia per amore in flebil’ vene, E mista donde sia la sua favilla. E se ‘l provar per lei soavi pene, Si prezza del mio cor gioia tranquilla, Si dica. Aci di Flora arde al sembiante, Ed un Fonte d’un Fiore è fatto amante. XI Ma Flora punto non curava i lum De l’Amator, che lagrime sciogliea; Bench’ ei con cento torbidi volumi Del mar colmasse la campagna rea: Che sovr’ ogn’ altro Dio di fonti, ò fiumi Ella il core per Zeffiro accendea: E per Zeffiro in se godeva ardente Tranquillissimo il cor, lieta la mente. XII Sì che l’ Amante dispregiato, e schivo Più s’accendeva del suo novo foco; Ogn’ hor cresceva in lui l’ardor più vivo, E ‘l core a pena a tante fiamme è loco. A la Nave hor s’appressa, hor semivivo In dietro resta, e del mar fatto è gioco: E più, ch’ un fonte in mar, da doppio lume Versa d’interno duol gemino Fiume; XIII Nè men dolente si vedea la bella Galatea scompigliarsi il ricco crine, E fatta con le mani a se rubella Ama le gote lacerar divine. Crudel a’ voti suoi chiama ogni stella, E n’ode rimbombar l’onde marine. Poi dice. A che beltà più meco stai, Se freddi in te son di beltade i rai? XIV Vane (ah Destino) fur le notti spese Con te ne gli antri fra soavi amplessi, E quelle, che dicei, care contese, E gli scherzi tra noi d’amor sì spessi. Hai rivolte le gioie in aspre offese, E laberinti a me di cure intessi. Non sò, se Diva sono, ò se mortale; S’ in me duolo, od Amor scocchi lo strale. XV Fra queste cupe risonanti valli, Ove Nettuno hà d’ ogni mostro il nido, Siate lunge da me perle, e coralli, E ciò, che diemme del mar’ Indo il lido Indegni amori, detestabil’ falli D’ astro a miei voti gravemente infido. Aci imberbe garzone, Aci incostante; A par de gli anni tuoi legiero Amante. XVI Ah, che pria sovra il mar scender vedrassi Da gli alti giri il fulminante foco; Rapidi i fiumi al corso saran lassi, Sarà ‘l pesce de l’aria ignobil gioco: Lievi sù l’acque andran gli alpestri sassi, C’ habbia in cor giovinil fermezza il loco. E, dove in frale età son gli anni infermi, La fè si stabilisca, amor si fermi. XVII Io mi credea, ch’ Amor fusse una fede, Che stabil, qual colonna, in noi posasse, E che la fè, che saldo amor richiede, La sua fermezza a’ scogli egual serbasse. E che frà lor cangiando habito, e Sede, L’un ne l’altra vivesse, ed albergasse; Ma trovo, ch’ è la fè lieve, qual dardo; E Amor si cangia ad un girar di sguardo. XVIII Sembran gli augelli l’amorose voglie, Ch’erranti vanno dispiegando l’ale, La speme rassomiglia aride foglie Scosse da forza rea d’impeto Australe: E qual’ il pesce in acqua il guizzo scioglie, Tal’ è vario l’Amore; ed è sì frale La Pace, che ne’ cor stassi festosa, Ch’ è l’aura, ed il piacer tutta una cosa. XIX Ben veggio, che Cupido i vanni stende, E ch’ instabil non posa a’ voti altrui. Venere il suo natal dal flutto prende, Che variabil sempre hà i moti sui: E che la fiamma, ond’ ella i cori accende, Sempre incostante si dimostra a nui: Hora vuol’, ho disvol l’amante core; E l’Amore è de’ cori incerto errore. XX Ma, deh, che mento? Ah ch’ Aci mio sol’ amo, Ed hò crude per lui, ma dolci pene. Aci a’ miei prieghi dolcemente chiamo, Ch’ ei sol mi spiri al core aure serene. Aci chiedo, Aci spero, ed Aci bramo, Che di gioia d’Amor m’ empia le vene. Ecco pur Aci mio, stretto t’abbraccio, E con le man’ ne l’amor mio t’allaccio. XXI Ma folle, e dove sono? io stringo il flutto, E d’acqua il seno mio tutto è risperso: E ben sembrami un’ onda egli, ch’n lutto Hà quì nel mare ogni mio ben converso. Ah ch’ egli è per me gelo; e fatto è tutto Un flutto, ch’ ad un tempo erra disperso. Infelice vaneggio; e dentro il mare Son mare a me di turbolenze amare. XXII A questo suon radeva il sacro Legno De la Sicilia le famose sponde; Nel suo corso l’Italia havea per segno; Ed a pena il sentier segna ne l’onde. Quand’ ecco Polifemo, al cui sostegno La terra alza gran rupe: ed infeconde Eran’ al pianto suo l’herbe del monte, Erse le Ciglia, ed arrestò la fronte. XXIII Attonito è il Pastor, ch’ un pino in mare Stringe per verga, e ne la fronte hà un lume, E, se note dal sen suole snodare, Avanzar grave tuono hà per costume, Poiche rivede Galatea, ch’ amare Un tempo osò; ch’ addolorato Nume Ivi è fatta de l’onde; ed Aci il bello Era per Flora a gli amor suoi ribello. XXIV Sceso in riva del mar disse a la Diva, E fatigava in raddolcir gli accenti. Ah bella sì, ma cruda, hora, che priva Sei d’Aci, non sdegnare i miei lamenti. Che sdegnarli nè men l’estrema riva Suol, qual’ hora li rende al suon de’ venti. E da le tue miserie intender dei, Quanti miseri in me son gli amor miei. XXV Ancor’ ardo; ed al par di Mongibello Sono ineshauste del mio cor le faci; Ardor nudro per me sempre rubello, E turbate da te provo le paci. Tutte le greggi in questo lato, e ‘n quello A te riserbo, e i parti lor feraci: E colti havrai da’ rami, e tra le selve Rapidi augelli, e fuggitive belve. XXVI Ma non apprender già da’ doni miei D’esser ancor tu fuggitiva, e fera; Ma tu da loro ben comprender dei, Ch’ anco è raggiunta, e presa ogni alma altera. Sò già, che di bellezza il Sole sei, E i cor’ saetta la tua luce arciera; E la mia fronte ancora un Sol diserra, Ma tu fulmini il Mare, ed io la Terra, XXVII E s’ hai le stelle per tuo specchio in Cielo, Non men’ il Mare è specchio al mio sembiante: Ma s’ a te piace l’indurato gelo, Che nudre ne la cima Etna fumante, Io ardo co’ sospiri a l’aria il velo, E sono al’ Apennino egual Gigante. E s’ i membri hò di velli hirsuti, e foschi, Anco tra noi la Terra hirta è di boschi. XXVIII Sù questa canna, che di larghi cavi In cento lochi mirasi dischiusa, Spiriti infondo, e con le dita gravi V’ animo i carmi, ed a me son la Musa. Te piango al suon de’ versi miei soavi, La Reggia di Parnaso è in me rinchiusa. E se ‘l Fonte vi manca, al patrio monte Solo il mio piante è d’Helicona il fonte, XXIX Ma vè, ch’ella si duol, vè, che discioglie Al mio suon dal suo petto aspri sospiri, E da le luci sue vene hà di doglie Testimonij d’Amore, e di martiri. Stolto, e che veggio? sol per Aci accoglie Il duol, che dal sen versa, e da’ bei giri. Ah che vaneggio, e son nel salso chiostro Non men del mar, che di miserie, un mostro. XXX In più pezzi la fistola divido, Nè più risuoni stridula gli amori. Hor più d’un’ Etna nel ceruleo nido. Immortal desti più voraci ardori: Solo Pistrici, ed Orche accolga il lido, Austro v’ eterni procellosi horrori; Ed habbian contra i legni in lati vari Cento Cariddi, e cento Scille i Mari. XXXI Ah cruda, un, che si duol, riguarda almeno; E, se brami seguire un, che ti fugge, Scorgi, men’ aspra, chi per te vien meno, E perche non ti segue, egli si strugge, Vedi, ch’ al viver mio già lento il freno, E fatto il Mar per me pietoso mugge; E mira, chi con note di dolore Potè pria ‘l Mare intenerir, ch’ un core. XXXII Ma dove son, che parlo? ella è partita, E seco porta ogni mio bene a volo. A che tardate, o Mostri? amica aita Date, co’l divorarmi, a l’aspro duolo. E se la greggia mia da voi ferita Tal’ hor ristoro a voi fu vile, e solo; Sù me pascete ancora i desir vostri, E basti un Polifemo a mille mostri. XXXIII Sù me, sù me cadete antri, e dirupi, E dentro le voragini affamate Orse feroci, e insidiosi Lupi A le mie membra sepoltura date. Disse; e risposer da’ ricetti cupi I flebil’ Echi, e l’Agne addolorate. Languendo ei cadde; e tutta a la percossa L’Isola fù dal terremoto scossa. XXXIV Drizzava intanto la superba Nave Là, dove il Re de’ venti alza la Reggia; E fuor, che Galatea, l’amica trave Lieto il choro seguía, ch’ in mar festeggia. Spira l’istesso Zeffiro soave; E de’ cerulei Numi ivi pompeggia La corte à gara; e ver l’Eolia riva Con lo stuol di Nettuno il Legno arriva. XXXV Flora, e Zeffiro approda, e sù l’arena Conduce seco il rigido Aquilone, Che, bench’ avvinto, hà temeraria lena, E da perdite sue move tenzone. Pur segue; e dove l’altrui forza il mena, Và de gli oltraggi altrui servo, e prigione. E freme sì che d’Eolo in sin lo speco Fatto è di Borea formidabil’ Eco. XXXVI La roza d’Eolo horribile spelonca, Ove alberga de’ Venti la famiglia, Tutta è di pietre mal composta, e tronca, E l’uscio hà di macigni ombrose ciglia. Ond’ hedra fuori, non incisa, o monca, Ma folta serpe, e a’ sassi in un s’appiglia. E a quelli avviticchiata atroci, e spesse Con la ruina sua ruine intesse. XXXVII Entro a le cave pietre, in grave suono, Con dispietato, rigido fragore S’ode mugghiare strepitoso il Tuono, E vi mesce il Baleno ire d’ardore: E di quell’antro habitatori sono Terremoti del Mondo ultimo horrore: E sdegnosa tal’hora entro quel loco La Saetta vi spiega ale di foco. XXXVIII Eolo al romor si desta, e come suole Scote lo scettro con la man pesante; La sua famiglia da l’interna mole Con formidabil volo accorre errante. Ed ei, fremendo, a’ chiari rai del Sole Fuori se n’ viene in rigido sembiante. E già già dir volea. Chi verso mè Indrizza audace a’ regni d’Eolo il piè? XXXIX Quando visto la Dea, c’ ha i fiori in cura, Ed è Nume gentil di Primavera, Dice. E qual mi ti manda alta ventura, Ond’ a te serva la mia alata schiera? Vienne, ò Dea, che di Florida verdura Ornar puoi, qual’ hà rupe il suol più fiera: Nemica sei del tempestoso Verno, E destar puoi tra l’onde Aprile eterno. XXXX A cui Flora. E’ ragion, ch’ a te ne vegna, Ch’ è ‘l tuo Zeffiro à me consorte amato. E per commando di Nettun, che sdegna Sù ‘l caldo imperversar di Borea il fiato; Vuol, che quì di tua man la furia indegna Si ponga al giogo del rubel gelato. E chi fiero nel mar contra noi venne, Quì chiuda prigioniere al sen le penne. XXXXI Eolo co’l cenno ad Aquilone impone La carcere, e ‘l rubel frà lacci è stretto; E l’audacia deposta, e la tenzone, Humil’ hà ‘l volto, e mansueto il petto. Sì che l’aria si tempra, e la stagione Ivi di Primavera hà ‘l suo ricetto; Ch’ ov’ hanno Flora, e Zeffiro il soggiorno, E’ ‘l Ciel tranquillo, ed è ‘l Terreno adorno. XXXXII L’Aure intanto a le gioie ispiegan l’ale, Ed hor volando, ed hor danzando vanno; Altre son ratte più d’ardente strale, Ed altre maestà ne’ moti v’hanno: Chi si rivolge in giro al turbo eguale, Ed à chi gratia i salti agili danno. Chi gira, chi s’incontra, e chi si parte, E al suon de’ venti dilettosa è l’arte. XXXXIII Hora la man s’intreccia, hor s’abbandona, Ed hora il suol con grave piè si scote; Hor treccia, hor rassomigliano corona, Ed hor sembrano squadre, hor forman rote. Ed a rappresentare ogn’ un tenzona Arti d’industri laberinti ignote; E, intrecciando co ‘l piè giri novelli, Far vaghi Euripi, e far Meandri belli. XXXXIV Ove l’Aure ponean l’orme del piede, Ne la grotta nascean candidi Acanti, Ed in quei chiostri pullular si vede La porpora immortal de gli Amaranti. Di bel rubino, ch’ ogni luce eccede, La Rosa vi spandea pregi gemmanti; E ‘l Giglio, che parea sparso di brine, Di vive perle incoronava il crine. XXXXV De la beltà di Flora Eolo godea, Nè ‘l Mondo più con le sue furie sferza. E lieto a’ rai de la Toscana Dea Anch’ ei co’l volto, e con gli applausi scherza. Nè tempestoso più, come solea, Sovra la turba sua move la sferza: E, se ‘l Veglio potea raccorre ardori, Tutti gli spirti suoi foran’ amori. XXXXVI Vaghi di riveder l’Etruria intanto, Lunge da Borea catenato, i passi Volgon gli Amanti; e con più lieto vanto Inver le patrie lor contrade vassi. Poggian sovra la Nave; ella altrettanto Lieve, quanto felice da quei sassi Sù pe’l mar si dilegua; e per sua scorta Seco al viaggio i Dei de l’Arno porta. XXXXVII Sol Galatea da sì bei scherzi lunge Stette per Aci in mar grae, e pensosa. Pur s’ il corpo da lui, non già disgiunge Il cor, nè sdegni annida alma amorosa. Sempre a’ sospiri suoi gemiti aggiunge, E fatta è di martir Diva bramosa. Ed Aci visto al fin vano il suo voto, Più ‘l suo Core non ha per Flora immoto, XXXXVIII Anzi, bench’ egli a lei fusse rubello, Scorto, che pur costante Galatea Del rival Polifemo, odioso, e fello. Le preghiere, e l’amore spregiato havea, E ch’ altri, che lui sol, fra quel drappello Di Numi, vagheggiar non si vedea; Torna a gli antichi affetti; e vuol, ch’ emendi Ardor più vivo i tralasciati incendi. XXXXIX Onde con lei ristretta, a i dolci amplessi Accompagnando i baci, amante dice. Chi sempre hà nel’ amor gli affetti istessi; Hà nel regno di pace alma felice. Che l’union, che gli ordini hà connessi, Opra è tra noi divina; ed infelice. E’ lo stato di lui, ch’ in ira al Cielo Hor teme il caldo, ed hor paventa il gelo. L Fede, in crear, conservan gli Elementi, E cangiar qualitade hanno a disdegno: Serban l’istessa impressione i Venti, Ed han sempre una via ne l’alto regno. Ciò, che Giove ne’ campi suoi lucenti Una sol volta elesse, hà stabil segno, Che mai non si prverte; e quindi è nato A noi ‘l Destino, ed a le cose il Fato. LI Al variar, che fa l’Anno corrente, Ed hor l’Estate cangia, ed hor il Verno; Ogni cosa è nel Mondo egra, e cadente, E s’è fragil la Vita, è ‘l duolo eterno. Anzi la Vita, che di sangue ardente Si varia in tante età, di Morte è scherno. Ed ò stabil per noi sorte gradita, Se stesse in gioventù ferma la vita. LII Un, che può disamar ciò, ch’ amò pria, Quegli esser può nemico anco à se stesso; E chi mal cauto à se contrario sia, Più di follia, che di ragione, è impresso. Quand’ altri ha la ragione in sua balía, Fia di prudente il nome a lui concesso, Se tra spaventi posto, e fra perigli Hà stabile il parer, fermi i consigli. LIII Dunque à giusta ragion folle e tenuta Quell’anima incostante in fra mortali, Che spesso amori à se contraria muta, E serba nel suo sen tempre ineguali. Di saldo core la virtù rifiuta, Ed hor rade la terra, hor’ erge l’ali. Nè sà, che quel, che Giove in Cielo elegge, Di stabil mente è incommutabil legge. LIV Nè vanto sia d’Amor, ch’ egli sol possa, Come suol far l’adusta Rondinella, Del più cocente Sole a la percossa, Sotto Ciel mite amar stanza novella. Che, se ben sai, la Tortora hà rimossa Dal Cor sì varia fè, nè mai rubella Mirasi de l’amante, e a quello unita Pria, che manchi la fè, manca la vita. LV Più volea dir; ma Galatea non vale Più soffrir così teneri concenti. Trafitta il seno d’amoroso strale Sciogliesi in soavissimi contenti. Se non che l’Aure con virtù vitale Gli spirti lor temprarono languenti. E tanto più l’amor fra loro piacque, Quanto da sdegno van l’amor rinacque. LVI Così nel Verno rigido importuno, A l’hora, che tra nubi horribilmente Giuno con volto minaccioso, e bruno Scuote da l’urne sue più d’ un torrente, Se ‘l Sole a noi risorge; e raggio alcuno Rota fra l’ombre de la notte algente, Gioia riprende il seno, e pace il core, L’aria è diletto, e l’universo amore. LVII Sì che del salso mar gli Dei s’unirono; Vollero in queste note il suon diffondere, E con interni applausi a lor s’udirono Animati dal sen gli Echi rispondere. Sempre d’amor sù ‘l Cielo i Dei gioirono, Nè men tra l’ombre Amor si puote ascondere, Ch’ ei vaghe le caligini può rendere, E chiaro a par del Sole intorno splendere. LVIII Non più si vegga in noi lo spirto flebile Per gravi cure acerbamente gemere; Nè punta l’alto sen d’ira indelebile, Contra l’opre d’Amor l’anima fremere. Benche a gli affanni sembri infermo, e debile, Vittorioso Amor può ‘l tutto premere: Hà, nel perder, felice il suo dispendio, Gli è ‘l giogo libertà, vita l’incendio. LIX Poiche così le Stelle non sfavillano, Com’ egli chiaro de’ suoi lampi indorasi, Al suo sembiante l’aure si tranquillano, Zeffiro si serena, e Clori infiorasi. Del Sole i raggi a l’ardor suo scintillano, E de le sue bellezze il dì colorasi. A se Venere è foco, e refrigerio, E con Giove hà comune Amor l’imperio. LX Con tai pregi d’amor sù l’onda labile Correr Flora con Zeffiro rimirissi, Nè sotto estivo Ciel Borea dannabile Scoter l’ale di giel sù loro ammirissi. Ma sol fatto di se Zeffiro stabile, E de la Flora sua contento girissi: Non più sù lor procella ire solliciti, E nave à Giove sacra il Ciel feliciti. Il fine del settimo Canto. Canto Ottavo Argomento Inferma a’ rai del Sole avvampa Flora, Ma da Glauco hà ristoro; indi Tritone Canta l’opre Medicee; ed Arione Con alte lodi il vicin Parto honora. I Ripercoteva ancor da l’alto Cielo Sù ‘l Regno variabil di Giunone Con saette d’incendio il Dio di Delo, E di Teti accendea l’ampia magione. In fiamme Nereo distemprava il gelo: E più del caldo, che del mar, Tritone Sentia l’offese; ed i cerulei campi Avvampavan a’ raggi, ardean’ a’ lampi. II Parea, ch’ il Cielo tutto fusse ardore; E che ne’ spatij de l’eterno regno Da la sua chioma diffondesse fuore Ogni Stella alti folgori di sdegno. Giacea Nettun’ senz’ alga, e senza honore Fatto a se Nume di se stesso indegno; E de l’acque i ristori a quell’arsura Anhelante temea perder Natura. III Vedut e havresti (ò miserabil vista) Fin l’istesse Aure attonite; e focose Non più l’onda solcar di gelo mista, Ma spennacchiate haver l’ale di rose: E a se con vampa dolorosa, e trista In lento mormorío fatte noiose, Senza più spander’ i lor vanni a volo, Più, che d’amore, sospirar di duolo. IV Languir’ a un tempo, rimirossi il choro De’ Numi ondosi, ch’ a la vaga Dea (Fregiando i molli crin’ di gemme, e d’oro) Dilettosa di se mostra facea. Senza speme nel mar, senza ristoro Fervida a’ rai del Sol l’onda paréa. Nè respiro era in mar, ch’ entro quel loco Non somigliasse di Vesuvio il foco. V Così nel sen de l’Africane arene, Ov’ hà la piaggia sterile, infeconda. La sitibonda, languida Siene, Di fervid’ Austro ardente vampa abonda; E pur Etna mandar suole in amene Vampe da l’atra sua foce profonda; Ed Inarime anch’ essa alza a le stelle Di faville, e d’ardor nembi, e procelle. VI In fin Zeffiro cangia i fiati suoi, E par che, fiamme anch’ ei dal volto spiri, Nè più lieve (qual suol) ne’ moti a noi, Placidamente co’ suoi vanni giri. Flora il suo seno havea già grave; e poi. La vampa l’accrescea novi martiri, Sì che da pene è scossa; ed in dolori Le pompe si cangiavano, e gli amori. VII E mentre ancor la terza luna mira, Sotto cui nudre la feconda speme, Ansiosa d’ardori intorno gira, E del suo parto vacillante teme. E benche grave non si mostri d’ ira Sù i Numi il Cielo, pur la Diva geme, S’ange, s’estolle, si contorce; e vari Contra le noie sue tenta i ripari. VIII Ma già le vene han da novella face Bevuti incendi di nocente arsura, Lunge dal petto suo sen’ và la pace, E nel seno divin regna la cura. De le natíve rose in lei si sface Il color vivo, e l’eccellenza pura, Onde per farla sovra ogn’ altra bella Spogliò ‘l Ciel di virtude ogn’ alta stella. IX Inver l’Eolia Zeffiro sen’ riede, E ricalca la via, che già trascorse: Ed a lei, che mancar lassa già vede, Ne’ regni d’Eolo con aita accorse. Molt’ opra, molto intende, e molto chiede, E a l’egra Diva ogni rimedio porse, Ma quando avverse a noi son l’alte rote, Potenza d’arte contra il Ciel non puote. X E che non disse, e che non fé l’Amante? Per la sua Flora havea sonni interrotti, E trahea con sollecito sembiante Penosi giorni, e instabili le notti: E spesso discioglieva a l’Aura errante Dal mesto cor sospiri gravi, e rotti; E s’un Dio senza spirto esser potea, Zeffiro privo d’alma ivi parea. XI Ma lievi sono i suoi ristori, e l’opre, E per l’accesa Dea lo studio è vano; Che su quei vivi avori ecco si scopre Orma d’incendio temerario, e strano, Ch’ in varie parti di rossori copre Il bianco de la Dea corpo sovrano. E, come ardenti stelle in Paradiso, Sparge le macchie sù ‘l celeste viso. XII Ne’ caldi rai de la stagion cocente, Il sangue, onde la vita origin prende, A se ‘l natío calore accresce ardente, E fiamma a fiamma entro le vene accende. Sì ch’ arde infetto dal calor nocente, E sù l’estreme membra il foco stende; Bolle, e spumeggia; e sovra i corpi altrui Lascia i vestigi de gli incendij sui. XIII Nè contra foco sì spietato, e crudo Val da l’Aure sperar freddi ristori; Od offerire il petto infermo, e nudo, Ad agghiacciati, e cristallini humori; Ch’ il foco, fatto a se medesmo scudo, Più da’ contrari suoi riceve ardori; E quel, che stimi medicina al male, E’ ne’ suoi refrigerij opra mortale. XIV Dal mal trafitto mirasi il sembiante Lacera in noi lasciar l’estrema parte; E come aperto sia da stral volante, Vestigi haver di cicatrici sparte; Sì che di fori angusti l’anhelante Morbo minute imagini comparte; E teme l’egro core a la ferita Sperdersi la beltà, sciorsi la vita. XV Ma più scioglieasi in vene di dolore Zeffiro, e queste note a lei spandea. O’ de l’anima mia parte migliore, Poich’ in te sol l’eternità godea, Ah che lasso con te langue il mio core, Nè più gode spirar, come solea. Ma vario in ciò per amor tuo mi sfaccio, Che tu d’ardor languisci, ed io di ghiaccio. XVI O Stelle dispietate al nostro bene, S’ il vostro honor compensasi co’ danni. Io godeva in te Flora aure serene, E perpetui hor per te provo gli affanni. Tutto mi stempro in dolorose vene, Non più batto per duol tarpati i vanni. Nè più Zeffiro son, se non in quanto A me l’Occaso è Region di pianto. XVII Tu Flora un tempo fusti il foco mio, Ed hora a te medesma incendio sei. Ah ti struggi, ed io vivo; ah manchi; ed io Non discioglio per te gli spirti miei? Vita, che fai più meco? io d’esser Dio Odio i vanti, s’han duolo ancor gli Dei. Chi fia, ch’ eternità vantar presumi, S’ anco il Cielo è crudel contro i suoi Numi? XVIII Ma (folle) a che mi lagno? il mio lamento Accresce duolo a l’angosciosa Flora. Non più meco martir, non più tormento Faccia dentr’ il mio seno aspra dimora. Flora par, che nel duol prenda contento, Ch’ io scosso dal martir per lei non mora: Flora dolor non mostra; e tutta lieta, Perch’ io non peni, le sue pene accheta XIX O vana, e cieca imagin, che t’aggiri Solo per ingannar le luci mie. Ella di sensi è manca a’ suoi martiri, E preda è fatta di pene aspre, e rie. Ah che l’ hà tolto il duol fin’ i sospiri, E già socchiude i lumi a’ rai del die. Stolto che fai? ben Vento sei, che solo Suono è senz’ alma, e sperde i voti a volo. XX Eolo, a che Borea incatenar potesti, E lasciasti errar Zeffiro dolente? Deh Borea vienne, e refrigerio appresti Il tuo ritorno a incendio sì cocente. Ecco fremer già l’odo; ecco che presti I rimedij ministra a Flora ardente; Forsennato ah che senti? è ‘l mar, che freme; E de le tue follíe sospira, e geme. XXI Misero, da’ nemici attendo aita; Nè scorgo, ch’ al mio male il duol non giova. Se non hai, Giove, la pietà sbandita, Sovra me solo ogni tuo sdegno piova. Nè fia l’offender Diva opra gradita, Ma l’abbatter’ un Dio più degna prova. Io, io sol pera; e s’ un Amore è Flora, Pria, che manchi l’amor, Zeffiro mora. XXII A queste note del fedele Amante Flora sol con le lagrime risponde. Ed eloquente in lei fatto il sembiante Sparge interne d’amor voci faconde. Scendeva il pianto su le gote errante, Nè perle, che del Gange habbian le sponde, Son sì candide, e pure; e le focose Gote parean tra lor campo di rose. XXIII Punta da mal sì reo Flora languía, Ma non men bello il suo languir parea; E in mezo ad aopra sì nocente, e ria Era non meno dilettosa Dea. E s’alcun segno in lei pur si scopría, Segno di fiori somigliar potea; Sì ch’ ella mostra ne’ suoi danni ancora, Che, non meno del nome, opre ha di Flora. XXIV Per molti Soli contra lei fù dura La grave noia de l’ardor, ch’ avvampa, E del parto non men l’interna cura L’acrescea del calor la cruda vampa. Quando Glauco, ch’ in acqua ogni natura De l’herbe intende, e dentro il senno accampa, Quante il Mar ne le spiagge habbia virtudi, Tutti in se volve del saver gli studi. XXV E verso il seno del Carpathio ondoso Drizzo veloce, quasi vento, o strale, E parea sù le vie del mar spumoso Mover più, che le squame, a volo l’ale. Cedon le rupi, ed ogni scoglio algoso Del ratto Nume al saettar fatale. E i flutti ubidienti al suo desio Spianavan’ i sentieri al salso Dio. XXVI Herba v’ hà ‘l lido, che di Stella mostra Imago salutevole, e gradita; E accenna altrui ne la cerulea chiostra, Ch’ è Stella di virtude à l’altrui vita. Prendela il vecchio Glauco, e ver la nostra Italia il corso accelerando, aita (Con dilettosa, e fortunata scorta) A l’anhelar del caldo petto apporta. XXVII Sù ‘l cor de l’egra Flora applica l’herba, Ed aggiunge al rimedio occulte note; Sì che la doglia homai già manca acerba, E dal suo male la virtù si scote. Non più calde nel sen le fiamme serba, Prender da l’Aure il refrigerio puote; E dolcemente à Stella così lieta, Gli affanni tempra, ed i sospiri accheta. XXVIII Sì mentre nave fortemente scossa In mar, che d’ire torbido spumeggia, Spinta hor ne l’Orco è da l’Eolia possa, Ed hor s’inalza à la Stellante Reggia, Hora teme fra scogli aspra percossa, Ed hor tra Sirti di se dubbia ondeggia; Se di Castore à lei la Stella appare, Cedon’ i Venti, e senza flutti è il Mare. XXIX Dal seno a un tempo, e dal divino aspetto Il nocente calor partir si vede, Ma ‘l segno, ch’ ivi il male habbia ricetto D’ offese posto, rigido non cede. Onde il Veglio nel cor novello affetto Per Flora concepisce; e move il piede, Ove di Panacea potenti foglie Sparse di brine gran campagna accoglie. XXX Le brine ancor de l’Amaranto eterno, E quelle in un del Dittamo immortale, E d’ogni Pianta, che sprezzar può ‘l Verno, Accoglie in bianco vaso humor vitale. E poscia a’ primi rai del Dì superno Mesce in un le rugiade; e con fatale Virtù le stringe in cristallino vaso Contra l’ire de’ Secoli, e del Caso. XXXI Poscia aspetta, che Cinthia iscemi il corno De’ suoi maggiori, luminosi argenti, E di quel corpo di bellezze adorno Unge gli avori oltr’ ogni fè lucenti; E per quanto una Luna a noi ritorno Fà co’l suo carro, contro quei nocenti Livori sparge l’immortali brine, Di vita, e di salute opre divine. XXXII Sparve ogni macchia al fin dal leso volto, Ove con gratie a meraviglia belle Tutto lo splendor loro hanno raccolto Le serene del Ciel leggiadre stelle. E ‘l Sol parea, che da le nubi sciolto Fuori se n’esce, e con le su facelle Dal fosco di Giunone aéreo velo L’ombre scacciando, pinge d’oro il Cielo. XXXIII Manca in tanto sù ‘l Ciel la vampa accesa, Che facea ‘l Mondo sfavillar di lampi, E fin l’Autunno con nocente offesa Terminato il suo corso havea ne’ campi. Anzi nel suo principio il Verno stesa Havea la possa, e con sicuri stampi Dal saettar de l’Apollineo Nume. Spargea ne’ prati l’agghiacciate brume. XXXIV Onde al fin da l’Eolia i vaghi Amanti (Come vuol Giove) ritornando a’ loro Primier diletti, radon gli spumanti Regni, e de’ salsi Numi han seco il Choro. Di Seren novo tingono i sembianti Il Sol, l’Aria, e la Terra; e di tesoro Più fin di vaghe pretiose vene Il Mare indora le lucenti arene. XXXV E dopo giorni così mesti, alfine Riprendendo la gioia il suo colore, Mostran’ i Toschi Dei forme divine Miracoli di Venere, e d’Amore: Scherzan del mare i Numi; e peregrine Danze formando con industre errore Intrecciavan fra lor Meandri alteri Di giochi, di vaghezze, e di piaceri. XXXVI Quando s’udì Triton, da conca intorta Diffonder suono dolcemente altero. Il lido dentro il Mare il suon riporta, Ed Echo è tutto l’Elemento intero. E dice. Al vostro Varco illustre scorta Di perigli hà premesso il sommo impero; Che non senz’ ombre suol venire a noi Il chiaro Illustrator de’ regni Eoi. XXXVII A Zeffiro già diede il campo Acheo L’alto principio de l’antico germe: Chi di lor fra gli allori erse trofeo, E chi se n’ visse in fra gli olivi inerme. Questi già superò l’horrido Egeo E quegli d’Asia rese l’armi inferme. E degni di domar vie più d’un Mondo Di più Mondi ne l’Arme ersero il pondo. XXXVIII Contra l’Insubre Conduttier Visconte Giovanni armò la generosa mano; Forte sprezzò de l’inimico l’onte, E de gli assalti fè l’orgoglio vano. Cosmo rivolto ad opre illustri, e conte Alzò ricchi edifici, e di sovrano Padre de la sua Patria il nome ottenne, E la Pace hà per lui sonore penne. XXXIX Tra le congiure indomito fù Piero, E l’offese schernì de l’empia Sorte, E domator del Tempo più severo Non fù preda d’Oblío, se fù di Morte. Ma Giuliano da stuol grave, e fiero Di Cittadini giacque estinto; e forte Anche nel suo cader mostrò, che degno Era con l’opre sue giunger’ al Regno. XXXX Né te, Giulio, tralascio, a cui già diede Roma il sublime honor di tre corone, E in sostener la vacillante Sede Soffristi d’empia sorte aspra tenzone. Vincesti d’Arno la Cittade; e fede Ad Alessandro (d’alto honor Campione) Ella diè per tua prova, e per sua pace, Libera a l’hor, che più sogetta giace. XXXXI S’altri dir l’opre tue, Lorenzo, brami, Onde la fama per te chiara suona, Spanda l’alloro innumerabil, rami, Sia più d’un Pindo, e più d’un Elicona. Tu con la tua virtù perpetua trami A te la vita; e sol di te ragiona Febo, qual’ hor di pregi alti favella, E rende ogn’ alma a’ saggi detti ancella. XXXXII Ma di Giovanni, ch’ al gran soglio assunto Trattò de’ regni de la Terra il freno, Quai carmi adorno? poich’ in lui congiunto Fù, quanto il Ciel mai sparse, o diè ‘l Terreno. In dir sue lodi stancò i Cigni, e punto L’Arte non giunge a’ suoi gran merti, e meno Può la Virtudef con industri modi Adombrare il calor, tesser le lodi. XXXXIII Nè tra Medici Eroi copra l’Oblío Con fosco horror di tenebroso velo Ne la Regia del Mondo il quarto Pio, Che serrava, ed apría gli usci del Cielo. Nè di lui, che d’Undecimo sortío Il titol fra Leoni, io taccio il zelo: O di loro, ch’ ornar d’ostro la Chioma, Meraviglie del Tebro, honor di Roma. XXXXIV Alessandro, che Duca esser potéo De le genti de l’Arno, in fede stretto Fù co’l sangue de gli Austrij; e di fin reo Pur non vale schivar barbaro effetto. De’ suoi gran merti Hippolito già fêo Minore ogni gran premio; e pur l’affetto Non ben temprando de l’ardito core, Terminò di sua vita infauste l’hore. XXXXV Ma Giovanni sù l’Adda, e in Umbria prove Fà di se degne; ed al valore, a l’arte Rassembra in guise inusitate, e nuove De la guerriera Italia unico Marte. Nè fia, che di tacer Cosmo mi giove, S’ei di Grande hà ‘l suo nome, e per lui sparte Furon’ à terra d’anima guerriere Infide torme, e rubellanti schiere, XXXXVI Francesco, e Ferdinando anco fur vanto Di scettro sì sublime, e così degno. E non men chiaro un’ altro Cosmo il manto Sostenne anch’ egli del Toscano Regno. E sotto lor, più del famoso Xanto, L’Arno ad illustri glorie è fatto segno; C’han ne la Terra, e sovra il Mare eretti Di Cittadi, e di Porti opre, e ricetti. XXXXVII Ne tra sì chiari Eroi tacer degg’ io Il secondo Lorenzo, a cui d’Urbino Diede il valor magnanimo, e natío Posseder con man bellica il domino. Ond’ hor mercè de l’amoroso Dio L’Arno hà giunto al Metauro il suo destino: E, se non le Cittadi, il germe gode, De la Quercia di Giove ultima lode. XXXXVIII Disse; e del Veglio Araldo a’ gravi accenti Risponder gl’ antri concavi s’udiro: E ‘n conpagnia gli Scogli, a gara i Venti Il chiaro suon de’ Toschi honor ridiro. Sin l’arene in crear gemme lucenti, E in produr germi floridi gioiro. E al Sacro Legno intorno baldanzosi Sparser le glorie d’Arno i Numi ondosi. XXXXIX Scorrean’ intanto gli Amatori lieti L’ultima parte del Trinacrio mare, E vedean da la Destra in riva a Teti Star Città di lor fama altere, e chiare; E varij in un da gli antri lor secreti Fiumi ne l’ampio mar l’urna versare; E de’ pini volanti in molti lati. Correr le vie de’ flutti i remi alati. L Poi la Coppia da manca Isole mira, Ch’ in mezo a l’onde ripercosse stanno, Ed hora soffron di Vulturno l’ira, E sprezzan’ hor de le procelle il danno. Ed altra v’ hà, ch’ inhospite s’aggira, E crudi serpi i fieri nidi v’hanno, Ed altra sol di pomici, e di sassi Cavernosa nel mar distende i passi. LI Così più giorni drizzano felici Ver la paterna Reggia il fatal pino. De’ flutti l’ire disprezzando ultrici Rinchiudon la fortuna entro il lor lino; Ed al canto, ed al suon rive, e pendici Risonavan d’intorno; e del destino, Che seco havea la fortunata prora, Lieto era il Dio, ch’ il Ciel di raggi indora. LII Ma perch’ il Ventre de la Dea si scorge Ogn’ hor più grave sollevare il pondo, E più viva la speme a Toschi sorge Del parto felicissimo, e giocondo, Non sì tumido il lino il grembo porge A’ ratti-venti, ma nel mar profondo Lenta se n’ và la gloriosa Nave, E del parto invaghita anch’ essa pave. LIII In varie parti trapassando l’hore, E per non scoter de la Diva il seno, Van traendo gratissime dimore, E godon’ aura di gentil sereno. Quando alfin’ entran, dove il salso humore Principia del vaghissimo Tirreno; E tra fiorite, dilettose sponde Fini zaffiri han de l’Etruria l’onde. LIV Ed ecco a punto, donde a fronte mesce I suoi flutti nel mare il Terbo altero, E maggior di se fatto a l’onde accresce Un novello di flutti augusto impero, Da florid’ antro dilettevol’ esce Arion sù Delfino; e prigioniero Arrestando ne l’aria il volo a’ venti, Tai disciolse dal petto aure d’accenti. LV Vienne Zeffiro amato, e Flora bella, E non si tolga sì gran speme a noi; Che se l’una è d’amor placida stella, L’altro è Sol, che n’avviva a’ raggi suoi. Vieni, deh vieni, e non tardar, ch’ ancella Hà ‘l Cielo ogni virtude a’ pregi tuoi: Natura, e Amor suoi vanti in te raguna, E tu ne puoi de’ Mari esser Fortuna. LVI Ond’ hor di voi, con bellicosi legni Altri i Mari governa, e a l’onde impera; Altri fù Duce ne’ Germani Regni Di generosa, vincitrice schiera Questi il freno trattò di spirti degni, Che per insegna loro han Lupa altera; E quegli, a cui l’Iberia in cura è data, Porta d’Ostro Latin la chioma ornata. LVII Già di fede con voi giunto vegg’ io Chi frena l’Alpe d’alte nevi onusta, E de’ Farnesi il Giglio lor natío, Avvolto al vostro, far corona Augusta. E fin dove Germania hà ghiaccio rio, Di Medica beltà forma venusta Accenderà grand’ alma; e per amore Il Reno havrà da l’Arno onde d’ardore. LVIII Così Cinthia dal Ciel con sua virtude Nel vasto sen de’ campi si diffonde, E con le forze, che da’ rai dischiude, L’acqua, e la terra fà di se feconde. O’l Sol, con raggio, ch’ in se vita chiude, Illustrandno di se le piaggie, e l’onde, Dà spirto a l’alma, e dà vigore al frutto, E de’ gran germi suoi fertile è ‘l tutto. LIX Già de’ Medici i Mondi in ogni lato Di loro il Mondo fecondare i veggio. In loro han posto ogni più nobil fato Arno, Brescia, Verona, e ‘l Latin seggio. Prole a l’Insubria, ed a la senna han dato, E son gloria del Tago: e già preveggio, Che più non vanterà Monarchi il Mondo, Che di loro non sian germe fecondo. LX Onde, chi fia, che di voi degno canti Zeffiro, e Flora gli honorati pregi, Sovra ogni lode gloriosi Amanti, Alta speme d’Eroi, pompe di Regi? Per voi la Pace hà ne l’Etruria i vanti, La Giustitia vi regna; e in atti egregi Amor prodiga d’or la man distende, Ed il Valor con la Virtù vi splende. LXI Coppia amata, e felice, ove ripone Le sue grandezze il secolo languente, E rinova le antiche sue corone Italia tra le guerre homai giacente, Da te forte verrà più d’ un Campione, Che domo renda il Barbaro Oriente; E ‘l Sol, che spande i raggi suoi lucenti, A lo splendor de l’armi tue paventi. LXII Degno il tuo germe fia, ch’ a noi ritorni Il già smarrito secolo de l’oro; E trà soavi, e fortunati giorni Ad Honore, e Virtù rechi ristoro. Più, che de’ raggi suoi, Febo s’adorni Del tuo superbo, splendido tesoro: E quest’ onde che mute, e sorde sono, Per te formin di gloria altero suono. LXIII Fian de’ tuoi Figli i vanti, hora d’Alcide Schernir’ i segni, e l’Ocean varcare; Ed hor contra le schiere al Cielo infide Tinger di sangue miscredente il mare. Ch’ ogni periglio la Virtù deride, E l’Animosità forza hà da gare: Nè teme oltraggi di Fortuna il core, Ove arme sia ‘l Valor, campo l’Honore LXIV Vien dunque, ò Coppia di felici Dei, A far l’Arno per te di glorie pieno. E dov’ altri a la pace, altri a’ trofei Suol tra noi partorir fecondo seno, Solo a la Terra germogliar tu dei, Chi regger deve de la Terra il freno. Dice. E dal mano lato ardente face De’ veri annuntij è testimon loquace. Il fine del ottavo Canto. Canto Nono Argomento Venere, e Amore i Toschi Numi accoglie; Indi la Quercia frutti d’or produce: Poi Flora il Parto suo pone a la luce; Ed ogni Dio la gioia in carmi scioglie. I La Fama, ch’ apre infaticabil’ ale, Ne’ vanni hà d’occhi innumerabil lume; Và dal Polo di Borea al clima Australe, E da’ flutti d’ Atlante a l’inde spume. Veloce più di Mauritano strale Ne’ campi del seren batte le piume; E risonando altiera in ogni lato Eterno infonde a la sua tromba il fiato. II Questa si finse da le Cetre Argive Esser del vasto Encelado sorella, E che voci snodando ogn’ hor più vive Scioglia con cento lingue la favella: Empie de’ mari le remote rive, E del suo suono è termine ogni Stella. Ver l’Arno move; e de la fertil Dea Il ritorno in suon lieto a lui spandea. III E dice, come in Region’ diverse Habbia Flora varcato incontri vari; Ed hor provato amiche, ed hor’ avverse Fortune ne la terra, e dentro i mari: Ma le forze al Destin frante, e disperse Tra perigli sì dubbij, e sì contrari, Hor de l’Etruria la famosa Reggia Con trionfante piè fausta riveggia. IV Desti a gli accenti Venere, ed Amore Sovra conca di perle pretiose Vanno radendo del ceruleo humore Con fortunato col le vie spumose. La Dea, ch’ accende ogni più freddo core, Seco d’Amori hà schiere dilettose, E, rai di gioie scintillando intorno, Dà luce al mare, e dà splendore al giorno. V Per adornar la conca, e i sacri ammanti, Ond’ ella copra i membri suoi divini, L’Ermo votò da l’onde sue gemmanti I Zaffiri, i Chrisoliti, i Rubini; Diede il Pattolo i lucidi diamanti, E l’Alba le versò da gli aurei crini, Quanta già mai sù l’Eritree maremme Piove dal puro Ciel copia di gemme. VI Ondeggiavan’ al tergo, al crine i veli; E parean l’Aure dentro loro a gara Volgersi innamorate; e i loro geli Stemprar’ à sì bel Sol, ch’ arder’ impara. L’occhio a tal vista non invidia i Cieli, Ch’ essi non hanno Deità sì rara, Se non quanto frà gare di vagezza Vincer Flora la può con la bellezza. VII Sì ch’ a l’incontro de la Tosca Diva, Ch’ in compagnia di Zeffiro s’appressa, Venere lascia l’habitata riva, L’alma hà per Flora d’alte gioie impressa, E se ben nel rio Verno ella se n’ giva, Ov’ hà Cipro la Reggia, hor di promessa Quivi lieta attendendo il fin bramato, Vuol testimonio a’ Toschi esser del Fato. VIII Ama vanto sì bello, e vuol’ amica Per Zeffiro, e per Flora errar fra Toschi, Benche sia la stagione a noi nemica, E ‘l Verno i giorni d’altre nubi infoschi. Quasi a l’Etruria il volto suo predíca Ne l’ombre anco de l’Anno i dì men foschi. E ch’ ove Amore, e Venere soggiorna, Ivi di gioie è Primavera adorna. IX D’Amori il Choro a quella conca intorno Giva danzando per le placide onde. A suono d’Aure chi facea ritorno, E chi scorrea sù quelle vie profonde. Chi groppo ordía d’intrecciamenti adorno, Chi di salti mescea forme gioconde. Chi bei Meandri in giro ordir si vede, E chi ad arte scotea l’onde co’l piede. X Quà si scorgea con iterate prove Hor fugare, hor fuggir l’ondose schiere; Là ripartite in forme altere, e nuove Rappresentar’ imagini guerriere, Altri à gara sù lei tempeste piove Di floride odorate Primavere; Ed altri al ventilar de’ vanni loro, Forman lieta armonia di suon canoro. XI Quando Flora a la Dea del terzo Cielo Inanzi giunta, questo suon disciolse. Errammo è vero sù per ‘l salso gelo, E destin crudo in vario error n’accolse. De la ria Sorte paventammo il telo, E in perigli d’horrore il Ciel n’involse, Fin che poi variando ordine, e stato, In Corcíra n’addusse amico Fato XII Indi in Caonía dilungammo i passi Tra le selve di Giove al voto intenti, E quivi dubbia ancor la Sorte stassi, E par, che gravi in noi spiri i tormenti. Ma poi pentita a noi gioconda fassi, E la selva hà per noi dolci i contenti. Che come, ò Citherea, predir sapesti, Svelò Giove gli oracoli Celesti. XIII Ben le Quercie di lui ne fur cortesi, E liete a nostro honor voci spiegaro, Ed a nostro favore anco palesi Ivi le tue Colombe si mostraro. Sì ch’ il gran Giove, sol per farne illesi, Questa Nave ne diè, che la formaro Molti, che miri quì, Numi presenti, De le sacre di lui Quercie eloquenti. XIV Se ben, tra via, da tempestoso vento Soffrimmo scontri inusitati, e fieri, Poi, sotto aspro d’ardor grave portento, Con grave mal varcati hò mesi intieri. Sì che l’anima prova anco tormento, Ed hò del Parto mio dubbij i pensieri: Benche l’estrema Luna homai risplenda, Ch’ io de la Prole mia gli eventi attenda. XV Mà qual di fine sì bramato, e degno Deggio liete già mai sperar le prove? Poiche non puote così a pien l’ingegno L’Arcano penetrar del sommo Giove. Anzi fia, ch’ à quel suon de l’alto Regno Confusi l’alma i sentimenti prove. Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole, Che stenderà l’imperio à par del Sole XVI Ciò non distinse a pien, quand’ ecco fuori L’Albero de la Nave i rami stende, E d’oro lucidissimi tesori Hà ‘l frutto, che da lor festivo pende: Spirto acquista la Quercia, e d’alti honori Con grave germe d’or degna si rende. Fertil’ è il tronco, e ad opra sì potente Fin’ ogni Nume meraviglia sente. XVII Onde Venere a l’hor , ch’ a Giove è figlia, Penetrando del Padre i gran secreti, Disciolse in questo suon la meraviglia, E al suon, da la sua Reggia applause Theti. A lo stupor non curvinsi le ciglia, Ch’ augurij il Ciel ne manifesta lieti. L’Arbor, che tronco steril’ si scorgea, Nuntio è co’ parti suoi fausto a la Dea. XVIII Il mio gran Padre, che nel sen raccolta Volle, che fusse la gran vostra Prole, Ecco egli annuntia, che dal sen disciolta Tosto uscir debba a rimirar’ il Sole. In gioia la speranza homai sia volta, Ch’ errar non puote il Re de l’alta molte, Solo à prò de’ viventi arde di zelo, E sono i cenni suoi leggi del Cielo. XIX Ond’ Arbore sì degna homai si toglia Dal vasto sen de la sacrata trave, E dentro a Tempio maestoso accoglia Contra la ferrea Età Fato soave. Il decreto del Ciel ne la mia voglia Comprendete, ò bei Numi; e questa Nave Più degna Argo vi sia, ch’ a Tosche sedi Di salute, e d’amor rechi mercedi. XX Contro lei d’ira il Ciel mai non scintilli, Nè ‘l Mergo i liti con le strida infesti: Od in fredda stagion Giuno distilli Da l’urna sua le pioggie, ò ‘l Mar tempesti: Ma tra sereni placidi, e tranquilli Sien’ a lei d’Alcioni i nidi intesti; E del Parto a l’avviso habbian gioconde In sen’ al Verno Primavera l’onde. XXI La danza a’ i lieti accenti replicaro Misti con gli Amoretti i Numi ondosi; E di lascivo error scherzi formaro Ne’ campi del Tirreno dilettosi. Così danza tal’ hora il Dio di Claro Tra i chori de le stelle luminosi, E tra quelle del Cielo erranti forme Lascia di lampi variabil’ orme. XXII Amorosi gli amplessi, ed iterati Fan con le Ninfe i Numi del Tirreno; Poiche gli Amor tra lor danzan meschiati, E sciolto in lor di libertade è ‘l freno. Tanti l’Hebro non hà flutti gelati, Quante scintille, e fiamme hà ciascun seno; E pur’ al suon de l’Aure, al mormorío De’ lor vaghi sospir danza ogni Dio. XXIII A terra il sacro Legno approda intanto, Ove l’Arno hà la foce; e l’alta d’oro Quercia i Numi honorando, in vario canto, Riempion l’aer muto, e ‘l mar sonoro. Zeffiro, e Flora a lei, che porta il vanto De la Madre d’Amore, e al salso choro Reser dovute gratie; e pregar lieti Amica Giuno, e favorevol Theti. XXIV Ed essi al Parto replicar felici Gli augurij de la vita, e de la pace. Poi ver l’alte di Cipro ampie pendici Se n’ và la Dea de l’amorosa face. E mentre seco con augurij amici Corre de’ salsi Dei l’ordin seguace, Con lor mille Colombe in aria vanno, E vaga a Citherea corona fanno. XXV A questi applausi fuor de l’acque sorse L’Arno di canne i crini incoronato, E da le rupi sue rapido corse Il selvoso Apennin co’l piè gelato. Quì Silvano il suo piè frondoso torse Da l’antro suo di tenebre gravato; La Napea con la Driade festante, E Fauno volse le selvaggie piante. XXVI Prendono l’Arno, e l’Apennino il Legno, E poderosi Dei sù per le rive Del Tosco Fiume il traggono; e sostegno A la mole anco son l’humide Dive, Quei Dei, c’hanno da’ fonti il natal degno, Ed albergano i Laghi, anch’ essi han prive Di se le sponde loro, e quivi addutti Fan la Nave immortal correre i flutti. XXVII Ed a la mole, ch’ è di Quercie intesta, Dicon’ a gara gloriosi carmi. Lunge, lunge da te suon di tempesta, Lunge, lunge da te rimbombo d’armi. Sovra te scenda in van saetta infesta, Nè l’ire contra te Giuno disarmi; E sovra te con infiammata mano Non fulmini il suo stral l’arso Vulcano. XXVIII Tu degna sei, che non di Mirto, o Lauro Incoronata sù per l’acqua vada, Ma ben di gemma pretiosa, e d’auro Quì del Fiume Tirren varchi la strada; E sovra te non stilli il suo tesauro La rigida Alba in gelida rugiada; Ma ‘l Sol tempesti da’ suoi ricchi crini Crisoliti, Topatij, Ambre, e Rubini. XXIX Tu porti Flora, che di fior Reina Incorona le chiome a Primavera; E vivo Sole di beltà divina Fà la Toscana sua lucente sfera. Per lei s’adorna d’imperlata brina L’Amaranto immortal, la Rosa altera; Il flessuoso, e cristallino Acanto, E ‘l Giglio, che d’argento hà ricco manto. XXX In te Zeffiro, scherza, Alma gentile, Lieto spirto del fertile terreno, Vago diletto del novello Aprile, Scorta fedel del placido sereno. Che rinovella à noi l’età senile Del freddo Verno, e sotto Cielo ameno Ambrosia piove, e nettare distilla, Le menti rasserena, e i cor tranquilla. XXXI E voi Numi felici, in sì bel Legno Non più tardate à renderne il dì vago, E co’l Regio del sen bramato pegno Fate di vostre glorie ogni cor pago: Nasca il Parto da voi, sol di voi degno, Di Zeffiro, e di Flora altera imago. Dal Padre i suoi costumi il Germe appigli, Ed i Padri germoglino ne’ Figli. XXXII E, come l’onda sopraviene a l’onda, Così nasca di voi Serie novella, Che ne’ Figli Reali ogni hor feconda Al numero pareggi ogn’ alta Stella. E del ferro l’età per lor gioconda Non invidij de l’or l’età più bella. Ma presagisca ne’ germogli loro Il bel secolo d’or la Quercia d’oro. XXXIII Così mai sempre pretiosi, e fini Distenda il sacro Tronco i rami suoi, E di presagij nobili, e divini Adduca nova meraviglia a noi. Sian di Flora, e di Zeffiro i destini Concepir Regi, e partorir’ Eroi. Dicean; e giunti son, dove di Flora La Reggia famosissima s’honora. XXXIV E benche a la Città Zeffiro imperi, Pur da la Dea de’ fiori ella hà ‘l suo nome. Erge a le Stelle gli edifici alteri, E coronate d’or porta le chiome. Non più nudre nel seno odij guerrieri, Che d’ogni cor rubel le forze hà dome. Lieve a se stima il vincer’ i perigli, E per corona hà i suoi nativi gigli. XXXV Scendon’ intanto da la Nave i Dei, E come disse il Nume de gli Amanti, Il Tronco memorabile da lei, Per piantarlo nel suol, prendon festanti. E vi disegnan Tempio, ove i trofei Stian de la Quercia d’or; nè fluttuanti I moti de la Terra unqua paventi, O Giove contra lei fulmini avventi. XXXVI Altri de’ Numi gli alberi recide, Per far le travi al Tempio; altri ne’ monti Con agevole man sassi divide, E gli ordigni con l’opre altri hanno pronti. V’ è chi da l’alto in giù rotar si vide Superbi marmi; e da le dotte fronti Altri sudor stillaro, in formar vari Frontispitij Colonne, Archi, ed Altari. XXXVII Questi l’arene ravvolgeva, e quegli Stemprati sassi, ed acque ivi mescea; Ed i marmi lisciar, quai tersi spegli, L’Industria, e la Fatica si vedea. Ma chi lavori così eccelsi, e begli Formar sapesse con sovrana Idea, Era sol l’Arte, e la Virtù, che sole Puon fabricar del Cielo anco la mole. XXXVIII V’ è chi da saldi fondamenti altrove Pilastri ferma; e di cornice intorno Fà ricorrer bell’opra; e a le sue prove Rende il gran Tempio di bei fregi adorno. Ivi fia, che d’ogni ordine si trove Compartitura altera; e a i rai del giorno Tempio non sorse mai sì degno in terra, Come hor questo la mole ampia disserra. XXXIX Può vincer de’ gran Dei l’opra sublime L’edificio, ch’ al sacro Ammone eresse Africa polverosa, e l’alte cime Di quel, che caro a Cinthia Efeso havesse. Del duol del Parto sofferenze prime Flora intanto sostiene; e ogni hor’ oppresse In lei le forze il pondo arcano rende, Se non, che dal Consorte alito prende. XXXX Flora in Zeffiro vive, e per lui spira, E da’ lumi di lui solo hà la pace. Poscia intorno a la Quercia ella s’aggira, E co’ bracci le fà nodo tenace. E dice, Ò Giove, i miei dolor rimira, Che solo da te spero aura vivace. Dice. E de l’aurea Quercia al piè si pone, E fausta il Parto a’ rai del Sole espone. XXXXI Ond’ ella volta à la gran Quercia disse; Hor sì ch’ a pieno hò ‘l dubbio suono inteso, Ch’ in Dodona il gran Giove à me predisse, Che fia da Quercia il Parto mio disceso. Quercia cara, e beata; ove son fisse De’ Toschi le speranze, ed è compreso, Quanto Zeffiro mai da l’alte rote Ad honore de l’Arno attender puote. XXXXII Accolsero le Ninfe il Parto amato, E in bagno d’odoriferi liquori Purgar le membra al fanciullin bramato, E nembi vi stillar d’Arabi odori. Onde Zeffiro dice. Hoggi è svelato Ciò, che Giove accennò: fertili honori La Quercia n’ hà predetto, e i frutti suoi Fur di felice Parto annuntij à noi. XXXXIII O da me tanto desiata Prole, Che disgravando de la Madre il pondo, Quasi raggio primier de l’alto Sole, Per me giungesti à serenare il Mondo. A te da’ Campi de l’eterna Mole Il Ciel piova di gratie ogn’ hor fecondo: Io spirto sia, tu refrigerio al Core, E s’io Zeffiro son, tu sii l’Amore. XXXXIV Disse. Ed à Giove consecrò l’Infante, E ‘l Tempio fù la Cuna a sì gran Nume. Indi a baciar del Fanciullin le piante Corse ogni vaga Ninfa, ed ogni Fiume. L’Arno a quei piè versò l’urna gemmante, E scosser l’Aure i fior da le lor piume. E co’ Fauni Silvan da Quercia incise Cuna, che di lavori hà belle guise. XXXXV Con dotte mani la Virtude, e l’Arte Ne l’opra consumando i proprij ingegni, Ivi scolpiron da la manca parte Di turrite Città lavori degni, Che quà ne’ campi lor veggonsi sparte, E là monti sublimi han per sostegni. E sonvi ancor quelle Città, che chiare Stendono i lor confini in seno al mare. XXXXVI V’ è Fiorenza, che nobile, e ferace, E d’Edifici alteramente vaga, Volta a l’opre de l’armi, e de la pace, Con le sue prove l’Universo appaga. Ogni Cigno per lei fatto loquace Voce d’eterno honor scioglie presaga. Come d’eterno merto anco in lei siede Valor, Prudenza, Maestade, e Fede. XXXXVII V’ è Siena, che di Palla a l’opre è volta E teatro di scienze esser si mira, E la Virtude in lei mirasi scolta, Che con aure d’honor vita le spira. Nè men’ è Pisa in altra parte accolta, Ch’ ancor essa di Pallade s’ammira Esser famosa Reggia, e de l’amene Parti d’Italia ella è novella Athene. XXXXVIII E v’eran’ altre, che la Terra accoglie Cittadi altere a meraviglie illustri, Che con la fama lor vittrici spoglie Han riportato da’ voraci lustri. E chi di forte il chiaro suon discioglie, E chi si vanta d’artificij industri. E quante son Cittadi, ivi son tante Reggie, ch’ offron tributi al Regio Infante. XXXXIX Ma poi ne’ mari si vedean distinte Gran moli rassembrar ne’ seni torti, Per non esser da’ fiati Australi vinte, O abbattute dal mar, rinchiusi Porti, Che di valor, come di muri, cinte Sprezzan, chi l’arme ivi nemiche porti, Ed habbia à rio furor vano ardir misto, E pensi far di sì gran moli acquisto. L Ma ben di te non taceran, Livorno, I miei deboli carmi, e ‘l frale ingegno, Poiche tu sol d’ogni eccellenza adorno Puoi meritar ne’ vasti mari il regno. Hà ‘l Valore, ed hà Marte in te soggiorno, A mille navi sei famoso segno: Ed a te drizza de’ volanti pini L’Oriente, e l’Occaso i curvi lini. LI Ivi in aspetti di terror graditi Vedeansi co’ lor liquidi volumi Lieti apparir sovra i Toscani liti Trecciati d’alghe i tributarij Fiumi. Ed a sì degna, e nobil pompa uniti Di bel piacere serenando i lumi Versavan perle; e d’oro havean corone L’Arbia, l’Era, la Chiana, Arno, ed Ombrone. LII Ma l’altra parte de la cuna hà scolti Di Zeffiro, e di Flora i primi amori, A l’hor, che dal Metauro ella quì volti I piè drizza, ed accresce i Toschi honori; E ne l’Etruria porta seco accolti Gli alti pregi, e i trofei de’ suoi Maggiori, Che dieder sotto a la gran Quercia d’oro A Valore, e Virtù campo, e ristoro, LIII V’ è Sisto, e di Giulio il viso impresso, Cui sovra il colle altier del Vaticano Fu di serrare, e disserrar concesso Lo stellante del Ciel Regno sovrano. E gli altri ancora, che del germe istesso Vestiron manti d’Ostro, e nel Romano Cielo splenderon, qual più chiaro suole Choro di stelle sù l’eterna Mole. LIV Vi sono i Leonardi, e i Rafaelli, Ed i Giovanni, ed i Giuliani insieme, C’han pregi di virtude ogni hor novelli, E di sé propagar sì degno seme. E chi mai s’udirà, ch’ a pien favelli De’ Franceschi, e de’ Guidi, onde supreme Vantan’ a l’ombra de la Quercia d’oro Così gran Semidei le glorie loro? LV Di Zeffiro anco ammiransi i gran pregi, Ond’ egli chiaro di se stesso splende. E non men, che co’ Franchi invitti Regi, Co’ fortii Austriaci Eroi stretto si rende. D’ Augusto a se congiunto i vanti egregi In ogni clima glorioso stende. E ne l’Italia con altera prova De’ Re Toscani i primi honor rinova. LVI Scorron’ i Legni suoi da l’Orto infido Sin’ a l’Occaso, e a mezo Giorno invitti. E da la man de’ suoi sovra ogni lido Miscredenti guerrier’ giaccion trafitti: Fin dove in stretto mar Sesto, ed Abído A’ nostri Legni i termini han prescritti, Van di Zeffiro i Legni in Guerra forti, A sperder gli empi, e seminar le morti. LVII Da’ rostri solo de le Navi avverse Ei fabricato hà bellici tormenti, E con l’armi lor proprie in mar disperse Hà mille schiere de le Maure genti. Hor’ in preda, hor’ in ceneri converse Hà d’Asia le Città, reca spaventi Sol del Giglio al gran segno; e rende dome De’ Barbari le forze anco co’l nome. LVIII Ma tra popoli suoi di pace amico, Quanto sia giusto, egli altretanto è pio. Contra le forze del Livor nemico, E contra gli odij del nocente oblío. A la Virtude inferma il fianco antico Ristorando l’è Medico, e l’è Dio. D’oro per lui le Muse hanno i velami, E nel crin Febo hà di Smeraldi i rami. LIX Giungon’ in tanto sù da l’aria à volo Con pretiosi ammanti; e ‘n foggie belle Al grand’ Infante scherzano dal Polo Ossequiose le Virtudi ancelle. E de gli eccelsi Dei lo scelto stuolo V’ accorre anco da’ regni de le Stelle. E chi l’ hasta, chi ‘l brando, e chi la clava Presagio di grand’ opre al Parto dava. LX Sol Giove in vece sua l’Aquila altera Mandavi amico, e a’ piedi de l’Infante Di vasto imperio degna messaggiera Vi depone la folgore tonante. A sì grand’ atto de l’eterna sfera, I Dei queste mandar dal sen festante Note d’honori; e l’aurea Quercia intanto Inchinò lieta i fertil rami al canto. LXI A così lieta, e fortunata Prole Il Ciel non neghi mai gioia, e sereno. Pronta ogni Stella da l’eccelsa mole A lei goda girar l’aspetto ameno. Per lei fiammeggi con bei lampi il Sole, E mostri i suoi candor Cinthia non meno: Nè l’ombra sorga da l’oscura Lete, Ma da gli Elisij a lei sparga quiete. LXII Sotto Parto sì degno in erma parte Fia, che co’l suo furor, co’l suo terrore Tragga sbandito, e condennato marte Tra ‘l freddo giel de gli Arimaspi l’hore; La Pace, a cui sue gratie il Ciel comparte, Quì lunghe faccia amabili dimore. E per fonte, e per colle habbia il divino Apollo, ed ogni Musa, Arno, e Apennino. LXIII Cresci a Regij magnanimi pensieri Fanciul, nato d’Etruria a’ primi honori: La Terra sol di te degna hà gl’ Imperi, Ma le lodi hà Virtù per te minori. Giove in Dodona diè gli Oracol’ veri, E Venere nel Mar spirò favori. E a questo suon la Quercia, e ‘l Parto ancor. Riveriron di Zeffiro, e di Flora. LXIV Gode la bella Etruria; e in mille lochi Con ingegnosi spiriti di polve, Formando scherzi, e variando giochi, Tra il gel de l’Aria lieti ardori involve. Altrove tuoni d’innocenti fochi Dal cavo sen de’ bronzi suoi dissolve. E l’Aria da le voci intorno franta Ferdinando risuona, e ‘l Parto canta. Il fine del nono Canto. Canto Decimo Argomento Giove il Bambino rapisce a l’alte Stelle; Duolsi, e si lagna Zeffiro con Flora, Ma Giove con presagij i Dei rancora, E promette d’honor Proli novelle. I Tra ricche fascie il Fanciullin Reale Entro l’Augusta cuna i dì godea; Tragge di cara luce aura vitale, E ogni alma Tosca al viver suo vivéa: La Fama spande a quei gran pregi l’ale, Che più bel Parto altrove non scorgéa. E ‘n dar le lodi, con la tromba fuori Mille sciogliea dal sen spirti sonori. II Da gli antri cavi geminar gli accenti Udiasi l’Apennino à mille, à mille, E l’Arno palesar ne’ suoi contenti Dal sembiante d’amor dolci faville. Le Dive, e i Numi a novo scherzo intenti Liete da gli occhi lor versan le stille: E sù la cuna Castore, e Polluce Spandon de’ suoi bei raggi ampia la luce. III Lo scherzo ivi fù visto ordir suoi balli, Scorrer co’l Gioco nel Real soggiorno; E in un le Ninfe de le Tosche valli Più d’un serto intrecciar di fiori adorno: I Fiumi da’ lor liquidi cristalli Versar gemme nel Tempio; e vago il Giorno L’Oriente spogliar de’ suoi tesori, Per crescer’ a la pompa aurei splendori. IV Del nato Achille non così gli Achei Le pompe celebrar con lieti aspetti; Nè sì per Bacco alzarono trofei Gli habitatori de’ Tebani tetti: Nè tante gioie sù pe’ flutti Egei Delo mostrò, quando al bel dì concetti I suoi Gemelli partorì Latona, E per lor risonar Cinto, e Elicona. V A sì gran plauso fin dal Cielo venne Giove de’ sommi Fati alto Rettore, E dibattendo l’Aquila le penne Formaron da quel moto aure canore. In mirar’ il Bambin Giove sostenne Attonito il suo ciglio per stupore; Poiche degna del Ciel vide la Prole, Ch’ era a la Terra un’ amoroso Sole. VI A tal Parto invaghisi il sommo Amante, C’ hà per amori suoi gloria superna, E scorse bene, ch’ il divin Sembiante Potea crescer’ al Ciel bellezza eterna. Tutto nel viso si mirò festante Rasserenar le luci; e da l’interna Parte per gli occhi il cor trasmise al volto, E’ l gran decreto in loro apparve scolto. VII Non sò, s’avido il Nume, od amoroso Di ritorre il Bambino a l’Arno elesse, Nè più goder’ in terra il dì gioioso Al pargoletto Regnator concesse. Di Giove al cenno (o Fato a’ Toschi odioso) Rapir sù ‘l tergo le Colombe istesse Di Citherea il Fanciullin Tirreno; E ‘l riposer sù ‘l carro a Giove in seno. VIII Due notti in concepir’ Hercole al mondo S’affaticò la dolorosa Alcmena, E poi ‘l Nume produsse al dì giocondo, Ch’ a gli Empi fù di morte acerba pena. E quivi non Hercol nato, il dì fecondo Ritolto è de la Terra a l’aura amena; E verso il Ciel con nobili trofei S’inalza a crescer numero a gli Dei. IX Qual chi tocco da’ fulmini si miri, Tal Zeffiro dal duol dubbio s’arresta, Muto non torce de’ suoi lumi i giri, E tra cura, e stupor gela, e tempesta. Alfin gli affanni suoi scioglie in sospiri Volto a la Prole, che partiva; e ‘n questa Guisa sfogò del cor l’occulto duolo, E del martir fù testimonio il Polo. X Zeffiro hor sì, ch’ in occidente regni S’apparve a un punto, e sparve ogni tua speme; Tanti in terra, ed in mar contrari segni Fur certi inditij à te di doglie estreme; E più, che amori concepisti sdegni, In sparger voti a Deità supreme. Ah pria, ch’ io provi da le Stelle aita, Giove è fallace, e Venere è mentita. XI Più non corra per me l’Arno al Tirreno, Che quest’ occhi potran con nembo ondoso A l’infelice, e lassa Etruria in seno Formar fiume più degno, e più famoso. Nè l’Apenin di selve atro, inameno Mostri più cigilo di terrori ombroso. A horror più grave questo sen dà loco, E de le selve hò gli spaventi a gioco. XII O come i mi fingea, ch’ Eroe Bambino Nascer dovesse da la Quercia d’oro A sollevar l’Italia; e ‘l suo destíno Fusse intrecciar’ il crin d’eterno alloro: Ed a Virtute l’adito divino In terra riaprendo, il suon canoro De’ Cigni ravvivar, che presso l’onde Albergan d’Arno le fiorite sponde. XIII E già credea, che sovra il fiero Trace Hor sù le navi saettasse strali, E dentro il seno de l’Egeo vorace Aprisse a gli Ottomani urne fatali; Ed hora in terra, colmo il sen di face, Che Marte spira a gli animi immortali, Di formidabil’ Mori, e d’empi Setti Empisse i campi, ed ingombrasse i liti. XIV Sì meritar poteva il grande effetto, Ond’ io ver la Caonia, e la mia Flora Drizzammo il volo a non vicino ogetto, E tra le Querce tue femmo dimora. A le tue voci era gioioso il petto, E n’ era lieta ogni sorgente Aurora; Ed altro Sol non desiai, che ‘l die, Ch’ era promesso a le speranze mie. XV O vana speme, ed o fallace giorno: Ch’ in ombre hai tramutato il tuo splendore; Fai nel Cielo per me fosco il ritorno, E gravi a Flora riconduci l’hore. (Lasso) credea, che nel divin soggiorno Non ritornasser mai voci d’errore, E che lunge da noi con bianco velo La Verità solo albergasse in Cielo, XVI A sì fiero destino io giunto sono, Che fin manca per me l’istesso Fato, Meglio a me fora, haver negato il dono, Che ritorre il Bambino a pena nato. Quando Flora dolente al mesto suono Ripiglia anch’ essa, e dice. E’ a noi mancato Prima, ch’ apparso, il desiato Infante, Di fragile desir speranza errante. XVII Ah ch’ infeconda ero delusa in terra, Ed hor, che fertil sono, infesto hò ‘l Cielo; Regio Bambino il seno mio disserra, Ch’ in beltade adeguar può ‘l Dio di Delo, E dove Morte gli altrui Parti atterra, E fiera squarcia il lor corporeo velo, Mi toglie il Ciel la Prole; e ‘n dure prove Gli uffici de la Morte usurpa Giove. XVIII O voti vani, ed ò desir fallace, Poich’ è ‘l regno del Ciel volto a rapina. Non è stabile in terra humana pace, E manca fin nel Ciel la fe divina. Sembra la gioia in noi rosa mendace, Ch’ in se crede haver perla, ed è poi brina; Ch’ in un momento nata, a un punto è scossa, E co’l giro del Sol perde sua possa. XIX Dunque era d’ huopo, per cammin sì grave, Scontar tante, e sì rigide contese; Ed hor sù l’aria, hor ne la sacra trave Patir’ incontri, e sostener’ offese; S’ ad un tratto passar l’aura soave Dovea de le mie gioie; e a un punto accese Ammorzarsi le glorie anche in un punto; E starsi co’l piacere il duol congiunto. XX Ah ch’ a la Terra, e non al Ciel produssi Il bramato dal Ciel Parto promesso; E se lui con rio duolo al giorno addussi, Perche goderlo a me non è concesso? Ah per me mal feconda io stata fussi, Se di torselo a Giove era permesso. La Sorte hà forze contra me rubelle, E invidia han de’ miei beni anco le stelle. XXI Tu pur’, o Giove, con la tua Giunone Potevi farti in Ciel fertile à gara, E de la Prole tua l’alta magione Render’ a voglie tue feconda, e chiara. E non rapire a me, chi le corone Del Regio sangue mio Bambin ripara; Ò pur con lui che non rapir me stessa, S’ è nel Figliol la Genetrice impressa? XXII E chi fia, che rapisca il corpo mio, E co’l mio Figlio il porti in aria a volo? Non tu Borea, ch’ a me contrario, e rio Tentasti sù per l’onde aggiunger duolo. E nè men da te, Zeffiro, desio Sù per le vie de’ venti alzarmi al Polo, S’ io di ristoro, e tu di ben sei privo; Tu senza spirto, ed io senz’ alma vivo. XXIII Parto concesso à me sol per mio male, Fatto a’ desiri miei gioia nocente, Che havesti, nel partir, del Padre l’ale, A l’hor più lunge, ch’ eri a noi presente. E, mentre apparve il pregio tuo sì frale, Che ne’ suoi primi dì giacque languente, Mostrasti in lieve, e così breve volo, Che de la Dea de’ fiori eri Figliolo. XXIV Ah fussi io stata fra selvaggie piante Una mal nata Rovere infeconda, Hor non sarei di flebil duol stillante, Nè verserei quest’ alma in tepida onda. Ahi che val, che d’honor Diva mi vante, S’ anco d’immortal duolo io son feconda? Figlio, s’ in Ciel la Madre tua non sdegni, Hanno horti anco di fiori i sommi Regni. XXV Ma che? raccolta fra quei campi alteri Potranno le mie lagrime cocenti I fiori inaridir de’ sommi imperi, E di pompe privar gli horti lucenti. Ah Madre infausta; e che mal nata speri, Se sol, mercè del Ciel, spirti hai dolenti? E ti diero esser Dea gli eccelsi Giri, Per far, ch’ eterna in te la pena spiri. XXVI Figlio, ove sei? dove te n’ gisti a un tratto, E la Madre a i martir lasciasti in preda. Ah torna, torna; nè per te disfatto In me lo spirto a tanti affanni ceda. Anzi, per te seguir, d’augello in atto A me, come l’amor, lo spirto rieda. O docle mia follía: del Cielo ei gode; E la Terra, e la Madre odia, e non ode. XXVII Infausti pregi miei; poich’ a me noce Haver’ in terra Deità produtto. Deh fosse stata la Sirena atroce In mare a me dolce cagion di lutto: O pur’ a danni miei Borea feroce Havesse in ghiaccio tramutato il tutto; E di macchie l’ardor spargendo il volto, M’havesse in fiamme, e ‘n cenere disciolto. XXVIII A pien ne’ danni miei sarei beata, E più, che d’esser Dea, mi vanterei. Ogni herba sia per me d’odori orbata, SIen vedovi di fiori i Colli Hiblei; Più non sorga di gigli incoronata L’Alba da’ lidi Eoi; nè più di bei Germi dipinti sù l’etherea mole Fiorito splenda il rinsacente Sole. XXIX Desti da’ centri suoi Dori cruciosa Contra gli abeti altrui procelle infeste, E ‘n travagliare i pini ogni hor sdegnosa Accresca flutti, e accumuli tempeste: Apra il Suolo voragin spaventosa, E inghiotta in un co’ monti le foreste; Ed arrechi a l’Etruria ultima sorte Lutto, danno, sospir, lamento, e morte. XXX Sì sì l’Inferno da l’oscura sede Quivi sorga a goder Cielo migliore, Che trovar l’alma mia ne’ Numi crede De la Stigia magion fede maggiore. Proprie de l’Orco non son più le prede, Ch’ anco Giove a rapine hà volto il core. Novi Dei sù le Stelle egli riserra, E già satio del Ciel, spoglia la Terra. XXXI Ah che dico, ò mio Parto? a Giove in seno Godi i fulmin’ trattar con destra imbelle, E ne le fascie stretto il mar Thirreno, E ‘l suol Tosco difender da le Stelle. Ah che divisa in due già vengo meno, Nè miro più del dì le luci belle. Oppressa dal martir lo spirto hò stanco; Gemo, anhelo, sospiro, agghiaccio, e manco. XXXII Cadde Flora a tai note; e parve rosa, Che tocca fusse dal vampar del giorno, Qual’hor sù noi da la magion focosa Vibra Apollo il suo stral di raggi adorno. Zeffiro accorre; e di cader dubbiosa Anch’ esso hà l’alma; ed ogni ogetto intorno A mostra sì spiacevole, e nocente Prende di lutto imagine dolente. XXXIII Quando Giove, ch’ à noi svela gli arcani, Con accento immortal tai note scioglie. Del sempiterno Rè gli honor sovrani Non soggiaccion a’ lai, nè mertan doglie. Pendon dal giusto Cielo i casi humani, E dal Ciel’ han virtù le basse voglie. Non sia, chi pugni al gran voler superno, Hà note di diamanti il Cielo eterno. XXXIV Feconda, qual’ io dissi, in terra Flora Prodotto hà Germe, ma di Stelle degno; Ond’ hora meco tra le Stelle ancora Ascenda, a posseder più nobil regno. E meco i fulmin tratti, onde tal’hora Giaccia lo stuolo de’ Rubelli indegno. Sien partite fra noi le nostre prove; Ed habbia la Toscana anco il suo Giove. XXXV Sorgon Zeffiro; e Flora a tali accenti, Ed in se riedon da la scossa acerba; Poi segue il gran Tonante. A’ vostri eventi Il Cielo amico miglior sorte serba, E ‘n terra fia de’ vostri Eroi potenti La Gloria chiara, e la Virtù superba. Poiche dal Ceppo lor, c’ honor diserra, Havran Numi le Stelle, Eroi la Terra. XXXVI La Quercia, che nel Tempio alta si mira, Fato vi sia di fortunate prove; Ch’ ov’ ella hà Regij rami, anch’ ivi spira Il ben del Cielo, ed il favor di Giove. Nata a gran Germi, de l’Invidia in ira, A l’Arno produrrà pompe ogni hor nuove; E dal suo Ceppo sorgerà, chi torni Del secol d’oro i fortunati giorni. XXXVII Porgete incensi a Quercia sì sublime, Ch’ ella di sì gran Tempio è degna in terra. E da lei penderan le spoglie opime De’ rubellanti soggiogati in guerra. Ed in vece di lui, c’ hor sù le cime A’ farsi Nume il volo suo disserra. Quanti rami la Quercia erge felice, Tanti Regi a l’Etruria il Ciel predice. XXXVIII Disse, e la Quercia raddoppiar si vide Dal vivo tronco un’ ordine fecondo Di rami, onde vie più d’ un forte Alcide Sorga in Etruria, a sollevar’ il Mondo; Sì che per loro contra torme infide Vanti Honore, e Virtù trofeo giocondo. E fertil de la Rovere il rampollo Più d’ un Marte produca, e d’ un’ Apollo. XXXIX Riprese Flora, e Zeffiro la speme, Che già languía ne’ sospirosi cori; E non più l’Apennin, nè l’Arno geme, Ma porge al novo Dio supplici honori. Con Giove intanto a le magion supreme Ascende il Figlio de la Dea de’ fiori; E sotto auspicij d’alta Quercia d’oro Speran l’Arno, e l’Etruria i Regi loro. XXXX Per farlo habitator del sommo Cielo, E consecrarlo Dio de l’alta parte; Al Fanciullino il Regnator di Delo I bei tesori de’ suoi rai comparte. Sparsel Giove di nettare; e co’l telo Segnò l’Infante il bellicoso Marte. Ed Hebe, che d’età fresca si vede, Eternitade al Tosco Nume diede. XXXXI Il Nume anch’ esso, ch’ a Cillene impera, E nel Tempio, ch’ in se la Quercia accoglie, Sceso è con gli altri Dei da l’aurea sfera, Desta co’l Caduceo placide voglie. Ed anche Alcide, c’hà la Clava altera, E nel tergo sostien selvaggie spoglie, Di quelle il Nume pargoletto copre, E spira a l’alma memorabil’ opre. XXXXII Lieta sin Giuno pe’l Toscano Infante Si vide serenar l’Auguste ciglia; E a tal’ aspetto fin la Regia amante De’ Numi in Ciel, gioì di meraviglia. Cangia il suo lutto in pace Arno festante; E Zeffiro speranza a pien ripiglia, Che germoglio novel per far gli sieno Di Giove il suono, e di sua Flora il seno. XXXXIII A le promesse del Tonante vaghi Frenan’ intanto i popoli le cure; Nè più rivolgon le lor luci in laghi Di pene, che nel cor serban più dure. Ma come il Sole fuor di nube appaghi La vista in terra con sue luci pure, E del chiaro splendor dispieghi i rai, Consolan’ i martir, temprano i lai. XXXXIV Miran il terzo Cosmo in alto acceso, Che ne l’Etruria nato, è ‘n breve tolto (Volando a’ pregi sempiterni inteso) Hora a la cura de’ Thirreni è volto; Con plettri armoniosi, onde sospeso Il Vento in aria stassi, in carmi sciolto Cantan’ hinno di lode; e dal suo speco L’Apennino a le lodi è nobil’ Eco. XXXXV Applaude il Tosco regno, ed ogni Fiume, Che mesto rivolgea torbide l’onde, Par, che sereni il lagrimoso lume, E di novelli fior vesta le sponde. Nè fia, ch’ in pianto gli occhi suoi consume Il Choro delle Dee, che tra feconde Selve gemean ne’ monti, e per le valli Crescean’ a ‘ fonti tepidi cristalli. XXXXVI Adoran Cosmo; e a la novella spene, Che loro diede il Regnator Tonante, Rivolgon l’alme, ch’ in gioir serene Tralucon dal lor placido sembiante; E mostran fra gli affanni ancor’ amene Aure di bel desir, che non errante Tempra in loro i pensieri, ed ogni noia, Vago tramuta in bel seren di gioia. XXXXVII Poscia volta a la Quercia ogni alma amica Accende i cori di gradite voglie; E contra l’ire de l’età nemica Voti al futuro Regnator discioglie. Depone il Verno rio l’asprezza antica, E verdi a’ preghi altrui veste le foglie; Ornasi il bosco di smeraldi intorno, E ‘l campo si colora a’ rai del giorno. XXXXVIII Pe’l futuro Regnante ogniun’ a gara Sù ‘l tronco de la Quercia i voti appende; E fatta la lor gioia ogni hor più chiara, Mostran, che speme in lor più certa splende. Chi sù la Quercia d’or, chi sovra l’ara Di più pregiati fior’ serto sospende; E chi d’Arabia, tra sacrati ardori, Al venturo Bambin diffonde odori. XXXXIX Altri un’ ammanto tempestoso d’oro Fisso nel tronco pretioso pone; Ed altri con finissimo lavoro Rilucenti di gemme erge corone; E chi di scettro nobile tesoro Sù i rami de la Quercia alto ripone. E del novello Parto a i Toschi Regi Ravviva le promesse, e accerta i pregi. L Dal novo Parto già l’Etruria attende Più fortunati de’ suoi giorni i lampi, A l’alta speme i pregi suoi riprende, E l’Etruria riveste i fertil’ campi: L’Italia anch’ essa a novo honor s’accende, Fia, ch’ orme in se di salda Pace stampi: E ‘l Mondo speri da’ Toscani Infanti D’Honore i pregi, e di Virtude i vanti. Il fine del decimo, & ultimo Canto.

Per non haver potuto l’Auttora ritrovarsi ogni volta presente alla correzzione delle stampe, in alcune Pagini del Poema vi è scorso qualche punto, o virgola di avantaggio, che verrebbe a mutare il senso, e come anco lettere false, o altro errore, tutto si lascia all’interpettatione del discreto Lettore.

A pagina 131. ottava terza. verso ottavo. Fra corretto. far A pagina 158. ottava terza. verso ottavo. lucenti corretto. paventi

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Margherita Costa's Flora Feconda (1640): A Basic TEI Edition Galileo’s Library Digitization Project Galileo’s Library Digitization Project Crystal Hall OCR creation Gaby Papper OCR cleaning Jenna Albanese XML creation the TEI Archiving, Publishing, and Access Service (TAPAS)
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Based on the copy at the Library of Congress Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana. In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori. Costa, Margherita Florence Massi, Amador; Landi, Lorenzo 1640.

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Flora feconda. Poema di Margherita Costa romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana. In Fiorenza, Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori Flora Feconda Poema di Margherita Costa Romana. Flora Feconda. Poema di Margherita Costa Romana. Dedicato all’Altezza Serenissima di Ferdinando Secondo G. Duca di Toscana: In Fiorenza Nella Stamperia Nuova del Massi, e Landi. 1640. Con Licenza de’ Superiori. Serenissimo Grand Duca. Flora feconda presentasi a V.A.S. che ha potuto secondar di gratie la mia fortuna, e dalla bassezza inalzarla a’ meriti de’ suoi favori. Turbavasi in me l’animo, che nelle lodi del gran Parto io non potessi far dimostratione di dovuto ossequio, e di convenevole contentezza, ma dal soave Zeffiro della sua cortesissima benignità rasserenata, per celebrar l’altezza delle glorie Toscane, sono uscita anch’io a campeggiare co’l parto del mio basso ingegno. Per mostrare il mio desiderio, se non le forze, ho destata la mia Musa a fare il suo sforzo; Onde ho preso ardimento di formare opera di Poema: ma se V.A. da altri attenderà saldezza di gemme di virtù, hora da me, che porto la fecondità di Flora, si contenti, ch’io le porga in tributo tenerezza di fiori; più alto il mio ingegno non si solleva. E però s’ella ha in testa corona d’oro, io questa de’miei fiori a’suoi piedi presento. Ben’ egli è vero, che con infelicissimo avvenimento morte alle felicità del Mondo il Sereniss. Gran Principino ha rapito; ma coronansi anche di fiori le tombe de’morti Infanti. L’Altezza della Quercia, che l’ha prodotto, con la sua sublimità l’ha generato al Cielo, ed il Signore per pegno delle grandezze Toscane a sè l’ha chiamato; poiche le primitie devonsi a Dio. Sicura intanto della fecondità della Real Consorte prego ne’ miei caldi voti più stabil vita al futuro Parto, e per sua maggior consolazione facendole profondissima riverenza, le auguro dal Cielo altretanta ricompensa di felicità, quante sono le obligazioni della mia servitù. Di Firenze questo dì 26 di Genaio 1640 DiV. A Sereniss. Humiliss. diuotiss. ed obligatiss. Serva. Margherita Costa. A’ Lettori Benigno Lettore, nel presente Poema habbi riguardo al sogetto, se non alle mie fatiche, ed appagati dell’occasion dell’opera, se non del mio rozo, e poco avventurato talento; dal quale, se non bene espresso vedrai gli effetti del mio pensiero, sì quello compatisci, come l’estremità del tempo; poiche trovandomi occupata in altre compositioni, e desiderosa anch’io d’uscire con felice augurio all’applauso delle comuni allegrezze Toscane, in pochissimo Tempo è stato da me composto. Il Poema era ristretto in nove canti, che alludevano alli nove mesi del Parto della Serenissima Gran Duchessa; ma per l’infausto successo della Morte del Serenissimo Infante, a quelli ho aggiunto il decimo, che è il rapimento fatto da Giove del Real Bambino. Contentati dunque di godere nella rozezza del mio canto l’amenità degli due finti Numi, mentre pregandoti dal Cielo ogni bene, ti ricordo ancora, che dove troverassi Fato, Fortuna, Destino, Cielo, Dio, e parole simili s’intende che si parla favolosamente, e per allettatione poetica, e non per offendere la Pietà Cristiana. Argomento Il Poema è distinto in nove Canti, alludendo a’ nove mesi del Parto della Serenissima Gran Duchessa: ma poi per l’avverso avvenimento della repentina morte del Serenissimo Gran Principino si è aggiunto il decimo Canto. L’invenzione, acciò sia nota, è appoggiata a persone e luoghi noti, e Favole chiare. Quì dunque Flora con Zeffiro manchevoli di Prole (rappresentanti il Serenissimo Ferdinando Secondo Gran Duca di Toscana, e la Serenissima Vittoria della Rovere Gran Duchessa) consigliansi con la Deità di Venere, e d’Amore; passano scontri di vari casi, e vanno all’Oracolo di Giove nella Caonia, dove è la Selva Dodonea, che per mezzo di Colombe, e di Quercie dà risposte certissime al Mondo. Hanno risposta, e dentro Nave, data loro da Giove, dove l’Albero è una di quelle Quercie sacre, (e quì s’allude a Casa della Rovere) ritornano nell’Etruria, le parole dell’Oracolo si verificano, e si celebra la loro Fecondità. E poi segue la giunta del rapimento fatto da Giove. CANTO PRIMO Flora, che da Greci fu detta Cloride, e Zeffiro si lamentano, come tutto il Mondo sia per loro fecondo di vaghezze, ed essi nell’Etruria, ove hanno posto la loro Reggia, non possino havere fecondità di Prole. Venere intanto con Amore ne’ giorni lieti di Maggio scorrendo la marina, e ritiratisi su’l mezzo giorno in un’Antro amenissimo della Toscana. Quivi giunge Zeffiro, ed ammiratosi degli scherzi, e pompe della Dea, e poi espostole le sue querele, da Venere intende, che solo da Giove in Dodona s’hanno le vere risposte. Zeffiro parte. CANTO SECONDO Zeffiro torna a Flora, e persuasala di andare all’Oracolo di Giove in Dodona, ove dalle Colombe, Uccelli di Venere, e dalle Quercie, Arbori di Giove, s’attendono le vere risposte. Determinano partire. Zeffiro in un bel mattino fabricata bellissima nuvola parte con Flora per aria, e trapassando, e vedendo le vaghezze del mare godono, e giunti al golfo delle Sirene, mentre queste con suoni, e canti s’affaticano ritardargli, Zeffiro soavemente spira dalla nuvola, sì che a quel fiato, i Cigni delle sponde vicine ragunati fanno così dolce armonia, che confuse le Sirene s’affondano, ed essi salvi, e lieti trapassano. CANTO TERZO Drizzano il volo verso la Sicilia, e visto uno amenissimo luogo, ivi smontano, ed erano i Campi bagnati dal Fonte d’Aretusa: quivi sono accolti dalla Ninfa, ed essa narra loro gli antichi amori di Alfeo con lei, ed intanto giungendo Alfeo canta le vaghezze di Flora, e di Zeffiro, ed i diletti d’Amore. CANTO QUARTO Seguono sovra la nuvola il viaggio in Feacia, dove è il Re Alcinoo, e da lui inviati a lautissima mensa; essi in ricompensa gli rendono i Campi ricchi d’ogni fecondità di piante, e di fiori, sì che il luogo diviene un’incomparabil’horto di perpetua amenità, ove si descrive l’eccesso delle maraviglie terrene. CANTO QUINTO Ultimamente su ‘l mare giungono a vista del lido della Caonia, dove è Dodona, ove di ghiande si vive, e si descrive quivi essere l’Età dell’oro rimasta. Entrano nel luogo dell’Oracolo, e Zeffiro offerti i doni a Giove, e Flora sparsi i prieghi, le Quercie, e le Colombe rispondono. Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole, Che stenderà l’impero a par del Sole. Dopo haver quivi dimorato molti giorni, e fatte continue feste al Tempio, tornano al Lido, ed in vece della nuvola, trovano una Nave, che ha per Arbore una di quelle Quercie sacre: entrano, e risolcano il mare verso l’Etruria. CANTO SESTO Aquilone inimico di Zeffiro nel ritorno, mentre questi vogliono entrare nel Faro di Sicilia, opponsi alla Nave, e falla errare altrove. A quel moto scotesi Nettunno, tranquilla il mare, e incatenato Aquilone alla Nave, ordina a gli Dei, e Dee marine, che accompagnino sì felice ritorno de’ vaghi Amanti alle rive dell’Arno. CANTO SETTIMO Aci, che è uno de’ Dei de fonti, ed era in questa pompa, visto la bellezza di Flora, e d’amore fortemente acceso scordasi della sua bella Galatea; e Polisemo dal monte vedendo la Ninfa, che abandonata dolevasi, rinova i vecchi amori: giungono in tanto Zeffiro, e Flora all’Isola Eolia, e visto l’antro del Re de’ Venti, gli consegnano Aquilone incatenato; Euro per alcuni giorni li festeggia con varie danze d’Aure; e di Venti. Aci pentito ritorna a gli amori di Galatea. Flora, e Zeffiro partono. CANTO OTTAVO Annoiata da gran caldo Flora prova un male, che le conturba il Parto, e par, che la sparga d’alcune macchie (e qui s’allude al male del Vaiolo della Sereniss. Gran Duchessa.) Per il che ritorna con Zeffiro nell’Eolia, dove per opera di Glauco Flora risanasi; e da ivi partono, e da Tritone Araldo del mare sentono le lodi de’ loro Maggiori. Dopo entrando nel mar Tirreno, Arione sopra un Delfino li si fa incontro, e canta su la Lira le grandezze dell’Arno. CANTO NONO Venere, ed Amore incontrano la pompa degli Dei marini, e Flora, e Zeffiro; e dopo molti scherzi, e giochi marini si vide l’Albero di Querica della Nave germogliare, e partoririe ghiande d’oro; ed intanto scorto l’Oracolo adempirsi, smontano su’l Lido, e dentro nobil Tempio dall’Arte, e dalla Virtù fabricato ripongono la Nave, e l’albero della Quercia d’oro. Finita sì grand’ opera Flora a piè della Quercia espone bellissimo fanciullo: accorrono tutte le Deità, e con doni cantano all’Infante eternità d’honori. CANTO DECIMO, ET ULTIMO Giove chiama in Cielo il nato Bambino, e dopo gran lamenti di Zeffiro, e di Flora in virtù della Quercia d’oro promette loro più stabile Prole, ed i Numi al decreto divino si consolano. Si stampino l’infrascritti Canti se però così piace al Reverremdissimo P. Inquisitore. D. il di 12. Novembre 1639. Vincenzio Rabatta Vic: di Firenze. Si possono stampare in Fir. li 13. Novemb. 1639. Fr. Gio. Inquisit. Gen. di Fir. Alessandro Vettori Senat. Auditore di S.A.S. CANTO PRIMO Argomento Privi son Flora, e Zeffiro di Prole, Ond’ ei l’evento a Citherea richiede; Ed ella dice. A Giove haver dei fede, Ch’ in Dodona haver dido oracol suole. I. Musa, dettmai il suono, onde la Prole Di Zeffiro, e di Flora in carte spieghi; E s’altri bere in Helicona suole, Febo di bere in Arno à me non neghi. Ove sono grandezze al Mondo sole, De’ carmi l’armonia l’anime leghi, E, se le chiome altrui cinge l’alloro, Incoroni i miei crin la Quercia d’oro. II Già più non veggio a tante gioie amari Spender’ i flutti placido il Terrno; Ma di cor alli rivestiti i Mari Aprir tranquillo a vaghe Ninfe il seno: Già la Diva di Cipro co’ suoi cari Augelli fende il liquido sereno; Apre Giove gli arcani; e da Dodona. Lieti fati la selva à noi risona. III Sù sù, con crine d’oro, e piè di gemme Danzin le Stelle ne l’eterne sfere; Del Tosco mar le nobili Maremme Sien di Tesor non men, che d’onda, altere. Più di smeraldi l’Apennino ingemme, Che di frondi, le piante: a amiche schiere D’aure vezzose, ventilando ardori, Piovin da’ Ciel d’ Amor nembri di fiori. IV Fernando, che de l’Arno il freno reggi, E contra ‘l Mauro vincitore spiri: E ne’ remoti, Orientali seggi Per te la Tracia Luna essangue miri. Con felici a’ miei voti amiche leggi Non sdegnar di far paghi i miei desiri; Per te provi l’oblío superbo crollo, E sii de la mia Musa unico Apollo. V Non bramo ne’ miei carmi altro Elicona, Che l’Apennino tuo, dove non verna; Ma sol d’augelli armoniosi suona Maestrevole scherzo, e gara eterna: Poich’ a le glorie tue rimbombo tuona; Che co’l tuo nome gli altrui nomi eterna: E de le lodi tue chiare, e divine L’Oceano, e ‘l mar’ Indico è confine. VI Mentre Flora con Zeffiro feconda Quest’amena d’Italia antica parte, Sia l’alma con bei voti in te gioconda, Come in me son d’Amor liete le carte. Per me de l’Arno sù l’amica sponda Mira tue gioie in questi Numi sparte. E’n un co’l nome di Vittoria impresso Ne l’imagini lor godi te stesso. VII Per tratto d’anni la vezzosa Flora Con Zeffiro in amor giunta vivea; L’una per l’altro hor sospirava, ed hora L’altra da gli ozii altrui pace trahea. Se quegli mira in lei la vaga Aurora; Questa in quei chiari lumi il Sole havea. Né v’era parte in lor senza vaghezza; E son cambi tra lor luce, e bellezza. VIII Ambo traggon da Numi origin degna, E ‘n un co’l Mondo nacquero a’ Mortali. L’una à vestir di fiori i campi insegna, E diffonder d’odor nembi vitali; L’altro del bel seren ne’ campi regna, E di rose odorate impenna l’ali: Ma sovra l’Arno, che di gioie ondeggia, Hanno unito il piacer, commun la Reggia. IX Ond’ è, che Flora à Zeffiro rivolta Dice. O’ de l’alma mia parte gradita, Non fia, chi veggia la mia fè disciolta, Ove il tuo fido amore à me fia vita: A te donata, ed à me stessa tolta Serbo quest’ alma, che sol teco unita In me se n’ vive, e dolcemente prova, Che ne’ cambi del cor gioia si trova. X Del chiaro memorabile Metauro Le sponde famosissime albergai, E co’ tesori miei di fertil’ auro Fin l’infeconde Roveri indorai. Ma quì del placido Arno al bel tesauro Amo per te rivolger’ i miei rai; E godo, che l’altissimo Appennino Sia de gli amori miei dolce destino. XI Per te, Zeffiro mio, tempro il mio foco, E l’ale tue, co’l ventillar, mi sono Sì bel ristoro, c’ho le fiamme a gioco, Ed aure di contenti hò per tuo dono: In me sereno sol di pace hà loco, Ed hò posto ogni cura in abbandono; Se non quanto al mio seno è dolce cura Di Zeffiro d’amor soave arsura. XII E ben’ il sanno questi colli intorno, C’hor per te vesto di fioriti argenti; Hora di pompe d’or vivace adorno, Ed hor gli’ ingemmo di rubin ridenti: Applaudon vagamente al mio soggiorno Co’ pinti vanni amorosetti i venti: Sempre spuntan gli odori, ove m’aggiro, E, per te, Dea di Primavera spiro. XIII Ma del nome, per altri, io fertil vivo, E, per te, manca son d’amata prole: Non è ‘l monte, per me, di parti privo, E spunto mille Figli a’ rai del Sole: Ha fertili, per me, le sponde il Rivo, Per me, d’amor languiscon le viole; Ed odorati Germi, e ricchi Figli Son l’auree rose, e gli argentati gigli. XIV E pur Madre non son di picciol Nume, Che scherzi à te bambolleggiando innanti: Cieca à me sono, se per altri hò lume, E vie più, che d’honor, degna di pianti. Ah che la Deitade in van profume In me de l’alte glorie i sommi vanti, E và per l’aure leggiermente à vuoto Più di Zeffiro lieve ogni mio voto. XV Disse; e grondar da gl’ occhi de la Diva Anco fur viste numerose stille; E sì calde del duol le vene apriva, Che sembravan le gote arse faville. Onde beltà languía, qual sù la riva L’alga si mira, cui da cento, e mille Scosse di flutti è ripercosso il crine, E da l’onde, ove hà vita, hà le ruine. XVI Zeffiro all’hor, cui l’altrui duolo, e pena, Altamente sospira, e quasi anch’ esso Da’ lumi fuor versando amara vena, Havea tutto al dolor dato se stesso. Ma, perch’ altri consoli, egli serena Il ciglio dagli affanni in se dimesso; Scaccia a forza il cordoglio, e con l’aspetto Invita Flora à tranquillare il petto. XVII Anzi ei di propria mano il pianto terge Da gl’ occhi della Diva; e dolci baci In quel volto imprimendo, i pensier’ erge A serenar le cure in lei mordaci. E dice. Altera Dea, non ben s’immerge L’animo in aspre pene; à te vivaci Dato hà gli spirti eternamente Giove; E in noi le gioie sol di Dei son prove. XVIII Sù sù le stille, che turbaro il core, Fuggan dal Cielo del divin sembiante; Nè più d’affanni tempestoso horrore L’animo ingombri di piaceri amante. Non hà due giorni, che la Dea d’Amore Da Cipro in questo mar volte hà le piante, E quì co’l figlio è giunta in sù ‘l Tirreno, Per recar’ al mar Tosco almo sereno. XIX Come ben sai, sù ‘l cominciar di Maggio, Ella se n’ viene à queste rive amica, Riveste i rami suoi la Quercia, e ‘l Faggio Nuovi fior sù la sponda il Rio nudrica. E ‘l Sole, sol per lei vi stende il raggio, E d’amori, e di rami il bosco implica. Là vuò stender’ i passi, e da Ciprigna Saper, s’ha ‘l Ciel per noi sorte benigna. XX Ella oracol ne fia; qual’ à sua Prole, Giove a lei diè d’amori esser Nodrice, E quanto di facondo hà questa mole, Tutto degli amor suoi parto è felice. Onde, se’l Ciel tra noi mentir non suole, Sol la gratia da lei sperar ne lice: E, s’ a lei produciam frutti d’odore, Ella ne renda à noi parti d’amore. XXI Consolosi la Diva, e come in stelo Languente fiore, se vi giunge il lampo Del Sole amico, s’erge lieto al Cielo, Ed arricchisce di sue gemme il campo, Sì Flora del suo duol ritolta al gelo Rinvigorissi a’ detti, e caldo vampo Al cor l’augurio le stillò di lei, Che de gli huomini è Madre, e de gli Dei. XXII Al nominar di Venere si sente Flora riprender lena, e al suo Consorte Volgendo ciglio di seren ridente, Spira à quei voti favorevol sorte. Al gioir de la Dea partir repente Furon viste le nebbie à l’aria forte, E ‘l Ciel da le caligini ritolto Puro a le Stelle d’or render’ il volto. XXIII Lieto più, che mai suol, Zeffiro a l’hora Di rose più vermiglie impenna l’ale, E benche parta, pur congiunto a Flora Nel cor porta di lei l’alma immortale. Tronca da speme acceso ogni dimora, E ratto al suo desio và più di strale. Lieve se n’ vola, e al suo passaggio senti Formar l’onde, e gli augelli emuli accenti. XXIV Ogni nube da lui fugata cede, E ‘l Sol nel Cielo più sereno torna; L’argento a’ rivi più purgato riede, E di novi smeraldi il prato s’orna. Ovunque il volo indirizzar si vede, Primavera di fiori ivi soggiorna; E al dolce sospirar d’ aura gentile Di vive gemme s’incorona Aprile: XXV Giunge alfin, dove argheggia antro frondoso Lussureggiante d’hedere, e di rose, E con volo, c’hà suono armonioso, Trascorron’ a la cura Aure vezzose. L’albergo è sol de’ pregi suoi pomposo, Ed hà per suoi tesor gioie amorose. Quindi lunge se n’ và Tuono, e Baleno, E v’è la Pace, e scherzavi il Sereno. XXVI Pura è la fonte, che serpeggia fuori, Di muti pesci albergo innamorato: Vi sono di Piacer misti gli ardori; E di tranquillità messaggio è ‘l Fato. Non vi posan’ augei, se non canori, E sol ripieno di bei Cigni è ‘l prato; E ‘l Mare al suono del famoso speco E’ di gratie, e d’ amori anima, ed Eco, XVII In ricco seggio di bei fior tessuto Stava di Pafo la ridente Diva; Parla di sua beltà l’ albergo muto, Ed ogni pianta à quegli sguardi è viva. L’ Aura istessa, che vola, in suono arguto Di scherzi favellar vaga s’udiva; E ‘l Mar, ch’ è tal’ hor fiero, ivi soave Chiamava a gli otij suoi lieta ogni nave. XXVIII Ben’ egli è ver, che nel più crudo verno, A l’hora ch’ Aquilon crudo tempesta, E armato il forte sen di ghiaccio eterno Le selve scote, e le campagne infesta, La Diva, che de gli animi hà ‘l governo, Entro il sen de l’ Egeo passa l’ infesta Stagion de l’anno, e tra piacevol riti Suol de l’Isola sua gioir ne’ liti. XXIX Stà nel suolo nativo ella, ch’ a Gnido Le leggi impone, ed in quei Ciprij campi De le delitie sue tenendo il nido, De le vittime ardenti hà cari i lampi. E diffusi a la Dea dal popol fido Sono ben mille odori, onde sù gli ampi Spatij del verde pian veggonsi immensi A le Stelle fumar globi d’incensi. XXX Chi di Colombe i doni offerti haveva, E di sacrato vin sparsi gli altari: E chi diserti di bei fior godeva Haver’ appesi ordin superbi, e vari. Quando cessati i voti, ecco si leva Sovra alto carro a volo, e varca i mari; E per temprar del caldo Ciel la noia, Posar ne’ Toschi lidi hà per sua gioia, XXXI Perche dopo c’hà scosso il sommo Toro La sua Virtù da l’infiammato volto, E ‘l Sole diffondendo i raggi d’oro, Con giorni più sereni à noi s’ è volto, Ella ama in compagnia del vago choro, Che forman gl’ Amoretti a volo sciolto, Varcare, ove d’Etruria il mar spumeggia, E ne’ lidi Tirreni hà la sua Reggia. XXXII Quì soggiorna la Dea, come in suo trono, E quì gode Cithera, ed Amathunta; E pon l’istesso Cipro in abbandono, Pur che non sia da’ Toschi ella disgiunta. Hà l’Italico Cielo per miglior dono, E quivi sol per lui d’amore è punta; E gode, che per sede a lei novella Sia trono di beltà l’Italia bella. XXXIII Qui si scorge la Diva in lieto aspetto Fugar dal lieto sen l’ombre di noia, Con piè di molle avorio intorno al tetto Vedeasi à gara saltellar la Gioia. Il Canto fuor d’armonioso petto Note disciorre contra ‘l duol, ch’ annoia, E ‘l Suono co’ suoi musici concenti Arrestar l’onde, e inprigionare i venti. XXXIV Il Ballo anch’ esso discioglieva intorno Di salti, e di rivolte arti novelle, E dilettoso ancor, del Tempo a scorno, Il Gioco vi spendea l’hore più belle. E la Pace tra loro à par del giorno Cingea candida veste; e le ribelle Cure lasciano in preda agli otij amici, Di pene, e di pensier stuoli nemici. XXXV Ma sovra gli altri festeggiando in giro Scotonsi gli Amoretti à cento, à mille; E vaghi di dolcissimo martiro Chi strali ministrava, e chi faville. Mandavan dal lor sen più d’un sospiro, Con l’acque confondevan le scintille, E tesson per la Dea cinti superbi Di gioie estreme, e di dolori acerbi. XXXVI Chi sovra un sasso raffinar lo strale Ingegnavasi ardent; e chi le piume Al Sol tergeva; e, con dibatter l’ale, Aure spirava à l’amoroso Nume. E chi di varij fior nembo vitale In quel dì radoppiava oltre il costume, Quasi presago, ch’ ivi il Dio de’ fiori Giunger doveva, ad impetrare Amori. XXXVII Meraviglie dirò. Visto il sembiante Di Zeffiro, quei fiori in belle guise Ricolorirsi; e al lor’ aspetto amante Con bei spirti d’odor l’Aria sorrise; E con Cupido Venere festante Ad ischerzare, à vezzeggiar si mise, Sì che del Tosco mar sovra le sponde S’ammutirono i venti, e tacquer l’onde. XXXVIII Quando Zeffiro volto al Nume ardente Disse. O de l’alme eccelsa Genetrice, Creato in seno a l’acque Idol possente, De la Terra, e del Mondo alma Nodrice, Sotto l’imperio tuo sorge ridente Quanto di vago hà Giove, e di felice. E sol per tua cagion, de’ ghiacci in ira, Nascer dal sen del Verno il fior si mira. XXXIX Solo per te fù Cerere feconda, E produsse per te regia la Prole. Latona de’ suoi parti andò gioconda Madre a la Luna, e Genitrice al Sole. E Theti ancor sù la cerulea sponda Di figli riempì l’ondosa mole: Regnano i parti tuoi sù l’aureo trono, E i chori de gli Dei sono tuo dono. XXXX Anzi fin partorir fai questi campi, A cui diè nome il tumido Tirreno; E cento Ninfe nascer sù per gli ampi Regni de l’onde sue miri non meno. Hora steril per me tra ghiacchi avvampi, Ed infelice hà la mia Flora il seno; Provo ne’ parti miei fato infecondo, E nome più, che Nume, io sono al Mondo. XXXXI Io non offesi già l’altera Giuno, Che contra me, qual’ Hercole, s’adiri: Nè di Cinthia turbai già fonte alcuno, O’ à l’onde, aspersi di veleno, i giri. Nè già macchiar di Pallade inportuno Ardij gli honori, o i tumidi desiri Adeguai di Tifeo, ch’in campo d’ire A le Stelle inalzò monti d’ardire. XXXXII Pur’, ò Venere, amico a te le piante De’ cari mirti io vesto, e ‘l bosco adombro; E più de’ tuoi, che de’ miei beni, amante Sol di placido sonno il cor t’ingombro; E, quando Sirio in Cielo arde anhelante, L’arsa vampa del Sol da te disgombro, E vane son de gli Amoretti l’ale, Se non hai da’ miei vanni aura vitale. XXXXII Amore istesso, che tra ‘l foco acceso Del zoppo Dio s’avvolge, accorto anch’ ei, Che da le proprie piume è in van difeso, Hà sol per refrigerio i fiati miei. Tal’ hor sù ‘l colle, o sovra il pian disteso, Dopo haver riportato alti trofei, Languido giace, e sol da le mie piume Spera i sonni addolcir lo stanco Nume. XXXXIV Anzi se dopo il Verno, o Diva altera, Fai ritornar la Primavera a noi, E vaga dopo la stagion più fiera L’aria intorno addolcisci à gli Amor tuoi. Io non men, che mi sia di Primavera, Di te son nuntio, e quanto al mondo poi Mostri di bello, io presagisco à pieno, Di Venere, e d’Amor nuntio sereno. XXXXV E pur, come in me sian prove ribelle, Tu me di prole genitor non fai: Inutili per me giran le Stelle, Ed infecondi il Sol distende i rai: Ma, s’a’ tuoi cenni son mie brame ancelle, Propitia a’ voti miei mostrati homai, E chi fior ti produca, ed aure spiri, Di bei parti d’amor fertil si miri. XXXXVI Da gli oracoli tuoi, Venere, io pendo, Bramo risposta a’ voti miei seconda; E da le voci tue già spirto prendo, E spero amica del Tirren la sponda. Ch’ altro, che dolci note, io non attendo Da Diva, ch’ è d’ Amor Madre gioconda; Nè speme altra di pregio me si serra, Che fecondar de’ parti miei la terra. XXXXVII Venere a l’hor con un sorriso disse Volto à lui, ch’attendea gioconde note, Ciò, che il Tonante per tue gioie scrisse Ne’ gran volumi de l’eterne rote; E ciò, che servo di quei cenni fisse Là fra le Stelle il Fato, à me non puote Esser sì noto, ch’ à te chiaro sveli I gran decreti de gli occulti Cieli. XXXXVIII A me la cura di rotare è dato, E tra Pianeti annoverarmi anch’io. Ma chiare penetrar l’arti del Fato E’ pregio sol del fulminante Dio: Egli, ch’ impera sovra il Ciel Stellato, Move, e frena quei lumi à suo desio; E sono in terra di sua voglia ancelle Sovra gli alti Zaffir l’eterne Stelle. XXXXIX Così dunque gli Oracoli da lui Attender devi, ò Zeffiro amoroso, Che senza fallo à le proposte altrui Apre da l’alte rote il tempo ascoso. Ch’ io sol di rinfiammar gli spirti tui Vaglio a’ placidi scherzi, e sol gioso Hor tu provi per me con la Consorte Tra gli amplessi il tenor de la tua sorte. L Ma non fia vano, che tu volga il piede Ver me, Zeffiro amato, e sciolga il volo: Queste Colombe mie, ch’ entro la sede Amoreggiando temprano il lor duolo; E, dove in aria il mio desir richiede, M’alzan tal’ hora sù le nubi al Polo, Voce, ch’ a gli altrui voti il ver risona, Tra fatidiche Quercie hanno in Dodona. LI Ivi il Tonante da quei boschi scioglie Note, che sono altrui nuntie del vero, E con stupor de le spiranti foglie V’ hà la sicura Fè nido sincero. Ond’ ivi co ‘l tuo vol’ drizza le voglie, Ch’ egli d’ogni decreto è Padre altero; E l’eccelso destin fia chiaro al die Fra le sue Quercie, e le Colombe mie. LII A queste voci entro lo speco liete Le Colombe di Venere gioiro, E impatienti de la loro quiete Concepiron nel sen novo desiro; Nè più de le lor brame hebber per mete O gemito formare, o scior martìro: Ma co’ vezzosi augei garrir festanti, E di gemito in vece hebber’ i canti. LIII Quì Mergo non s’udìo snodare accento, E chiamar sovra il lido altre procelle: Nè presaghe di pena, e di tormento, L’Upupe errar sotto notturne stelle: Ma l’Alcioni in note di contento Liete invocar del Sol l’auree facelle; E de’ Cigni felici à l’armonia Sonar la spiaggia, e rimbombar la via. LIV L’Arno con le sue Ninfe in un seguaci Inver l’Etrusco mar volsero l’onde, E scotendo di perle urne vivaci, Fer de’ tesori lor ricche le sponde. Così scotendo l’amorose faci Là, dove ha ‘l Ciprio mar rive feconde, Seguon le Ninfe sù le conche in schiera L’innamorato Dio, ch’ a l’alme impera. LV Onde l’Etrura à la sembianza vaga Di Zeffiro, e di Flora anch’ essa è lieta, Di pace a quei ppiacer’ gode presaga, E ne’ diletti altrui l’animo accheta. E ben’ in Flora, e in Zeffiro s’appaga Il regno d’Arno; poi ch’ in lui, qual meta, (Cinto il crin d’odorifere corone) Zeffir’ con Flora la sua Reggia pone. LVI Tra così varij scherzi il Vento amico Inchinando colei, che l’alme frena, Move da l’antro, e sovra il lido aprìco Ver Flora indirizzando, il Ciel serena. Sì, che parte per lui Borea nimico, Ride tra fiori la campagna amena; E ‘l mar con l’aure, e ‘l campo con gli augelli Son di fausto gioir nuntij novelli. Il fine del primo Canto. Canto Secondo Argomento Sovra nube con Zeffiro gioconda Flora sen parte. Ad arrestarli intanto Van le Sirene; ma de’ Cigni al canto, Vinte moion’ infide in seno a l’onda. I Flora in herboso pian volta à la cura De begli horti Tirreni, ivi cogliea Con ma vie più di bianche nevi pura L’ardente fior de l’amorosa Dea. E vie più viva la spirante arsura Sotto le mani sue far si vedea; E d’insolito odor l’Aere intorno Diffonder vago, e innamorare il giorno. II E non meno de’ gigli anco gli avori Con gli alabastri de la mano prende, E di corona in guisa, onde gli odori Spargansi a l’alto Ciel, torti li rende: Ma de la destra sua prede maggiori Vedeansi le Peonie; onde s’accende Il campo di fin’ ostro e ‘l suo tesoro La ricca piaggia non invidia à l’oro. III Amica la Viola ancor vi coglie, Che de’ pallidi Amandti il volto imìta. Il Tulipan, che con gemmanti spoglie De’ bei tesori le richezze addìta: Il Gelsomin, che de l’argento accoglie Entro gli argenti suoi l’età gradita. E prede son de la fiorita mano Ciò, che ‘l Messico odora, e ‘l Peruano. IV E dicea. Deh che val cangiar di Cielo, E del Metauro haver lasciati i campi, Se splende à me da lo Stellato velo L’infausto Ciel con infecondi lampi? E Sol ne gli horti, sù ‘l materno stelo Son de’ miei vanti honor superbi, ed ampi Mirar con vane pompe dilettose Nascer’ i gigli, e germogliar le rose? V Ma perche sono vagamente al mondo I parti miei di vive gemme ornati, E mentre il Cielo folgora infecondo, D’odorate ricchezze ingemmo i prati, E rendo a l’Alba, ed a gli Dei fecondo L’horto immortal de’ regni bei stellati, Se prego unqua di merto al Cielo ascese, Io spero Cielo a’ voti miei cortese. VI Quanto l’alato Zeffiro se n’ giunge A lei messaggio de la Dea d’Amorel E come alto desire il cor gli punge, Sì ratto à lei spiegò gli accenti fuore. E disse. Ogni aspro duol da noi sia lunge, Poich’ è lieto piacer scorta a buon cuore. Vidi l’antro di Venere; e da lei Hebbi saggia risposta a’ desir miei. VII Ella, ch’è figlia del sovran Tonante, A cui son chiari i più riposti arcani, Ama, che sol dal Nume fulminante La fé s’attenda de’ destin sovrani; Onde per suo consiglio inver Levante Forza è, ch’ i passi indirizziam lontani; Ed amici in Dodona a’ nostri affetti Tra Quercie, e tra Colombe udiamo i detti. VIII La bella Citherea propitio affetto Promesso a’ nostri voti ella hà clemente. Onde in noi può di gioia empirsi il petto, E l’alma tranquillarsi in noi ridente. Ch’ ella di Giove è figlia, ed à l’aspetto Di lei se n’ fugge ogni pensier dolente. Ove sien giunti in un Venere, e Giove Gioia si sparge, e contentezza piove, IX Di Dodona le Quercie a te fian care, Se spesso in sù ‘l Metauro ombra ti furo. Al suono de la Dea placossi il Mare, Fiorì la Terra, ed hor’ il Cielo è puro. Ciò, ch’ a le luci di presagio appare E’ nostro invito; e già nel cor figuro Udir tal suono, ch’ in risposte liete I sembianti tranquilli, e l’alme acchete. X Con me, Flora, convienti a la gran via Prepararti bramosa, e sciorre i voti, Che deve a l’alto Nume anima pia; E sacrare al gran Padre i cor devoti: Fra Toschi più dimora hor non si fia, Drizziamo in altri lidi à noi remoti. Tra Quercie care, e tra Colombi amati Giove, e Venere amici habbin’ i fati. XI Al nominar de le sue Quercie Flora, Ov’ ella à l’ombra riposar si suole, Gli spiriti rinfranca, e ‘l sen ristora, Nè brame nel cor lieto altre più vuole. Sdegna ne’ campi suoi far più dimora, Fatta antiosa di novella Prole; E tra le Quercie di Dodona altera Facile a’ voti suoi Giove ne spera. XII Zeffiro al bel piacer de l’alma Dea, Che già si scorge al gran viaggio accinta, Soave pace in se d’amore havea, E d’alte gioie la sembianza tinta. Con riflessi di sguardi si scorgea L’allegrezza fra lor starsi indistinta. L’uno ne l’altra scintillava, e fuori Non meno dei desiri ardean gli amori. XIII E già dal mare se n’ tornava a noi Nuntia del Sol la rugiadosa Aurora, E di se colorando i prati Eoi, Rassomigliava in Ciel novella Flora. Ond’ à lo scintillar de’ lampi suoi Quà il Rio s’imperla, e là ‘l Mone s’indora; E ciò, che ‘l Mondo in se chiuder si mira, Gioia nudre, ardor move, e vita spira. XIV Oltre l’usato, sù nel Ciel sereno Giove stendeva il manto suo lucente; Euro non si scotea, ch’ a l’aria il seno Vaglia con l’ale sue fender nocente; Taccion le frondi dentro il bosco ameno, E mormorìo soave ha ‘l Rio corrente: Di vivaci rubini il Dì scintilla, E Giuno senza nubi il Ciel tranquilla. XV Del Tosco regno il sen varcano i Numi, Hor’ i colli passando, ed hor’ i piani; Si coronan di Gigli intorno i Dumi, E riveston le Rose ostri sovrani. Perle da l’urne lor versan’ i Fiumi, E modi v’ hà la Gioia alteri, e strani: E le Città, dove i lor piè drizzaro, D’oro, e di gemme i Regij sogli ornaro. XVI Sì nel varcar del Nume trionfante, Che de le viti hà dilettevol cura, Gioir colà nel florido Levante Si vide l’odorifera pianura: Di novelle vaghezze il suo sembiante Adornò preziosa la Natura; E per far ricca mostra in gemme espresso Tutti i tesor vi sparse il Cielo istesso. XVII Riconoscon gli Amanti in più di un lato L’Arno, che per quei campi s’attraversa, Ov’ Era, ed Elfa corre; e ‘n più d’un prato Arbia il tesor de le sue linfe versa; E quanto bagna à breve tratto nato L’Ombrone, che la via nel mar conversa, (Abbandonando il letto suo nativo) Del corso in breve, de la vita è privo. XVIII Giungono al fin, dove il Tirreno abonda D’argentee spume, e d’humidi Zaffiri; Ed havvi porto, ch’ in ricurva sponda Imprigiona de l’acque i vasti giri. Placida starsi, e senze crespe l’onda In seno tranquillissimo vi miri; E l’ancore riposte, e avvolto il lino Non aleggiano i remi, e posa il pino. XIX Quivi Zeffiro, e Flora il piè ritenne, E frenò ‘l tratto de la lunga via. Raccolse in se le volatrici penne, E pose in opra ciò, ch’ il Ciel desia. Da le miniere più pregiate ottenne, Ove stassi l’argento, l’or vi sia, Purissime le nebbie; e in un da’ prati Trasse vapor di nuvoli odorati. XX Anco da’ fiori più pregiati ei trasse Sottilissimi humor, perche più lieve La pretiosa nuvola formasse, Onde gir sovra l’aria à volo deve. La nube à quei vapor, lucida fasse, E nel sen puro il guardo altrui riceve, E par’ aria, ed è nube; ed è si mista, Ch’ in un vi si confonde anco la vista. XXI Dal seno spande chiari lampi intorno, E par, che lo splendor’ ivi s’annidi: Al balenare di quel raggio adorno Vaghi scintillan ripercossi i lidil E sembrano, ch’ il Sol da quel soggiorno A noi rinato il dì novello guidi; Se non, ch’aure spargendo d’odor care, Può la nube del Sole anco avanzare. XXII Del Porto à vista, che sù ‘l lido è posto, Poggian sovra la nube i Numi amanti, Erran con plauso di chi mira; e tosto S’erge la nube a l’altrui luce inanti. Ma pur non cela il suo tesor nascosto, C’ hà di sembianza luminosa i vanti. E la sede, ch’ a lor ne l’aria porge, Tanto più chiara appar, quanto più sorge. XXIII Se n’ varcan lieti; e veggion sovra l’onda Là scogli contra il Cielo armar la fronte, E quà vie più d’ un’ Isola feconda Verdeggiante sù ‘l dorso haver’ un monte. Co’l pondo ivi Città gravar la sponda, Quivi sgorgare in mar vie più d’ un fonte; E con ondosi, rapidi volumi Varij in sen del Tirren correr’ i Fiumi. XXIV Passan sù l’aria il mar’ Etrusco à volo, E miran poi, dove il gran Latio impera, E rinchiude Cittadi in ampio soulo, Che di gran Reggia hanno sembianza altera. Con l’ampia mole lor s’ergono al Polo, E con lor’ ombre adombran l’alta sfera, E non men, che Città ne’ campi sui, Rassembrano Provincie a gli occhi altrui. XXV E dicevan gli Amanti. A questa parte Quanti, deh quanti popoli rivolti Vedransi paventar l’armi di Marte, E in lacci andran di servitude avvolti. Gli habiti augusti lor posti in disparte, Ed à la libertà fin’ i Re tolti, Dal Latio astrtti in sanguinosa guerra Riveriran la Reggia de la Terra. XXVI Tributo il Mondo fia del chiaro impero; Servo il Partho fra nodi andrà non meno; Incatenato fia l’Arabo arciero, E ‘l carro seguirà vinto l’Armeno: Gli Afri in se scossi dal lor fasto altero, Del giogo soffriranno il grave freno; E l’Egitto obliando opre, e costumi, Nel Latio inchinerà più degni Numi. XXVII Anco il Britanno indomito, e feroce Accrescer deve il numero a’ trofei; Il Batavo, ch’ in guerra hà spirto atroce, Adorerà l’Imperio de gli Dei. Verran del Tebro à l’honorata foce Gli habitanti de’ gelidi Rifei. E tra ‘l rigore placidi, e graditi Dal Latio apprenderà la Scithia i riti. XXVIII Fin’ i mari deposti i loro orgogli, E raffrenati i flutti, e gli odij loro; Per li trofei del Tebro i duri scogli Ravvolgeran di trionfante alloro: Il mar’ Egeo da’ suoi cerulei sogli E ‘l Caspio manderà servil tesoro; E di Cipro la sponda; e l’Oceano Sarà trofeo del vincitor Romano. XXIX Vedeansi in tanto sù per l’onde amare Solcare i flutti veleggianti i pini; E, quasi ombrando il Sol, nel vasto mare Spandersi à l’aura numerosi lini, Sì che liete in mirar l’Anime care Predicevano à se dolci i destini; E ne la nube con gentil maniere Colmavano il lor sen d’alto piacere. XXX Scogevan poscia, ove del Sol la Maga Prole in belve cangiava i corpi humani; E d’offuscar la ragion nostra vaga Godea Mostri mirar sù ‘l lido insani. Ma, perche il Ciel de la virtù s’appaga, Fur contra Ulisse gli artificij vani; Ed al canto per lui le voci sparte Fù vil di Circe incantatrice l’arte. XXXI Vider poi, dove Enea sopra pendic D’alte rupi honorò di nobil tomba La gravosa d’età cara Nudrice, Sì che la fama ancor chiara rimbomba. E ‘l luogo rimirar, per cui felice Di Virgilio rammentasi la tromba, Mentre chiaro à noi fe di Palinuro Al suono de la Fama il fato oscuro. XXXII Indi si scorge, ove in gran tomba giace Di Partenope bella il corpo algente, Ed ogni lingua sol per lei loquace Nel sen de l’onde rimbombar si sente: Il mar sonante, che per lei non tace, Hà ne le lodi sue flutto eloquente; E da quell’ urna escon del giorno a’ regni Mille Fenici d’immortali ingegni. XXXIII Giungono intanto, dove in secche arene Di beltà micidiale horridi mostri, Albergano vaghissime Sirene, Piacere infausto di quei salsi Chiostri. Per far difesa da nocenti pene, Non fia chi contra lor saldo si mostri, Che fin ne’ vezzi han flebili le sorti, E vincon, co’ lor canti anco i cor forti. XXXIV Di fetide ossa è ricoperto il lido, E per mille cadaveri è nocente, Ne le vaghezze acerbamente infido, Ove sin l’herba giacesi languente: Più, che ne l’Orco, alberga in questo nido La Parca, horror del Tartaro cocente; E ‘l Fato con la Morte ivi a tutt’ hore Adopra l’ira, e essercita il furore. XXXV Ergono le Sirene in alto i guardi, E mirano la nube errar volante; Ond’una con accenti a l’hor men tardi Si reca harpa sonora al petto inante, E saettando, quai veloci dardi, Note, che di piacer fin l’aria errante A quel suono arrestaro; e i proprij venti Languiro imprigionati à quelli accenti. XXXVI Ove, Zeffiro, il volo amico stendi, Ove, Flora, t’aggiri, alma vezzosa? Sù l’aria variabile à che prendi Strada, ò leggiadra Coppia, altrui dubbiosa? Ah più facil ti fia, se ‘l vero intendi, Dimora trarre in sù ‘l terren gioiosa. E ‘n letto d’herbe tra lo scherzo, e ‘l gioco Temprar del seno inamorato il foco. XXXVII E chi non fia, ch’ à musica dolcezza Non ami essercitar gli atti d’amore? E, s’arde il core a la gentil bellezza, Non gli sien refrigerio aure canore? Sù ‘l campo con soave placidezza Scherzano l’aure, ed amoreggia il fiore; Mà tra concenti di ruscel sonoro Han le lor contentezze, e gli amor loro. XXXVIII Non pria ritorna Primavera à noi, E coloriti ne ridona i prati; E, vezzeggiando con gli amori suoi, I poggi rende di sue gemme ornati, Se tu, vago Usigniol, co’ canti tuoi Non habbia i regni del seren purgati, E teco Progne dolcemente snodi Musice tempre, e dilettosi modi. XXXIX Venere presso il mare hà sede eletta, E de l’impero suo stende il confine; Perche, se ‘l Figlio à dolce ardor l’alletta, E le spira d’amor vampe divine, Al mormorio de’ mari si diletta De le sue cure rintuzzar le spine, Spiriti nudre d’ardor vago accensi E desta al suon soavemente i sensi. XXXX Anzi Giove, ch’il tutto in Cielo frena, Se con Giuno tal’ hor dimorar suole, E ne la region di Stelle amena Essercitar d’amor le gioie vuole; Non meno tra diletti alma hà serena, Ch’ in udir l’armonia de l’alta mole; Gode, in Ciel, di Giunon l’amato ardore, E l’armonia de’ Cieli, è suon d’Amore. XXXXI Sì dicea la Sirena, e già già Flora A quegli accenti intenerir si vede, E, in rai d’amore scintillando fuora, Già già calava da l’aerea sede. Se non ch’ in tanto con piacevol’ ora I campi del seren Zeffiro fiede; Dibatte l’ale, che di rose pinge, E l’aria de’ suoi fiati intorno cinge. XXXXII Soavemente spandesi gradito L’alto susurro de l’amabil Vento; E come entro giardin di fior vestito Tacito l’odor gira in un momento; Così lo spirto suo sù ‘l mar, sù ‘l lito Erra tacitamente; e per contento A lo spirar di Zeffiro si mira, Ch’ ivi di Cigni stuol canoro gira. XXXXIII Quanti il Caistro suol da’ lidi suoi Esporre à l’aure placide d’Aprile, E quanti d’Asia la palude à noi Ne diè di vago armonioso stile; Quanti, o Meandro, ne’ gran giri tuoi Dolce n’alletti, e non ti prendi à vile Tardar’ i flutti, per udire il suono; Da Zeffiro quì tratti à gara sono. XXXXIV Snodan’ al suon di Zeffiro festanti I Cigni armoniosi accenti lieti, Sì che gentil ne’ regni suoi spumanti A sì dolce armonia temprasi Theti: Maggior non ohebbe del sereno i vanti L’Aria nel sen de’ campi suoi quieti; E l’Aura a’ Cigni dilettosi intenta Rai di gioia dal volto anch’essa avventa. XXXXV De’ Cigni a l’armonia l’altro, ch’ in Cielo Splende ne’ campi de l’eterne Stelle, Odesi a gara sù ‘l gemmato velo Formar d’alta armonia tempre novelle. Sfavillava di gioia il Dio di Delo, E sembianze mostrava altrui più belle; E con unite melodie fra tanto Eran la Terra, e ‘l Cielo emuli al canto. XXXXVI Le Sirene à quel suon restan confuse, E attonite di lor taccion dolenti, Ch’ i Cigni, e ‘l Ciel le più canore muse Vincer potean di tempre, e di concenti. Nè qual’hor’ entro il suol Giove rinchiuse I Giganti, Amor diè si lieti accenti; O’ Venere a’ trofei del forte Enea, Come Natura al suon lieta godea. XXXXVII Disperse l’Empie i lor canori legni Franser ne’ sassi de l’incolta sponda; Di Zeffiro, e di Flora i vanti degni Detestando s’immersero ne l’onda; E come il fallo la vergogna insegni, Abborriscon del dì l’aura gioconda; Giacquero in mare, e de’ lor vani orgogli Furon teatro, e spettator’ gli scogli. XXXXVIII Cadeste, o Fere, che tra noi l’imago De la beltade rassembrar potete, Poiche, qual voi, l’aspetto anch’ essa hà vago, Ma mostro, è formidabile di Lete. Il dolce è de l’amaro in voi presago, La Vita somigliante, e Morte sete; E non men la Beltà gioia è mentita, E horror di morte hà nel fiorir di vita. XXXXIX Ne l’affondar de le Sirene infeste Sì la sponda del Mar da’ flutti è scossa, Che per timore in quelle parti, e in queste De’ Morti s’agitar pallide l’ossa: L’arene sotto il pondo lor funeste Tumultuaro in aria; e la percossa Rassembrò terremoto a l’ hor, ch’ il seno L’imprigionato Cauro apre al terreno. L Le serpi, ch’ ivi s’avvolgevan voraci Di sugger de’ cadaveri hor’ il sangue, Ed hora le midolla, a l’hor fugaci S’appiattano; e la fame in loro langue: Altri mostri frà lor non men rapaci Sbigottiti s’inselvano; ed essangue Ivi mirossi la sembianza pura In aspetto d’horror cangiar Natura. LI Ma la Nube, ch’ in alto errar si mira, Al dipartir di lor più chiara splende; Tal, dove di caligini s’aggira Globo, ch’ oscuro al Cielo il volto rende; Se ne’ campi de l’aria il vento spira, E l’ale infaticabili vi stende, Puro il dì torna; e sù l’eccelsa mole Di rai più fini s’incorona il Sole. LII Flora intanto con Zeffiro scherzando Dal periglio se n’ gia salva, e festante; Ogni cura più grave hà posto in bando, E sol de’ suoi piacer pinto hà ‘l sembiante. Nè men Zeffiro anch’ ei l’aria solcando, Se n’ gia gradito, e baldanzoso amante. E d’amore avvempando, e di gioire De le Sirene deridea l’ardire. LIII Vittoriosi raddoppiaro i Cigni A quella gioia i canti lor graditi;; Sprezzando i Fati rigidi, e maligni Fer lieti al suono rimbombare i liti. De le sponde i confin non più sanguigni Serban memoria, che la strage additi; Ma di Zaffiri il mar forme hà più vive, E di fiori per Flora orna le rive. Il fine del secondo Canto. Canto Terzo Argomentno. Giungon gli amati, ov’ è Sicilia; e accolti Da la bella Aretusa odon gli amori D’Alfeo seguace; e poi con fausti honori Se n’ parton lieti à la lor via rivolti. I Lieta è de’ vaghi Dei l’interna mente; E ne dà grata mostra, e dolce avviso L’occhio sereno, e ‘l volto risplendente, Il caro sguardo, ed il soave riso. Così del Sole à lo splendor lucente La nube, che spandea torbido il viso, Da se scacciando l’horror tetro, e folto Di contentezza colorisce il volto. II Van rimirando da l’aerea sede Scherzar con squamme notator pennuti, E (come del seren la gioia chiede) Forma lubriche danze i popol muti. Fatto messaggio d’amichevol fede, Non hà ‘l placido mar flutti canuti; E senza crespe l’acqua, e senza grido In se se n’ giace, e non si frange al lido. III Miran da’ vari lati in foggie belle Sorger Cittadi con turrite fronti, Ed Isole nel sen de l’onde ancelle Haver vaghe, e dolcissime le fonti; Ed altrove inalzar verso le Stelle Concavi scogli minacciosi monti; E varij fiumi con l’ondose some Perdere in seno al mar l’antico nome. IV Dicevan’. O’ di Giove alta possanza, E di gran Padre incomprensibil forza, Ch’ in tante guise al mar varia sembianza, Ed hora molce l’onde, hor le rinforza. I venti chiama da l’Eolia stanza, Ed hor gl’ impeti accresce, ed hor gli ammorza; E s’ è stabil’ altrove, in seno a’ mari Sempre ne’ proprij errori hà moti vari. V Sì, ch’ ivi la Natura hà ‘l sen vivace, E quanto più ne’ scherzi ivi s’aggira, Men’ abbattuta in sen’ a gli ozij giace, E ne le scosse nudrimento spira; Ch’onda si more, che riposa in pace, E sol la sua virtù prende da l’ira; Riposo haver ne’ campi suoi si sdegna, E pur ne’ moti suoi di prole è degna. VI Non v’è popolo in terra sì frequente, O volgo l’Aria crea si numeroso, Come feconda è l’acqua, e ‘l Mar fremente Empie di pesci il regno procelloso; Non v’è lido, ò v’è scoglio, ove sovente La prole non germogli; e’l sen spumoso Non men di pesci fertile, che d’onde, Esserciti animati hà tra le sponde. VII Chi puote numerare de l’Egeo Gli squammosi drappelli, e quanti in seno N’ hà l’Ocean’ co’ flutti horridi, e reo, E quai nudre l’amabile Tirreno. Sà, quante fiamme hà ‘l foco, e ‘l Pireneo Hà foglie ne’ suoi boschi; e noto à pieno Gl’ è de l’arene il numero infinito In mal feconda piaggia, ò in secco lito. VIII Nudre il Cavallo, ed il Leon la Terra, Ed è de’ parti suoi Madre feconda, Ed i Cavalli, ed i Leon riserra Non meno il mar ne la sua fertil sponda, La Rondine ne l’aria, e ‘l Turbin v’erra, E ‘l Turbine, e la Rondine anco hà l’onda; E, se nel Cielo son le Stelle, in mare Anco la Stella natatrice appare. IX Già lungo tratto d’aria havea varcato L’un Nume, e l’altro sù la nube amica, Godean del loro amore otio beato, E sprezzavan di Sorte aura nemica; E contra l’odio perfido del Fato Ratti solcavan l’aria, ove fatica Il mar de la Trinacria in stretto seno A dilatar de le sue furie il freno. X De l’Isola Trinacria in sù la spiaggia, Scorgon non lunge dilettevol loco, Ove scherza non grave, e non selvaggia Aura, che d’ivi errar prendesi à gioco. Il Sol la terra vagamente irraggia, L’herba hà vita ridente, e non v’è roco Ne l’onda il mormorio, ma dolce suona, E sol d’amori il flutto suo ragiona. XI Vedeasi il Prato di leggiadri fiori Vestir’ il seno, e tempestare il manto; E con nuvole fertili d’odori In se de la Sabea portare il vanto. Mille s’odon con numeri sonori Scioglier’ augelli dilettoso canto; E ciò, che sparse la Natura altrove, Ivi unite di pregi hà le sue prove. XII Da quell’ inviti persuaso il Nume De gli amorosi fiati, e de’ fioretti, Arresta in aria l’odorate piume, E à vista sì gentil cangia gli affetti. Ivi drizzano il volo, ove da brume, O da’ rai, che ne’ campi il Sol saetti, L’ameno loco non è punto scosso. Ma d’herbe hà ‘l seno, ed hà di fiori il dosso. XIII Cala la Nube, e sù la terra posa La coppia felicissima d’amore; Stiman gli Amanti, ch’ in quel piano ascosa Vi sia la gioia d’ogni humano core; E che l’acqua di perle pretiosa, Che ‘l campo irriga con lucente humore, Quasi in superbo cristallino velo Accolga vaghe Deità del Cielo. XIV Quand’ ecco dal bell’antro esce a la luce Ninfa, che di vaghezze hà vanto altero, Aretusa si noma, in cui riluce Lo splendor tutto de l’alato Arciero; E ciò, che di beltà Venere adduce, Ella raccoglie, ed hà de’ cor l’impero. Sì, ch’ ò doppia Diana, ò pur sol’ una Maggiore di Diana il campo aduna. XV Hà d’oro il crine, che sù ‘l capo splende, E sventolar sù gli homeri si vede; Di vivace Zaffir l’occhio s’accende, Ed a la fronte l’alabastro cede. Misti à rose la gota i gigli rende, Il labro i pregi de’ rubini eccede; E sono in guise nobili à vederle I puri denti orientali perle. XVI Succinta veste al fianco ella raccoglie, Mostra dal mezo in giù nude le braccia, Hà di perle il suo sen gravi le spoglie, E nodo di diamanti il petto allaccia. Di ceruleo color velo discioglie, Che dal capo l’ondeggia; e puote in traccia (Così leggiero hà ‘l piè) vincere il vento, E sono i suoi cothurni opre d’argento. XVII A l’apparir di Zeffiro, e di Flora Aretusa, che Ninfa era del fonte, Di vaghe gioie il volto suo colora, E mostra di seren pinta la fronte. Spirar contento i Dei dal ciglio fuora, E s’appressaro al dilettoso monte; Fassi a gli sguardi lor l’acqua lucente, E mormorio d’amor formar si sente. XVIII Dicono i Numi. Sotto il raggio estivo Deh concedine, ò bella, albergo amato, Nè di raccorre i Numi à te sia schivo, A cui le Stelle dier tranquillo fato. Le noie de la via temprare al rivo, Che bagna questo verdeggiante prato, Lasciane, ò Ninfa; così verde il suolo Sempre à te dia l’innamorato Polo. XIX Disse Aretusa a l’ hor. La Fonte mia Albergo dar non può già mai più degno, Mentre accoglie chi fiori al prato dia, E sereni co ‘l vol l’aereo regno. S’eccelso honore in terra si desia, Hor sia il mio tetto a’ vostri passi il segno. Amo tra Dei passar serene l’hore, E frà scherzi goder gli otij d’Amore. XX Ma Flora dice à lei. Come amoroso Ver noi quì puote, o Ninga, esser’ il petto; Se sola vivi in questo prato herboso, Nè compagnia ti desta à dolce affetto. Mal s’aita pensiero dilettoso, Se non li corrisponde amico ogetto; Ch’ Amor’ altro non è, ch’ innesto vago, Onde di viver l’un ne l’altro è pago. XXI Dicean’. E già ne l’antro erano giunti, Ov’ ha ‘l ricovro suo la bella Diva. V’han conche, e perle i lor tesor congiunti, E vie più d’una gemma ivi appariva. Non hà da l’Arte quì pregi disgiunti Natura; anzi tra lor miste più viva Vi rendon’ ogni forma, ed ogni instinto; Ed è del vero più vivace il finto. XXII Miravansi con ordine partite (Alternando fra lor scherzi, e diletti) Imagini spirar vaghe, e gradite Anhelanti d’amor, gravi d’affetti; Boscaglie intorno di folte ombre ordite Erger’ in sen de’ campi ombrosi tetti; E in mille lati à le fugaci belve Porger ricovro solitarie selve. XXIII Là vedeasi una Lepre, e quivi un cane Correr’ il piano di fiorito prato, E quà fuggendo da scoverte tane Sovra il monte poggiar Cighiale irato. Quivi con voci risonar non vane Stuolo di Cacciator di dardi armato; E quindi fuori di nascosto speco Risonar, rimbombar la valle, e l’Eco. XXIV Altrove sù quei muri in seno a l’onde Vedeasi espressa nobil Natatrice, Ch’ a lo splendor de’ lumi suoi gioconde Fea l’acque, di beltà viva Fenice. Hora da l’alto sen volta a le sponde Scorgeasi il nuoto indirizzar felice, E Nume amante d’acqua, in preda a’ venti, A lei scioglieva innamorati accenti. XXV Il tutto riempia de le sue note, E inteneriva a’ suoi lamenti i sassi. Ma l’Amante doglioso in vani si scote, Ch’ambo in acque rivolgon’ i lor passi. Sciogliesi ogn’ alma in onde; e al guardo ignote Fuggon le fiamme, e ‘l foco occulto stassi. Quand’ ecco i corpi altrove escon erranti; E, benche volti in acque, ardono amanti. XXVI Onde Flora à la Dea rivolta chiede: E quali meraviglie hor quivi impresse Sù i muri veggio? e sovra ogni gran fede Nuove forme à tai corpi il Ciel concesse? Un sospiro dal sen la Ninfa diede, Sì che ‘l dolor nel volto suo si lesse. Indi à narrar l’historia sua si volse, E misto di cordogli il canto sciolse. XXVII Io l’arte già seguij di Cinthia imbelle, E lieve tra le valli, e tra le selve Le fere nel fuggir tracciai più snelle, Nè sdegnai d’incontrar robuste belve. E vincitrice in queste parti, e ‘n quelle Mostro non era, che tra noi s’inselve, Che non cadesse sanguinoso al piano Al fermo saettar de la mia mano. XXVIII À più d’ un crudo Alano il duro morso Io solea sciorre per gli aperti campi, E per me più d’un Veltro al lieve corso Adeguava in fin gl’ impeti de’ lampi. I molossi scorrean de’ monti il dorso, Nè v’era belva, che trovasse scampi; Poi ch’ à l’aperto da’ miei cani spinta Era in un punto sol giunta, ed estinta. XXIX Più d’una volta à Cinthia sù l’altare Hora d’un Cervo sospendea le spoglie, E l’hostie, i simulacri, i tempij, e l’are Incoronai di trionfanti foglie. Ma con sembianze oltre ogni stima rare Io più gradij de l’honestà le voglie; S’ ad altre la beltà diè vanti egregi, Io di pudico sen vantava i pregi. XXX In Achaia, ove nacqui, errar godea, E un dì fuggendo de l’ardente Dio Il caldo raggio, verso un fiume havea Rivolto, per lavarmi, il passo mio. E giuntavi, le membra ivi tergea; Nè d’haver altro speglio hebbi desio, Poich’ in quell’acque compariva à pieno Candido il petto, e alabastrino il seno. XXXI Hor con la dritta man l’onde percoto, Ed hor l’homero manco al lancio hò volto; Quì con ambe le mani il flutto scoto, Là co’l corpo ne l’acque inalzò il volto; Ed hor cangiando gli ordini del nuoto, Ho ‘l petto steso, ed hora il sen raccolto. E, rivolgendo inverso il Cielo il lume, Mi lascio in preda al violento fiume. XXXII Così tal’ hora Salmace si scorse Fender le linfe notatrice snella; Ne l’acque hor s’arrestava, ed hor le corse, E ne’ suoi moti oprava arte novella; Quì si stendea ne l’onde, e là si torse, Hora dal crin, qual matutina Stella, Disciolto in perle ricco humor piovea, Ed hor tra flutti Sol d’Amor parea. XXXIII Quand’ ecco fuor de l’acque il Dio del fiume Venne con mormorio tacito, e roco. Alfeo si noma di quell’ onde il Nume, E vide me, che scorrea l’acque à gioco, Pria s’arresta, e poi fissa in me ‘l suo lume, E ‘n mezzo a l’acque concepisce il foco. Arde, nè de l’ardore intende i modi, Ed occulte d’Amor prova le frodi. XXXIV A tal vista la fuga in ver la sponda Rapidamente sù per l’acque io prendo, Quand’ Egli disse. A che fuggir da l’onda, S’anco tra l’onda del tuo amor m’accendo? Deh, bella, il nuoto arresta; e quì gioconda Habbi la stanza, che d’amarti intendo: Non son Nume di sdegni, e dolci l’acque Mostran, ch’ anco in me dolce il senso nacque. XXXV L’amore, e ‘l priego dal mio sen bandij E del seguace Alfeo schivai la traccia; Inver la riva rapida fuggij, Ma già già mi prendea ne le sue braccia, Lieve mi segue; e mille lodi udij, C’ hor del mio sen faceva, hor de la faccia; Hora lodava il piè; ma si dolea, Che cruda ver lui fusse opra di Dea. XXXVI Varco per pruni, e non vi trovo agguato, Che la fuga difenda, e l’honestade: Scioglio pregherai al Cielo, e non m’è dato, Che sien le mie preghiere al Cielo grate. Lacero hò fin’ il petto, e in ogni lato Provo mille nel corpo offese ingrate; E dal piè, ch’ in fuggir stanco già langue, Spando nel campo più d’ un rio di sangue. XXXVII Ma punto dal suo corso Alfeo non manca, Poiche la fuga in me beltade accresce; Che la parte, ch’ in me le membra imbianca, Nel faticar s’accende, e rossor mesce. Onde homai già languia misera, e stanca, E già dal sen lo spirto mio sen’ esce: Quando’ ecco giungo in riva al mar, che fiede Le sponde, ov’ erge Pisa altera sede. XXXVIII Pisa, da cui la vostra Pisa hà preso Ne’ campi de l’Etruria il nome chiaro, Sì, che per tal membranza hò ‘l seno acceso Per voi d’amore, e ‘l venir vostro hò caro. E chi fra Toschi hà ‘l regno suo disteso, Hò sempre amato. In riva al flutto amaro Poi mi volsi de’ boschi a la gran Dea, E note d’honestà ver lei sciogliea. XXXIX Dissi. Intatto l’honore in me conserva, Salva, chi ‘l suono à te supplice snoda; E scacciar da me lunge alma proterva, Sia de’ gran vanti tuoi primiera loda. Chi Cinthia segue, e l’arti di Minerva Deh non provi per te d’Amor la froda; Perche nuda non hò, donde salvarme, Le difese del Cielo à me sien’ arme. XXXX Sottraggi il corpo del seguace Alfeo, E sien mia libertà pompe d’honore. A questo suon da l’alto Ciel cadeo Nube, c’ hà forma in se d’aspro terrore; Sì ch’ il vedermi l’Amator perdeo, Ed arrestossi con dubbioso core: Cerca, e nulla distingue; e non vi scorge Se non la nube, ch’ atro horror gli porge. XXXXI Così da veltro rapido seguita Corre la lepre per l’aperto campo, E per balze, e per monti erra smarrita, E scontra più d’un periglioso inciampo. Sin che tra macchie celasi; e sparita Fugge dal guardo, qual veloce lampo. Stupido è ‘l veltro, e di se dubbio stassi, Cerca chi fugge, e ‘n se ritorce i passi. XXXXII Io dentro quella nube al Ciel le voglie Rivolgo ogn’ hor più fervide, e cocenti, Sì ch’ à quel suon lo spirto mio si scioglie, E stempransi le membra in rio languenti: Indi la nube in aria si raccoglie, E lieve si disperde à par de’ venti. E pur ne l’onde amate ei mi ravvisa, E co’ sospiri in me li sguardi affisa. XXXXIII E tai note distinse. Acqua è ‘l mio foco, E pur’ avampo al fluttuar de l’acque. L’onda gli ardori miei prendesi à gioco, Che la Dea de gli ardori anco in mar nacque. Ah c’ hà l’humor del pianto in me già loco, S’ella volta in humori hor’ hor quì giacque; E mentre il foco mio ne l’onde sdegna, Con le sue stille à lagrimar m’ insegna. XXXXIV Ma deh, che ‘l foco tra l’humor s’avviva, Che ‘l ferro è tra le Stille anco più ardente. Anzi già l’alma mia d’ardore è priva, Ed hò lo spirto per dolori algente: E à par di questo rivo fuggitiva Stemprasi la mia vita in rio corrente. Vuol ragion, che mi volga in stille anch’io, E sia d’un rivo innamorato un rio. XXXXV A queste note Alfeo stemprasi in onda, E di seguir’ agogna il corso mio. Mà Cinthia con un’ hasta apre la sponda, E mi salva dal perfido desio. Entro in sen de la terra più profonda, Schiva mi celo in sotterraneo rio; E tra l’arene a l’importuno Amante Nascondo con gli amori anco il sembiante. XXXXVI Vò sotto il mare, e da l’Achivo suolo Timorosa men’ corro ad altra terra, E quì me n’ giungo, e sotto amico Polo Dal mar salvo il mio fonte si disserra. Ma l’altro, che nel sen nudre gran duolo, Anch’ ei per altre vie corre sotterra, E benche volta in acqua ancora m’ ama, E co’l suo mormorio ogn’ hor mi chiama. XXXXVII Zeffiro, e Flora à queste ardenti note Compativa d’Alfeo gli amori intensi, E l’imagini a l’hora al guardo note Parver sù i muri intenerir’ i sensi. Quand’ ecco dolcemente il suol si scote, Ed ivi il Fiume sorge, in cui sospensi Affisa Flora i lumi; e legge fuori Spiranti in quelle luci anco gli amori. XXXXVIII A questi amori l’Aure stesse in alto Sospiraron più liete, e più festanti; Che vince Amore ogni più duro smalto, Ed ogni scoglio in mar perde a’ suoi vanti. E’ vano contra Amor forza d’assalto, Ch’ ei può scotere al piano anco i Giganti: Fà gelar la scintilla, ardere il gelo; Nè son di lui sicuri i Numi in Cielo. XXXXIX Alfeo, che Flora, e Zeffiro in quel tetto Raccolti mira, e la cagione intende, Ch’ ivi loro sospinge; hà gioia in petto, E piacer doppio à quei sembianti prende. Di contento comun l’antro è ricetto, E misto in ogni lato amor s’accende; E i pesci insieme, e gli augelletti à paro Ordiron danze, e melodie formaro. L Così l’antro di Dori a l’acque in riva, O lo speco di Theti in quello, e ‘n questo Lato, per inschivar la noia estiva, Di pietre miniate era contesto: E di fonti, e d’imagini appariva Superbamente altero; e à scherzi desto Quinci l’augello, e quindi il pesce ordìa Prove di danza, e gare d’armonia. LI Quando’ Alfeo, che predir suole ad altrui Del Ciel le meraviglie altere, e nuove, E disvelare ne gli accenti sui Gli arcani occulti del superno Giove, Disse. Non saran vani i preghi tui, Bella Coppia, à cui il Ciel sue gratie piove: A’ vostri voti ubidienti ancelle Saran nel servo Cielo anco le Stelle. LII Giove, che tra gli Olimpici certami, E tra quelle di Pisa à me ben noto Suole spesso mostrarsi, anco tra rami Di Dodona risponde ad ogni voto; Ed ivi secondar ciò, ch’ altri brami, Determina tal’ hora; in odio à Cloto Vostro Germe immortal da l’alto seggio Degno di sommo honor prometter veggio. LIII E, se ben forse contra voi la Sorte Avvenimenti volgerà molesti, E fia, ch’ a danno altrui superbo, e forte D’Etruria le grandezze il Fato infesti; Avverrà, che ‘l Periglio honor v’apporte, Ed il Contrasto a voi le glorie desti. E, come globo dal soverchio pondo, Scosso a le Stelle per voi s’alzi il Mondo. LIV Partiti, o Coppia generosa, e bella, E sù la nube tua vola sublime; Che ‘l Cielo à te con fortunata Stella Del bel parto darà le glorie prime, Così ‘l mio Giove l’immortal favella Da Dodona ti snoda; e da le cime De le sue Quercie a te, Flora vezzosa, Predice d’alti Heroi serie famosa. LV Zeffiro, Flora, ed Aretusa al detto Applauser dolcemente; e ‘l Ciel cortese Mostrò sì vago, e luminoso aspetto, Che sù la nube sua la Coppia ascese. E vaga di felici augurij, il petto A’ novi honori, à nove glorie accese. Sparver’ i Numi; e Alfeo de l’arso core Con Aretusa sua temprò l’ardore. Il fine del Terzo Canto. Canto Quarto Argomento Gli Dei van di Corcìra a l’erme spiagge; E perch’ Alcinoo pretiosa mensa A’ Toschi Numi prodigo dispensa, Il Suol da loro amenità ritragge. I Sovra la nube da’ terresti piani Poggian’ i Numi, e con soavi detti D’Aretusa, e d’Alfeo (ne’ regni vani) Van rammentando i dilettosi affetti; Ond’ à quel foco gli Amator’ sovrani Fan di vampa maggior caldi i lor petti. Forman’ in queste note amico accento, E dolce al loro amor mormora il vento. II Ben di Vulcano, è Venere consorte, E sol da loro con effetti vari Per nostra cruda, lagrimevol sorte I natali d’Amor sono à noi chiari. Onde languendo ogn’ uno in preda à morte Di gemer più, che di godere, impari; E in ogni tempo l’alma, e in ogni loco O tema l’acqua, o pur paventi il foco. III E ben giunto à Vulcano Amor si vede; Poiche senza sperar tregua, nè pace, Nel seno, ov’ habbia Amor posta la sede, Nudrisce eterna, inestinguibil face: E se di mantenerne altri si crede, Ei di volgerne in cener si compiace. Ch’ ove chiara beltà gli sguardi volve, In fiamma ne converte, e cangia in polve. IV Mentre l’altrui beltà goder n’è dato, E sciogliersi in amabile dolcezza, Quant’ altri gode più l’ogetto amato, Più brama fiamme, e d’arder’ hà vaghezza. Sì che l’ardore da l’ardor rinato Vive ogn’ hora avvampando; e la bellezza Con novel sì, ma dilettevol gioco E’ Fenice d’Amor, ch’ alma hà dal foco. V Ma da Venere ancora è nato Amore; E, se Venere nacque in seno a’ flutti, E fù del crudo mar mostro maggiore, Con l’humor suo n’insegna à temer lutti; E così grave duol n’aggiunge al core, Che son gemiti, e lagrime i suoi frutti. E quante fiamme hà ‘l sen, tanti da gli occhi Fia, che nembi di pianti Amore scocchi. VI Hora con sdegni altrui conturba, e parte In mille parti la dolente vita; Sì ch’ abbandona in noi l’alma ogni parte, E fà dal carcer suo cruda partita; Ed hor con lontananza altrui comparte Martir sì grave la beltà gradita, Che da le luci fuor sù l’arso suolo Mille versa l’amante urne di duolo. VII Sì ch’ in foco, ed in lagrime converso Convien, che moia l’Amator fedele; E ne’ propri martiri à se diverso Hora canti disciolga, ed hor querele. Ma provi altri in amore il foco avverso, O in gemiti lo scioglia il duol crudele, A’ noi punto non noce onda, nè foco, La beltà n’ è piacer, l’amore n’ è gioco. VIII A queste note si vedean da lunge Sparir de la Trinacria i chiari lidi, E dov’ il mar d’Italia si disgiunge, L’Ionio dilatare i flutti infidi. V’è copia d’acqua; e dove il guardo giunge, Termini non ritrova a l’occhio fidi. Thetide in ampio seno si diffonde, E son confini al guardo i Cieli, e l’onde. IX Così Dedalo à l’hor, ch’ il patrio suolo Abbandonava, sù per l’alta via Industri piume diabttendo à volo, L’aria con l’agitar de’ vanni aprìa: Varcando in alto, sol le vie del Pol, E gl’immensi del mar campi scoprìa: Havea la mente d’alte glorie lieta, E gli spatij del Mondo eran sua meta. X Sovra la Nube pretiosa, e chiara Vanno per l’alto gli amorosi Dei; E vi spiegan di gioia altera, e rara Soavi, e placidissimi trofei. Lascian l’Africa à destra, ove in avara Spiaggia son’ habitanti ingordi, e rei; E volgon di Corcìra inver la riva Il vago Nume, e l’amorosa Diva. XI Videro cento sovra i flutti alteri Con temerari, impetuosi orgogli Ver gli Stellanti, sempiterni imperi Erger la fronte formidabil scogli; E non men’ anco horribilmente fieri Mostri inalzarsi da’ cerulei sogli; Ma di quei Numi a’ generosi peti Le minaccie de’ mostri eran diletti. XII Miran’ ancor con generose sponde Grand’ Isole distendersi ne’ mari, E tra l’arene loro anco feconde Popoli accorre industriosi, e vari. Chi di loro offerisce al Dio de l’onde Pomposi sacrifici in sù gli altari; E chi di sacro odor messe Sabea Al gran Tonante adorator spargea. XIII Altri le Rose, e le Colombe offirva A la Dea de le Gratie, e de gli Amori, E di quei flutti procellosi in riva Spargea corone d’odorati fiori: Altri godea la faretrata Diva Lieto inchinar de’ boscherecci horrori; E di cervi, e di damme altere spoglie Dilettoso sospende, e i voti scioglie. XIV Ed altri à Marte di destrier veloe, Che ne le guerre trionfante scorse, Trafisse in sù l’altare il sen feroce, E mite al Dio de l’armi i preghi porse. E v’era, chi di Pallade l’atroce Usbergo riveriva; e chi ritorse Le sue brame in Alcide, e da lui solo L’unica aita richiedea del Polo. XV Varij di varie genti erano i riti, E diversi infra loro i sagrifici; E innumerabil hostie in sù quei liti Cadevano sacrate a’ Numi amici: E con ivi placare gl’ infiniti Perigli hora de’ turbini nemici, Ed hor de’ flutti infesti entro quei mari Fumavan sacri a’ Dei sempre gli altari. XVI Godevan’ à tal vista i Toschi Numi, (Che nel suo vario oprar bella è Natura) E di piacere coloriano i lumi, E l’aria à quel gioir ridea più pura. E cento si vedean, sovra i volumi Per l’onde, correr via poco sicura Alate travi; e di superbi pini Ad oscurare il Sole, ergersi i lini. XVII Zeffiro, e Flora per lontan cammino Sovra i campi de l’aria havean varcato Gran tratto de l’Ionio; e del destino L’ordin s’era in gran parte essercitato; Quand’ ecco di Corcìra il suol vicino A loro s’appresenta; e in ampio lato Sù le spumose region marine Distende la vasta Isola il confine. XVIII L’Isola in mar per lungo si distende, E stretto, e angusto il seno suo dimostra, Sì che d’una saetta imagin prende Nel cupo sen de la cerulea chiostra. Ne la parte, ch’inver ponente pende, Feacia fà di se mirabil mostra: Vaghissima Cittade, ove la Reggia D’Alcinoo di bellezza, e d’or lampeggia. XIX Sovra cento colonne ella si vede Inalzar maestoso, augusto tetto; E’ l Portico real de l’ampia sede E’ d’altrettante nicchie altier ricetto: Statue, in cui l’arte se medesma eccede, Vi mostran’ ammirabile l’aspetto: Il marmo hà vita ne’ rigori suoi, E simulacri son d’invitti Heroi. XX Per numerosi gradi in alto i passi Stendonsi à rimirar novi stupori, Ove son vaghi, e rilucenti sassi Di doppie logge nobili lavori. Per larga porta in ricca sala vassi. E in camere di gemme adorne, e d’ori; Ove il pennel vivaci forme impresse, E più vero del vivo il finto espresse. XXI E altrove appese in sù le regie mura Vi stan con arti nobili, e novelle D’industre Babilonica cestura Superbe Sete à maraviglia belle, Ove con dota, e maestrevol cura Enea, che d’Ilio schiva le facelle, Era intessuto a l’hor, ch’ egli se n’viene A ricovrar ne le Feacie arene. XXII Ei con Ascanio, e con gli Dei Penati Inver l’Italia aprendosi i sentieri Ad arrecar al Latio i degni Fati, E de la Terra i gloriosi imperi, Quì con Alcinoo a mensa fortunati Trahea dal lungo errar dolci piaceri, E’ l Rege a l’esche per compagni havea I Dei Penati, e l’immortale Enea. XXIII Sovra gran pietra in altra parte stesa Era la storia, quando il Greco Ulisse La lunga via del suo ritorno presa Vers’ Itaca, quì posa egli prescrisse: E benche l’alma fusse à glorie intesa Per terminar de’ Proci suoi le risse, Pur quì tra cibi, e tra diletti amici Con Alcinoo trahea giorni felici. XXIV E’, benche in marmo ivi apparisse scolto, Il Greco dicitore, il Sasso algente Il suono di facondia ivi rivolto Tra le gelide vene era eloquente. Anzi vivea, e con spirante volto Movesi il Greco, e favellar si sente; E l’ire ridiria con suon loquace, Ma cauto a l’ire per prudenza tace. XXV Così l’hospite Alcinoo in quel suo regno Le grand’ alme albergar suole tal’ hora, E ‘l peregrino il Re di laude degno Ne le magnificenze ama, ed honora. Quand’ ivi d’albergar non hanno a sdegno Fuor de la nube lor Zeffiro, e Flora; E scendon per goder Reggia sì vaga, Che di sue meraviglie i mari appaga. XXVI Ben’ egli è vero, che nel lungo campo Non è d’amenità sparsa ogni parte; Ma, quasi habbia del Sole avverso il lampo, Non vi preval Natura, e manca è l’Arte; Nè da’ rigidi Verni ivi hà ‘l suo scampo La piaggia, e ‘l prato, ch’ in più luoghi sparte Son Elci, ch’infeconde ahnn’ hirto crine, E folte macchie stan d’incolte spine. XXVII V’ hanno Soveri ancor sterili foglie, E mostran vano il mal vestito seno; Più d’un’ ombroso Platano raccoglie L’infruttuoso, ed arido terreno; E mal tra gli Alni il volo suo discioglie Infranta l’Aura; pur di bosco ameno L’Isola al mormorar d’Euro giocondo Ver l’Oriente ha ‘l campo suo fecondo. XXVIII A l’avviso, che Zeffiro, e la Diva Son giunti di Corcíra à la riira, Parte il Rè da Feacia, e al mar’ in riva Adduce seco numerosa schiera. Ove gran multitudine appariva Chi d’oro ricca, e chi di gemme altera; Fan d’argento, e di perle altri gran mostra, E chi d’ Augusta porpora s’inostra. XXIX Nobil’ alme a i destrier premono il dosso, Chi piume inalza, e chi si cinge il brando; Dal nitrir de’ Cavalli è l’aere scosso, E co’l piè fan tremar’ il suol, raspando. Con selle ornate à color bianco, e rosso Vann’ Indiche ricchezze folgorando; Pretioso è l’arnese, e à cento, à mille Forma il petto, ed il piè suoni di squille. XXX Di quei destrieri chi ‘l mantello hà savro, E son valor del bellicoso armento; Chi misto à coloro varij hà tergo Mauro, E sfida nel suo corso à volo il vento; Vivace, e candidissimo tesauro Altri nel dorso suo porta d’argento; E con macchie pomate altri è leardo, Ed è baleno al piè, fulmine al guardo. XXXI Indi seguon d’Eunuchi ordini folti, A cui dal ferro con nocente asprezza Furon de l’human seme i pondi tolti, E quella offesa à lor crescea bellezza. Poi di Paggi, e Scudieri ivi raccolti Rende leggiadro stuol pompa, e vaghezza; E suon di Flauti, e Trombe, in dolci modi Tanto diletta più, quanto più l’odi. XXXII Vien poi sù carro, che di perle, e gemme E’ riccamente nobile, e pomposo, E pregi accoglie d’Eritree maremme, Di Corcíra, e Feacia il Rè famoso. E fia, ch’à quei splendori ogn’ un s’ingemme, Sì ‘l lor riflesso è puro, e luminoso; Porta d’or la corona, e d’ostro il manto, E di sua maestade empie ogni canto. XXXIII Visto, ch’i Numi imprimon sù l’arena L’orme divine il Regnator cortese, I corridori suoi dolce raffrena, E ‘n contro a’ Toschi Dei dal carro scese. E dice. Ogni mia brama hoggi è serena, Nè più cara dal Ciel gratia s’apprese, Poscia ch’ à me da la sua lieta parte Hetruria alteri Numi hoggi comparte. XXXIV Venite, ò cari, il cui sembiante è noto A l’universo intero, e quì godete (Secondando i vostri otij, ed il mio voto) Di soave piacer la dolce quiete. Presso è la Reggia mia, ch’ in sen remoto Capir vi puote, e ‘n dimostranze liete Farvi gli arcani penetrar di lei, Ch’ esser dee Reggia de’ superni Dei. XXXV Venite, e s’altro ivi mancar mai puote, Fatela Cielo voi co’l vostro aspetto, Sì ch’ il destin de le superne rote Per voi quì non invidij hoggi il mio tetto, Benche da questa parte horride, e vote Sien di cultura le mie piagge; e schietto, Fuori che verso l’Orto, il Ciel non sia, A far’ amena la Campagna mia. XXXVI A questo suono replicar gli Amanti, Che de l’Etruria frenano l’impero, E sù la nube varcano volanti, Ov’ è l’Oracol di Dodona altero. E dicon’. A te sempre i Ciel’ costanti Volghin il corso de’ favori intero; Che ne sei degno. Arrida Giove, e nuova Gratia ogni hora da lui sovra te piova. XXXVII Alcinoo, già tua fama al mondo è nota, C’hospite sei de’ più sublimi Heroi; E d’ogni Region da noi remota Hà penetrato il suon degli honor tuoi: Grato il tuo soglio fia, ne mai si scota Memoria ricordevole da noi: Che degno sei con più superbe prove. D’accor ne la tua Reggia anco il gran Giove. XXXVIII Con questo, ed altro suon la lunga via Givan scorrendo, e consumando l’hore, Da quando il Sole fuor del mar s’invia, Sin che ne l’Ocean languido more. E tra loro (alternando) hora s’udía Spiegar vanti di guerra, ed hor d’amore, Hor di Virtù l’alloro, ed hor ferace L’ulivo rammentar de l’aurea Pace. XXXIX Miran gli Amanti Dei l’Isola intorno In cui scherzò diversa la Natura; Ch’ altrove ell’ è d’amenità soggiorno, Ed ivi sol nudría steril verdura. Quand’ ecco entraron ne l’albergo adorno De l’alta Reggia, e de le ricche mura: Stupir Zeffiro, e Flora a l’opre illustri, Che puon chiare schernir l’ombre de’ lustri. XXXX Posa per breve raggirarsi d’hora La Coppia maestevole, ed altera, Quando in augusta sala, ove dimora Folt’ ordine di lumi, appar gran schiera, E posta in mezo tavola s’honora, Ch’ in se di stupor vince ogni maniera; Ed hà de’ liquor suoi larga la mensa Ciò, che di Chio la vite à noi dispensa. XXXXI E ciò, che la vendemmia à noi felice Di Creta nel suo pian fertil produce, E quanto ancor la Nassica pendice Prodigamente à l’altrui sete adduce. Quì posta in vasel d’oro è la Pernice, Di Faside l’Augel brame v’induce; E l’esche rare de’ Pavoni sono Del Rege Alcinoo pretioso dono. XXXXII Evvi à l’altrui palato ancor gioconda La Lepre fuggitiva, e timidetta; E del cervo non men l’esca v’abonda, E ne gli argentei vasi à fame alletta. E di ciò, che Pomona il suol feconda, Quivi la mensa è sparsa, e altrui diletta; E de l’aurate poma ivi minori Han l’Hesperidi Suore i lor tesori. XXXXIII Non altrimenti Giove in foggie belle Dopo gli scossi Enceladi, e Tifei Sù l’alte regioni de le Stelle Diè lauta mensa a’ trionfanti Dei. Quand’ ecco Alauro, che la cetra imbelle Al fianco tiene, ed hà da’ fonti Ascrei Tratto il liquor di Febo; al dir concorde Fa con la mano il suon de le sue corde. XXXXIV E volto ver gli Amanti. Un tempo il Mondo (Cantò) se n’ giacque senza vaghi amori Entro il suo seno languido, infecondo, E furon vani i suoi primieri honori. Fin che dal Ciel, per renderlo fecondo, Saturno trasse i genitali humori, E lanciolli nel mar, per fargli a pieno De la virtù di lor fertile il seno. XXXXV La calda spuma con quel giel de l’onda Si rassoda al vibrar de’ rai del Sole, E l’acqua al seme altrui resa feconda A noi produsse gloriosa Prole; Poich’ ivi de gli amor’ la Dea gioconda Hebbe natale; e sovra lei viole, E rose sparge il bel giardin del Cielo, Che reso havea del mar fertile il gelo. XXXXVI Corser’ a l’hor da le vicine rive Glauci, e Tritoni, a rimirar la bella, Che Reina apparì de l’altre Dive, E del Sol si mostrò lucida Stella. E disse Alauro, come al Ciel s’ascrive Con virtù, ch’ ad ogni hor si rinovella, Il produr germi in mare, e ne la terra; E tutti del crear gli orgin disserra. XXXXVII Indi sù ‘l lido del gran Cipro ascende La Dea de’ vezzi; e dopo nove Lune Partorisce quel Dio, ch’ i cori accende, Ed hà ne le nostr’ alme alberghi, e cune. Ond’ anco in mare tra le braccia prende Ogni Dio la sua Ninfa; e amor comune Ferve ne’ flutti; e son di nuove Dee Fertil le sponde Ionie, e l’acque Egee. XXXXVIII Sù i flutti per amor l’Orche gioconde, E le Balene vidersi scherzare; Lieti i Delfini errar verso le sponde, Provaro amor le Pistrici nel mare. E lo squammoso popolo sù l’onde Fè di se mostre inusitate, e rare: E non men sù la terra, anco novelli Sciolser’ i canti lor fertil gli augelli. XXXXIX Indi gli huomini in terra ancor la prole Di sè formaro, e per beltà lucenti Produsser figli a’ vaghi rai del Sole; E furon parti di virtù possenti. Il Mondo empì di lor la vasta mole, E fur varij i pensier, come le menti: Sì ch’ altri furon saggi, altri fur Regi, E chi di forti Heroi mostrò gran pregi. L Ond’ hor la Terra de’ lor fatti altera Andar si vede, e pareggiare il Cielo. Disse; e la notte trapassaro intera, Sin ch’ à noi fè ritorno il Dio di Delo. Poi Zeffiro, e la Dea di Primavera Reser gratie ad Alcinoo; e dal suo velo Flora piovvè virtù, che rese à pieno Gioconda l’aria, e florido il terreno. LI E Zeffiro co’l volo anch’ ei secondo A l’opra arrise, e sua virtude infuse. Sì ch’ il suol, ch’ à l’occaso era infecondo, Novelle prove à quei favor diffuse. Ogni ermo prato vi ridea fecondo, E Natura ogni pregio ivi dischiuse; Vaghi v’erraro, e mansuete belve, E di poma vestironsi le selve. LII Con numeroso, dilettevol frutto Vi stende le sue porpore il Ciregio; E quasi regnator del bosco tutto V’ hà ‘l Granato Corona, e manto regio: L’Arbor, ch’ à Filli diè nocente lutto, Ivi de’ fermi suoi dimostra il pregio; Il Fico in dolci lagrime si scioglie, E’l Persico la lingua hà ne le foglie. LIII Vi sono ancor per quei novelli prati Sù verde gambo teneri Giunchigli; Tesori v’appariscon’ odorati D’ardenti Rose, e d’imperlati Gigli; E la Peonia i pregi altier spiegati V’hà de gli ardori suoi vaghi, e vermigli; E vi mostran l’Anemone, e l’Acanto Di gemme il pregio, e di tesori il vanto. LIV Quà si volgevan per amene valli Di vive perle gelidi ruscelli; E là scorrean di limpidi cristalli Con dolce mormorío fonti novelli: Diversi con piacevoli intervalli Vi forman canti armoniosi augelli; E per favor, che da gli Amanti spira, Delitie del terren fatta è Corcíra. LV Felice Alcinoo, ch’albergando i Numi Fausta ti rendi ogni superna Stella: Di bei frutti per lor fai ricchi i dumi, E l’Ionio non hà spiaggia più bella. Ogni vaghezza in lei mirano i lumi, Lunge il Verno hà da te l’ira rubella: Da Flora hai nobil fato, e ubbidienti A le delitie tue servono i venti. Il fine del Quarto Canto. Canto Quinto Argomento Giungon Amanti de l’Epiro, e poi Ne la Caonia, ed a Dodona vanno: Fido a’ voti da Giove Oracol’ hanno; E ‘n sacra nave fan ritorno a’ suoi. I Già fuori del Mar Indo a noi ritorno Con rosea fronte, e piedi alabastrini Facea l’Aurora; e ‘l Regnator del giorno Guidava sovra carro di rubini. Veniva il Sole di suoi raggi adorno, E di tesoro incoronava i crini; Ed eran tra bei fiori a’ ricchi lampi Colorite le valli, e pinti i campi. II Quando Zeffiro, e Flora in aria à volo Si videro inalzar la nube loro, E (abbandonato di Feacia il suolo) Sfavillar gemme, e balenar tesoro. Gioiva al lor piacer ridente il Polo, E rispondea con raggi anch’ esso d’oro. E dir sembrava. Tra miei Cieli anch’ io Nube à sì bella Coppia esser desio. III Alcinoo al lor partir’ sovra gli altari Sparse di sacri odori Arabi fumi, E di doni offerì Arabi fumi, E di doni offerì pregiati, e rari Pretiosi tributi a’ vaghi Numi. E tra quei Regij preghi in lati vari Frutto diedero i tronchi, e rose i dumi. D’amenitade il suolo è fatto alunno, E spiega la Feacia eterno Autunno. IV Tai forse gli horti son de l’Alba eterna Sovra i bei campi del lucente Cielo, Ove caliginosa ombra non verna, Nè vi stende Aquilon l’ale di gelo; Ma l’aura placidissima superna Vi tempra co’ suoi raggi il Dio di Delo; E senza alternar mai ghiaccio, nè vampa, La luce nudre, e Primavera accampa. V Van lieti de’ lor vanti i Numi amici, E godon, che la Terra à loro arríde. E dicevan. Per noi così felici Girin’ i Cieli le lor sfere fide, E ne le Tosche floride pendici Gioia di Prole meritata anníde; E come il vento in mar produce i flutti, Così da i nostri fior’ sorgano i frutti. VI Diana, che di prole in terra è priva, E di gravido sen pregio non porta, Dal Cielo abbandonata à un fonte in riva, O tra le selve errante il piè traporta. Sol lieve cervo, e damma fuggitiva Hà per proprio diletto, hà per sua scorta: E non merta infeconda haver tra selve Altro in sua compagnia, che spine, e belve. VII Fin l’acque, che per altro entro le sponde Punto non son di Deità capaci, E solo ne le valli lor profonde Son di Mostri ricoveri voraci. Vollero con le spume esser feconde, E di parti divini andar feraci. E più, che de’ lor pesci, hebbero honore, Ch’ in lor nascesse la gran Dea d’Amore. VIII E la fertilità si cara è a Giove, E così d’esser Padre ei si prevale, Che con estreme, e memorabil prove E’ di Parto ogni parte in lui fatale, Poiche creò dal divin fianco, dove Pria nascosto l’havea, Bacco immortale; E Madre, come Padre, ancor possente Pallade partorì da la sua mente. IX Con sì queruli accenti, hor de le Stelle, Hor di Natura si dolean gli Amanti: Ne l’une l’opre detestavan felle, E ne l’altra abhorrian gl’ ingiusti vanti. Quando, non dopo gran viaggio, in quelle Parti men ree de’ pelagi spumanti Sponda inalzarsi nobile si vede, In cui Regie Cittadi han la lor sede, X Questo è d’Epíro il suolo, ov’ il Valore Porrà fra l’armi bellicoso il grido; Nè men de la Virtude, anco l’Honore Famoso à gara stenderavvi il nido. E da le forze lor fia più d’un core D’invitto Duce spento; e Marte infido, E rio il terror de’ rigidi Destini Proveranno per loro anco i Latini. XI A questi lidi Zeffiro, e la Dea Rivolgon la lor nube, e riverenti Scendon’ in parte, dove il mar porgea Riposo in curvo seno a’ fluti, a i venti. E lievi erraron fin là, dove fea La Caonia di se mostre possenti. Giunger’ al Cielo co’ suoi monti ardía, E di Giove le Quercie alte scopría. XII Entran in quei confini; e da la manca Parte drizza ver loro i tesi vanni Colomba, de le nevi assai più bianca, E con l’aspetto a lor tempra gli affanni. E fatta guida, che tra via non manca, Conduce lor, c’hanno infecondi gli anni, Ove la selva di Dodona accoglie Sacre colombe, ed eloquenti foglie, XIII Muti in quei campi sono l’acque, e ‘l vento; E fin l’istesso augello anche vi tace, Sol, perche non conturbi ivi il Contento, E inviolata annidisi la Pace: Grato silentio ogni romore hà spento, E la Tranquillità solo vi giacie. E senza tuono, e fulmin v’ hà riposo, Chi di fulmini, e tuoni è Rè sdegnoso. XIV E’ la Caonia region felice, E del Secolo d’or reliquia, e segno. Stilla ricca di mele ogni pendice, E l’Innocenza hà posto ivi il suo regno. Da l’Elci cave dolce humor s’elice E la Terra è di sè fertil’ ingegno. L’ardor di Sirio non aspetta il campo, E più, che ‘l Sol, la sua virtù gli è lampo. XV Produce il Rivo più, che l’acque erranti, Liquori soavissimi di latte: Stillan manna dal Ciel l’aure volanti, E da le brine son le piaggie intatte. Ivi il Leone hà placidi sembianti, Nè l’Orse al furor cieco ivi son’ atte. Il Bue di sue fatiche non si lagna, E ‘n compagnia vi stanno il lupo, e l’agna. XVI Più volte l’anno fertili gli augelli Fan ne le piante i nidi amorosetti, E vagheggiarsi in questi rami, e ‘n quelli Sono gli studij lor, sono i diletti. Non hà tosco la Biscia, e non son felli De gli Aspidi gli scontri; e ne’ lor petti S’habitar vi potessero i furori, Havrian gli Odij, e le Furie aure d’amori. XVII A così liete meraviglie intesi Giungon intanto i Toschi Numi, dove Hà mille voti sovra Quercie appesi Il Re de’ Cieli fulminante Giove. Quì di Tempio non stanno archi sospesi, Che son d’ ingegno humano uniche prove, Nè d’argento, nè d’oro ivi si vede Splender là volta, e balenar la sede. XVIII Nè Caistro v’ addusse i marmi suoi, O le pietre s’ammirano di Paro: O pur Numidia, co’ gran sassi tuoi Industriose mani i muri alzaro, Nè desti, o Gange, da’ gran lidi Eoi Di gemme dono pretioso, e raro; Nè ‘l ricco Tago da l’Esperie vene A te votò le rilucenti arene. XIX Ma tra ben mille Quercie un’ Ara stassi, Ch’ a discoperto Cielo hà ‘l tufo eretto. E fabricata di quei rozi sassi Ne la rozezza hà maestoso aspetto. Quà drizzan Flora, e Zeffiro i lor passi, Spiran dal volto riverente affetto; E riconoscon, ch’ ivi il Dio s’accoglie, Che tra Quercie, e Colombe il ver discioglie. XX Zeffiro al Nume, ossequioso, offerse Di fiorito tesor ricche vaghezze, E sovra il suolo, e sù l’altar disperse Di Natura, e d’Amor mille bellezze. Indi intrecciò di fior pompe diverse, E corone compose; e di ricchezze Di pretiose piante in guise rare Ornò le Quercie, e incoronò l’altare. XXI Poscia visto, che Giove à lui non rende Amichevol risposta, elegge odori Sparger d’Arabia, e ciò, che l’Indo prende Da’ Campi, usi del Sole a’ primi ardori; Ciò, che Natura prodiga sospende Ne l’arse piagge de’ Sabei cultori; E ciò, che la Panchaia in un raguna A l’hor, ch’ a la Fenice è tomba, e cuna. XXII Ma scorto, che gli odori anco son vani E ne l’aria se n’ vanno à vuoto i voti, Cangia pensiero, e al Re de’ Ciel’ sovrani Tributi d’ holocausti offre devoti. Stese al piano con modi alteri, e strani Volanti augelli al nostro guardo ignoti, Fà d’alme alate vaghe offerte al Nume, E copre il suol di colorite piume. XXIII Nè ciò Giove curando, ei da pensiero Non usitato sovrapreso, e vinto, Di fere offrirgli sagrificio altero Entro l’animo suo seco hà distinto. Ferisce il Cervo, e cade il Toro fiero, E ‘l Lepre sù l’altar giacesi estinto; E la Damma, che sacra à Cinthia vive, Per Giove quì di vita hà l’hore prive. XXIV E perche a’ suoi desiri non arríde Con risposte seconde il Dio Tonante, Tra quelle quercie sospiroso ancide Vittime sacre al Regnator stellante. Ordini cangia, e modo; e pur non fide Le voci ascolta frà l’ombrose piante; Onde penoso manca; e da giocondo Spirto d’amor, fatto è di fuol fecondo. XXV Per molti giorni rinovò l’offerte, Ma sempre in vano, l’Amator fedele; Sì c’hor le gratie in lui plora deserte, Ed hor’ il fato suo chiama crudele. Onde Flora con brame assai più certe Queste sciolse ver Giove aspre querele. Ed à quel suono udironsi dolenti Sospirar l’aria, e lamentarsi i venti. XXVI Giove, dicea, che Padre sei del tutto, E nel giovar’ al Mondo hai posto il vanto; Deh, come Padre à me sembri di lutto, E sol per me nocente opre hai di pianto? Quì vvedi un Nume à lagrimar ridutto, Che degno per suoi pregi è d’alto canto: E per te si dirà ne’ dolor miei, Che possa la miseria anco sù i Dei? XXVII Tù pur’ hai dato il parturire a’ Mostri, Ov’ Affrica più sterile fiammeggia. E veneno non hanno i campi nostri, Che ne gli Angui fecondo hor non si veggia. Il Mare istesso ne gli ondosi chiostri Di gran portenti prodigo spumeggia E fin il Foco, che divora il Mondo, De le sue Salamandre hà ‘l sen fecondo. XXVIII Ed io mi giaccio languida, infeconda, E nata solo à colorire il campo: E, come sù l’arene in curva sponda; Steril’ d’inutil’ orme il suolo stampo. E si dirà; che Giove appien feconda Le crude belve; e solo i Numi al lampo Del dì non produrran l’amata Prole, In odio al Cielo, ed in dispregio al Sole. XXIX Ah poiche nulla l’esser Dea mi vale, Rinuntio il Cielo, e le superne doti: Non più, non più desío vanto immortale, Sol di morte, e d’oblío sono i miei voti. Non già sù i Tempij, ma sù me lo strale De la tua destra fulminante scoti. Giovi l’esser’, o nulla, o mostro almeno; Poi c’hanno i Mostri almeno fecondo il seno. XXX Vieni, Aquilon, dal tuo gelato regno, Spoglia il terren di florida verdura; E tu non tardar’ Austro, al cui disdegno Gli ultimi honori suoi teme Natura, E dal tuo suolo, ch’ è di pompe indegno, Al Mondo reca l’Affricana arsura: Fermi Estate ne’ campi i regni suoi, E più non torni Primavera à noi. XXXI Inaridite homai per me viole, Sterili fiate, ò languidetti gigli: Non più adorni la Rosa, come suole, Le tempie mie co’ suoi color vermigli. Ecco ti sfrondo, e sterile di prole Non fia, ch’ a vane pompe i più m’appigli. Ite lunge da me, trofei mal nati, E sol pianto, ed horror sien’ i miei fati. XXXII Infausti Amori, a che lusinghe, e vezzi Mi prometteste inutili, e mendaci. Se sono i vanti miei pene, e disprezzi, Amare gioie, e combattute paci. Amor, s’ hai spirti a l’Infecondia avezzi; O’ cangia nome, ò muta i ben fallaci: Da steril lampo Amore ardor non spira, E Venere per Flora è Madre d’ira. XXXIII Quercie, s’in voi lo spirto, e ‘l senso havete Non più stupide siate a’ miei sospiri; Deh, per tormi al dolor, sù me cadete, E con me seppellite anco i martiri. Quercie ben dure, e ben crudeli siete, Se voi non secondate i miei desiri; E ch’ in voi sia lo spirto hora mi giovi, Perche solo da voi la morte i provi. XXXIV Quercie voi sorde sete: ah ben m’avveggio Ch’ in voi regna per me qualche pietate; Se da me sù ‘l Metauro amico seggio Haver goduto, hor quì vi rammentate. Se mai da me voi foste culte; io chieggio C’hoggi gli honori miei voi disprezziate, A chi morte desia porgete aita; E siate tomba à chi non merta vita. XXXV In rendermi infeconda, i sommi Dei Han la virtù divina in me dannata: Nè voglion, che miei nobili trofei Sien d’eccelso valor prole beata. Ma che mi lagno? ahi lassa. I fati miei Conoscer ben dovevo alma mal nata, Che mi negava il Ciel speme di figlio, Se da fior, non da frutti il nome piglio. XXXVI Misero Nume, che dal Ciel negletto Per aita a le quercie aspre ricorre, E spera, in lor pietade haver ricetto, Poiche pietade il sen di Giove abhorre. Folle: qual vano suon movo dal petto? Quercia, ove Giove manca, in van soccorre. Arbor, ch’ i frutti spande, i fior disdegna; E tra le selve la pietà non regna. XXXVII Deh pur Quercia selvaggia io stata fosse, Ch’ almen vantar potrei frutti, e germogli? Nè soffrirei di duolo acerbe scosse, Nè sarei preda d’horridi cordogli. Poiche Giove non m’ode, ed hà rimosse Da se mie glorie; e rozo è a par de scogli. Quercie, s’havete il suon, da voi mia doglia Più degnamente al vostro Dio si scioglia. XXXVIII Altro attender da me voi non potete, Se non, che voi narrando con la fronda Le mie brame ansiose, immansuete, Io sù voi le mie lagrime diffonda: Vita da l’acque del mio pianto havrete, Onde più fia la lingua in voi feconda; E si dica. Che Flora a i pianti sui Fece prima, che se, fertile altrui. XXXIX Crescete pur’ al pianto mio dolente Figlie del mio Metauro à parlar nate, E se ‘l mio duol non è forse eloquente, Per me fertile almeno il suon snodate. Si sciolga in voi quest’anima languente, Pur che nel mio languir noi v’avvivate. E si ridica. Se Dodona suona, Tra Quercie al suon di Flora ella ragiona. XXXX Le mute Quercie a l’hor di Flora al nome Tutte tremanti scossersi dal fondo; E fluttuanti con instabil chiome De’ gravi preghi sospiraro al pondo: Tuonò l’Antro di Giove; e non sò come, L’Ara anch’ essa crollò: l’Aer giocondo Nubi accolse in un tempo, e le disperse, E meraviglie il Bosco hebbe diverse. XXXXI Zeffiro istesso paventò la sorte, De la sua Flora, e di sua vita incerto. Quando da manca un tuon, con vaghe scorte, Di gratie rimbombò nuntio più certo. Sparver gli avversi augurij; e ‘n tanto sorte Da le Quercie s’udir voci di merto. DA QUERCIA D’ORO SORGERÀ GRAN PROLE CHE STENDERÀ L’IMPERO A PAR DEL SOLE. XXXXII A tai note l’Augel, ch’ inver l’altare Ne l’entrar di quel bosco a’ Dei fù scorta, A l’Oracol’ applaude; e ‘n fogge rare Sù ‘l crin di lei co’l volo si traporta, E fatto nuntio di allegrezze care Co’l suo calor fecondità l’apporta. Gioirò a l’hor gli Amanti, e ‘n dolci amplessi, Com’ hanno i cori, uniro i corpi istessi. XXXXIII E fertil fatti Zeffiro, e l’Amata Raccolser lieti i loro spirti al core; Di rai di maestà la fronte ornata A’ lor pregi accresceva eccelso honore. L’Ara a l’hor del Tonante incoronata Fu di più vago, e più gradito fiore; E bei nembi di manna in guise nuove Piovvè da le sue Quercie il sommo Giove. XXXXIV Di più fini smeraldi le sue foglie Tutto il bosco vestì ricco, e lucente; D’ augelli il choro melodía discioglie, Che molce co’l suo suon l’aria ridente; Onde ver Giove Zeffiro, e la Moglie Spiega accenti d’amor dal seno ardente; E, come merto, e fè gli animi accende, A don di gratie, suon di gratie rende. XXXXV A nuova così insolita, ed altera Festeggiante Himeneo da Pindo accorse, E de le Gratie la vezzosa schiera Snella co’ passi il vago Dio precorse; Del bosco le Napee lieta maniera Ordir d’industri feste;; e ‘l Ciel si scorse Al vezzeggiar de’ Toschi Dei rivolto Di più lieto seren sparger’ il volto. XXXXVI E per girar di molti Soli il piede Vi mosser quei drappelli à vaghi balli, E gioì tutta la frondosa sede Al mormorío de’ liquidi cristalli. Odonsi accenti; e ‘l suono in giro riede, Che son del lieto suono Echo le valli: E per Coppia sì degna in dolci accenti Ragionan l’Aure, e parlan gli Elementi. XXXXVII Manna, ed Ambrosia sono i cibi eletti, Onde si pascon’ in quei giorni l’alme; E tra giochi, e tra danze, e tra diletti, Di Venere, e d’Amor son le lor palme. Mille serti di fiori in cerchio stretti Pendon, e son di Quercie altere salme. S’empie il bosco d’odor, di fiori s’orna, E Primavera in lui stabil soggiorna. XXXXVIII Quando Giove immortal, che ‘l tutto puote, Ed han da lui gli Oracoli gran fama; Lieto a le gioie altrui scioglie tai note, E con le Dee Silvano anco à se chiama. Nave ordite a gli Amanti, e ver le note Piagge d’Etruria, ove l’Italia gli ama, Ricorran fausti; e contra il rio destino Propitio habbian ver l’Arno il lor cammino. XXXXIX Disse; e cento si vider da la selva Satiri, e Fauni mover pronti i passi; Cadon tronche le piante, ed ogni belva A rinselvar trà lontan bosco vassi. Ove più ‘l luogo d’alberi s’inselva, La sede ombrosa à diramar più stassi: Trascinansi le piante; e à sì grand’ opra Ogni selvaggio Dio le mano adopra. L V’ hà chi pulisce co’ suoi ferri il legno, E chi comparte con misura i lati; Altri le travi assetta, e con disegno A unirle son gli ordigni fabricati. Chi sù i chiodi colpisce, e chi l’ingegno Ivi impiega a segar gli assi tagliati; Ed è fatto, ò mirabil magistero, Di tavole diverse un corpo intero. LI Ferve l’opra de’ Dei, qual suole il folto Popol de’ Mirmidoni in verde prato, Qual’ hor tema, ch’ il Ciel tra nubi accolto Sovra la messe sua sciolgasi irato. La nube intanto de gli Amanti sciolto Disperde in aria il suo tesor gemmato. Che Giove vuol, ch’ à lor ritorno solo Rada la fatal Nave il salso suolo. LII Con le Dive, e co’ Satiri Silvano Vanno di pece ricoprendo i fianchi, Spingon la Nave in mar con forte mano, Nè mai d’affatigarsi ivi son stanchi; V’ alzan le sarte, e sù l’aereo vano Spiegan le vele; e i destri remi, e i manchi Adattan’ al gran Legno; ed Argo pare Che fù pregio del Ciel, stupor del mare. LIII D’Helicona le Dee giunsero intanto, E Febo in un da la Castalia riva: E per Zeffiro, e Flora in dolce canto La sua lira animò lieta ogni Diva. Clio gareggia con Erato, e ‘l suo vanto Polinnia à lor non cede; e d’honor priva Ogni alta tromba ivi giacer potría; Ove l’Aonie Dee fanno armonía LIV Cantar di Giove le gran lodi eterne, E com’ egli feconda il Mondo intorno; E de l’Oracol suo l’opre superne Con dotti carmi rinovaro al giorno. Lodan le Quercie, che da parti interne Versan note veraci; e in quel soggiorno Le Colombe fatidiche, che puri Scopron’ ivi di Giove i sommi auguri. LV Quando Zeffiro, e Flora al Cielo amici Dopo rivolte di gran Soli al fine Partiron da Dodona; e al mar felici Drizzan de’ passi lor l’orme divine. Giungon’ i Toschi Dei non più infelici Là, ve sferzan’ il suol l’onde marine; E de la nube in vece appare à loro De’ Dei selvaggi l’immortal lavoro. LVI Così tal’ hora ne’ Theatri alteri, Che Roma eresse a le superne Stelle, E tra quei scherzi a’ popoli guerrieri Mostrò sembianze maestose, e belle; Con varij, memorabil’ magisteri Diè il Martio campo imagini novelle. Al mirarsi del mar, l’aer disparve, E dove Nube fù, Nave conparve. LVII Attoniti à tal’ opra i vaghi Amanti Di quei Numi stupirono, e di Giove. Premon’ entro quel Legno i mar spumanti, Nè temon d’Austri tempestose prove. Godon, che sacra Quercia à l’aure erranti Ivi per arbor s’alzi; e gioie nuove In se accogliendo, ver l’Etrusco Regno Pari al Zeffiro Dio se n’ vola il Legno. Il fine del quinto Canto. Canto Sesto Argomento Contra ‘l Legno de’ Dei dal freddo Polo Vien Borea, e turba in mar le salse arene Placa l’onde Nettun; stretto in catene E ‘l Vento; e lieta và la Nave à volo. I Al partir de gli Dei dolce Himeneo Cantò l’origin de’ lor primi amori, Sparso il sembiante suo d’odor Sabeo, E adorno il capo d’odorati fiori. Soavemente con la lira féo Risonar l’aria a’ detti suoi canori; E al vago Legno suo spirando vita, Loquaci in un co’l suono havea le dita. II Sovra ‘l lido danzar le Gratie belle, Gli avori ad arte mossero animati, E con arti atteggiando ogni hor novelle, Incurvavan’ industri i nudi lati; Hor’ ergeansi dal suolo, ed hora snelle A le fughe sciogliean’ i piè gemmati: Confusi eran’ i moti, e in un distinti; E d’industrie assembravan laberinti. III Ed in un per diletto Apollo istesso Vago di riveder la bella mole, Vi stese i passi, e diede applausi anch’ esso A l’opre oltr’ ogni fè nobili, e sole. Spirò dal volto il Rè del bel Permesso Influssi lieti à la crescente Prole. E, dove pose il piè, con fertil vena Perle il mare produsse, oro l’arena. IV Le Muse in compagnia non men gioconde I lor strumenti musici tempraro, Ed a’ concenti lor sovra le sponde Cento Cigni d’Amor vaghi scherzaro. Di lor colori quelle spiaggie, e l’onde Con le native porpore adornaro; E a gara de le Dee snodar da’ colli Di placidi amoretti accenti molli. V Poi le Muse, Figlioli de l’Auretta, Gigli, e rose raccolsero dal prato, De l’amaranto, e de la mammoletta Intrecciaron lung’ ordine odorato; E di ghirlanda di bei fiori eletta Cinser il Legno intorno; e coronato Fù d’odoroso, e colorito innesto Quel Legno, che di Quercie era contesto. VI Con applauso minor d’Argo la Nave Già fù veduta ne la patria riva; Che fabricata anch’ essa era di trave, Che fù sacrata a la Palladia Diva Ivi i Guerrieri Heroi fean’ insoave Ogetto al guardo; e quì due Stelle apriva, Anzi un Sol di beltà, che ‘l Mondo indora, Unito in fè d’Amor Zeffiro a Flora. VII Quand’ ogni altro sù i Cigni in aria eretto Con mirabil virtù scorgesi altrove Torcer lunge dal lido il vago aspetto, E celebrar gli Oracoli di Giove. Dal ricurvo del mare ondoso letto La gran Nave Sacrata intanto move; E per l’Oracol del gran Padre lieta L’Italia al suo cammino havea per meta. VIII E dicean. Quanto è frale audacia humana, Che sol di suo mortalità si fida; La pompa de gli honor stima non vana, E ‘n grandezza di regni il tutto annída. L’ira non teme del Rettor sovrana, Ed à tenzone in fin’ il Cielo sfida; E a crude prove di Tiranni avvezza Fuori de le sue prove altro non prezza. IX Ah, che regna sù noi Giove dal Cielo, Ed arbitro de’ Fati al tutto impera. Più de l’humano ardir puote il suo telo, E regge il Mondo da l’eccelsa Sfera. Face non scote lo stellante velo, Che non sia nuntia del suo cenno altera; Poscia ch’ à noi da Region sì belle Con raggi di splendor parlan le Stelle. X O’ quanti à noi con l’arte lor fallace Giunser di finto Ciel folli indovini, E ne mentiron da propitia face Promessi, un tempo fà, Parti divini. E’ ch’ à quest’ hora già sarai ferace Per noi ‘l Tosco terren d’Heroi bambini; E l’Arno al nostro germe havria più volte Offerti i voti, e le preghiere sciolte. XI Ed altri poi de’ lor’ arcani oscuri Insoavi svelando à noi le note, Predir con infelici, avversi auguri, Per noi sterili il Ciel volger le rote, E d’Heredi mancare a noi futuri Il rampollo, onde pompe il Mondo hà note: Ed in marmi scolpite, ed in historie Tacer le lodi, ed ammutir le glorie. XII O’ folli mentitori, ecco a noi ‘l vero Fra Toschi Citherea predir si vide; Ed hora il Re de lo stellato impero Da la Caonia à noi felice arríde. La Quercia hà spirti d’intelletto vero, E la Colomba ne diè scorte fide; E con alti prodigij il Ciel s’è mostro Auspice glorioso al germe nostro. XIII Con tai note rendean gratie ben mille Al gran Fattor de la superna mole; E, dal Ciel folgorando auree faville, Fu testimonio à sì bei vanti il Sole. Và lieve il Legno à suon d’aure tranquille, E lieto corre il mar più, che non suole; Nè men, ch’ il Cielo, à Nave sì gradita Spira Zeffiro anch’esso aure d’aita. XIV Già ne la terza Luna erano giunti Di lor fertilitade i fausti Amanti, E d’amore tra lor quasi consunti Colmavan d’alta gioia i lor sembianti: Mai non le vide il Sol tra se disgiunti, Nè l’ombra li trovò da se distanti: Vivean concordi; e’ n fè d’amore uniti Correan’ i mari, e trascorreano i liti. XV Alcuni Dei de l’acque à quel governo Siedon’ entro la Nave, e varij in vista Fan, che per loro con stupore alterno Sia gioia, e meraviglia in altri mista. Di quà, di là sen’ vanno; e ‘l crudo verno Vincon de l’onde salse; e l’ira trista, Che, per nudrir’ in sen spiriti fieri; Hanno contra le Navi i Venti alteri. XVI Cocente era l’Estate, e fuggitivi Non si vedevan per l’arsiccie valli Tra sassi, e balze mormorando i rivi Rivolger’ i lor limpidi cristalli. Ne vinte le Napee da’ raggi estivi Ordian ne’ campi leggiadretti balli. Ombra il Platano altier più non facea; E languía ne’ suoi fonti arsa ogni Dea. XVII Il Cane al rivo sitibondo gia, E anhelando mancava a tanto ardore, Sì che le caccie semivivo oblía, E sol per suo ristoro ama dimore. Le brame, onde cacciar rapido ardía, Hà posto solo in cristallino humore; E, perche tempri de l’ardor la fiamma, E’ sicuro il Cinghial, salva la Damma. XVIII La Terra il seno a se medesma fende, E del suo fin si lacera tremante: E mentre in due partito il campo rende, Par, ch’ apra a se medesma urna avampante. Non più l’augel tra rami albergo prende, Nè sù l’aria scherzar mirasi errante. Il pesce istesso dentro l’onda muore, E gli è l’acqua del Rio lampo d’ardore. XIX Hanno il lor corso ancor perduto i Fiumi, E sono i letti lor sterili arene; E dentro il mare gli ondeggianti Numi Soffron di grave arsura estreme pene. E ‘l vento, ch’ in quei torbidi volumi Essercita d’orgoglio ultime lene, Chiuso non spira; e in se da l’ima terra Arso d’ira a se move acerba guerra. XX Ma più d’ogni altro Borea, a cui l’Estate Lungo carcer prescrive in lacci stretto, Con forze d’ira, e di furore armate Fatto di se maggior rompe il ricetto. Da la caverna de’ Rifei slegate L’ali in aria dispiega; e à furie eletto In alto imperversando al Sole in faccia Ardente assalitore onte minaccia. XXI Ciò, che scontra Aquilon fiero tra via, Od inchina, o divide, o spinge al piano; Scosso da quel furor l’augel partía A nido più sicuro, e più lontanto: Agitata da lui l’Elce muggía; E la torre crollava al moto insanol E si vedevan con scoscese fronti Nel campo dirupar gli eccesli monti. XXII Ma da gl’ incendi del lucente Dio Vie maggiormente acceso in mar s’abbassa, E qual Baccante, o furibondo Enío Ogni ogetto, ogno scontro urta, e fracassa. Con aspro formidabil mormorío Lacera ogn’ onda freme; e franta, e lassa A l’impeto del Vento urla feroce, E ‘n campo d’ira hà di terror la voce. XXIII Ogn hor più cresce d’Aquilon l’orgoglio; Poich’ il soave Zeffiro ivi scorge Di gioia trionfare; e a lui cordoglio La contentezza de gli Amanti porge. Ove il Siculo mar tra doppio scoglio Si stringe, e l’onda rimbombando sorge, Già già la Nave rimirar potea Cariddi disdegnata, e Scilla rea. XXIV Ivi più fiero l’Aquilon s’oppone, E ristretto à quel varco hà maggior forza. Resiste il Legno, mà più ria tenzone Borea contra gli Amanti ivi rinforza; E stima, inoltraggiarli, haver corone Degne de le sue furie, erra, e si sforza Come Padre di gel volgere al fondo De la beltà d’Etruria il Sol giocondo. XXV L’onda in valle ruina, e poi sù l’alto Risorge in foggia di spumoso monte: Par, che mova a le Stelle audace assalto, Ed alzi in Ciel la tempestosa fronte. Disperso è ‘l regno del ceruleo smalto, Nè più val sostener di Borea l’onte. E, se sacro non fusse il Legno à Giove, Soffrirebbe di danni ultime prove. XXVI Era il Sol chiaro, e Giuno non copría D’horrre i campi del suo regno errante; Nè Giove a l’atre nubi il sen fería Con la triforme vampa fulminante: Il balen non ardéa; ne ‘vi s’udía Con spavento mortal tuono sonante. La Prole d’Eulo non fremea rubella, E pur l’Ionio havea fiera procella. XXVII Chi vide mai, che senza nubi il Cielo Potesse mai recar procelle amare, E senza pioggie tempestose il gelo Cresca, ne’ giorni estivi, in seno al mare? Borea, a le vampe del Rettor di Delo, L’Ionio sospingendo, ivi inalzare I flutti gode, e prende i legni à scherno; E l’Aquilone al mare è Vento, e Verno. XXVIII Da l’onda procellosa è spinta in alto La grand’ Orca, ch’ un scoglio rappresenta, Ed il Delfin con tempestoso salto In fino al Ciel’ horribile s’avventa. Il popol muto de l’ondoso smalto Disperso in aria il fine suo paventa: Stupido mira, ch’ il Sol luce, e pure Il Furor procelloso hà notti oscure. XXIX Il Ciel l’ordin del Fato, e de le Stelle Per tutti gira, e con sinistro aspetto Le faci sovra noi vibri rubelle, Per farne di miseria aspro ricetto; O da sembianze gratiose, e belle Influssi piova di sovran diletto. Soggetti sono a’ Fati ò buoni, o rei Le proprie Stelle, ed i medesmi Dei. XXX Nè puossi homai più contrastare à l’ire, Ch’ Aquilon sovra Zeffiro raguna, Sì ch’ ei non tema il forsennato ardire, O infesta al suo cammin non sia Fortuna. Anzi frà tante scosse homai perire Franto da scogli si rimira; e bruna, E profonda vorago in cupa notte De’ Numi il Legno vacillante inghiotte. XXXI Quando Nettuno, c’hà de’ mari il regno, E le tempeste al suo voler raffrena, Da l’antro, ov’ egli giace, ode lo sdegno, Ch’ i Toschi Numi à rei perigli mena, E in un sossopra co’l sacrato Legno Balza à le Stelle la Sicana arena; Le forze à contrastarli il varco stringe, E indietro ne l’Ionio il Legno spinge. XXXII Fuor di gran Scoglio, che nel mar s’inalza, Sorge il temuto Dio de le salse onde, E su la cima i suoi corsier’ rincalza Da le più cupe risonanti sponde. I crini de’ Destrier spargon la balza Di lor cadenti brine; e le gioconde Luci del giorno par, che mirin lieti, Tolti da l’omre de l’interna Teti XXXIII Ma Nettuno, che scorge il Vento infesto Mover guerra a’ suoi Regni, in lui converso Fisa grave lo sguardo, e à l’ire presto Tra l’acque hà ‘l volto suo di lampi asperso Alzo la mano; ed in quel lato, e ‘n questo Il tridente girando. A che disperso (Dice) veggio per te, Borea oltraggioso, Senz’ i gran cenni miei l’impero ondoso, XXXIV E come hora, ch’ il Ciel ferve d’ardore, Gelido contra ‘l mar spandi il tuo volo, E Nave, che Dei porta arsi d’amore, Travagli audace nel ceruleo suolo? Sù Numi, ch’ al Tirren, seggio d’honore, Guidate il Legno, ch’ al Rettor del Polo Mio germano è sacrato, il reo stringete, E vendetta da lui degna prendete. XXXV Intimorissi Borea al sommo accento; Che tal’ ancora indomito Leone La libertà natíva, e l’ardimento A’ cenni del Rettor pronto suppone. Pur, benche vinto sia, reca spavento, E move, benche vinto anco tenzone; Tra le catene a l’Arbor sacra stretto Spira dal sen, dal volto ira, e dispetto. XXXVI Indi Nettun comanda a’ Dei del mare, E de’ Fonti, ch’ al sacro, amico Legno Faccian superba corte; e ‘n foggie rare Secondino la via del salso Regno. Poscia, per ritornar ne l’onde amare, Dando a’ spumosi suoi destrieri il segno, Scote flagello di coralli altero, E s’apre in ampia via l’ondoso impero. XXXVII Scende l’humido Dio ne la gran Reggia Fabricata di lucido cristallo, E si riede a le stanze, ove pompeggia Ogni gemma, ogni perla, ogni corall: Placida nel mar l’onda si vagheggia, Non più s’innalza il flutto Ionio; e fallo Mite il suon di Nettun; pace soggiorna, Ove fù guerra, e ‘l mar nel mar ritorna. XXXVIII Mille accorron dal Mar Fonti diversi, E mille Numi a la pomopsa festa Chi d’apio hà i crini, e chi coralli tersi Alza per chioma su la molle testa. Altri con canna stringe i crin dispersi, Altri di ricche perle orna la vesta: Chi d’argento coprirsi hà per suo vanto, E chi di gemme hà tempestato il manto. XXXIX Un si vede, che frena altier Delfino, Ed ondeggiando và su mobil piano; L’altro regge per remo alpestre pino, E tutto squame è ‘l sen, squame la mano. Chi di lor preme un’Orca, e cristallino Hà ‘l piede, e ‘l crine, e chi d’aspetto humano, Ma con scaglioso pieded apre il mar fiero, E pompa a’ Numi è un’ Elemento intero XXXX Quì con Tritone suo Cimmotoe gira, E innestano fra lor dolci gli amplessi. A gara l’un de l’altra amori spira, E tra lor son gli scherzi, e i baci spessi. V’ è Salmace la bella, e andar si mira Di due sessi superba; e i flutti anch’ essi Cercan (co’l circondarla) in lei godere Di Natura, e d’Amor dolce piacere. XXXXI Glauco, lo Dio, non più ne’ pesci intento, Ma volto ver gli Dei cangia costume; E dietro la gran Nave à par del vento Rade, benche sia veglio, à vol le spume. Ino non versa quì grave lamento, Ma gode a l’altrui gioie, e dal suo lume Così vaga d’amor luce scintilla, Che tutta l’aria intorno arde, e sfavilla. XXXXII E la leggiadra Spio con Melicerta, E in un co’l variabile Vertunno Van radendo la via de’ flutti incerta, E l’erranti campagne di Nettunno. Neera ancor, ch’ i primi vanti merta, Non lunge và dal placido Portunno; E con Nereo Cimmodoce, che vale Far’ un Cielo d’Amor l’ondoso sale. XXXXIII Tra quelle Ninfe, che del Legno sacro La pompa accompagnavan dilettosa, V’ è Galatea, ch’ è pregio, e simulacro De la Reina d’Idalo amorosa; E come il Sol nel mare hà ‘l suo lavacro, Quì tuffa anch’ essa i membri suoi vezzosa, E vaga è tra le Ninfe, come suole Esser tra mille Stelle unico il Sole. XXXXIV E non lunge da lei giovan si vede, In cui Natura ogni beltà comprende; Aci è garzon sì vago, e dolci prede Fà de la Ninfa, è ‘n lacci il cor le prende. Se ‘l Sole, e Cinthia sù l’eccelsa sede Non splendesser’ a noi con lor vicende; Questi co’ volti lor per beltà rari Foran la Luna, e ‘l Sol de’ nostri mari. XXXXV Chi di lor batte a numero la scaglia, Ed a l’aria rendeva accento raro; Scote cave testuggini, e v’ uguaglia Altri qual suon la Cetra habbia più caro. Chi da canne palustri a l’aure scaglia Acuto suono; ed altri il regno amaro Scorrendo a balzi, con la man le vote Parti d’un rame strepitoso scote. XXXXVI Da conche ancor s’udian vaghe, e ritorte Spandersi a l’aria armoniosi accenti. E da ricurve trombe in varia sorte Dolcemente confusi usciano i venti. Liete a danze d’amor leggiadre scorte L’Aure facean con musici strumenti; E non haveva il mar ceruleo speco, Che del gioir de’ Dei non fusse l’Eco. XXXXVII Poscia i Marini Dei sciolser da’ petti D’ogni soavità note ripiene. Non più nemico de gli altrui diletti Turbi Borea crudel le salse arene, Nè più d’atre tempeste ampi ricetti Sien l’Ionie campagne, e le Tirrene. Perche in Italia torni alta beltate, Amiche a’ Toschi Numi Aure volate. XXXXVIII Frema il crudo rubel fra torti lacci, Indarno spiri ingiurioso, e fero; Co’ guardi inutilmente il Ciel minacci, E lieto di Nettun miri l’impero. Avvinto i piedi, e catenato i bracci Stiasi infelicemente il Mostro altero. In vano hà sdegni, in darno hà feritate, Amiche a’ Toschi Numi Aure spirate. XXXXIX Scuota ogn’ un le catene, ond’ egli avvinto Giace miseramente al sacro Legno; E da gli urti di noi frema sospinto, E contra se per duol volga il suo sdegno. Gioia n’occupi l’alme; il forte è vinto, E de gli scherzi nostri è fatto segno. Son nel feroce cor l’ire mancate, Amiche a’ Toschi Numi Aure scherzate. L Vè, che per sdegno par’ inaspri il ciglio, E scota in un la catenata mano; Sembra, che l’aria ancor desti a periglio, E correr voglia il procelloso piano. Ma lieve sforzo, e inutile consiglio Hà l’ira insana, e l’ardimento vano. Il rio furore in lui l’ale hà tarpate, Amiche a’ Toschi Numi Aure girate. LI Dibatte il folle de la chioma il gelo, E svelle disdegnoso il bianco crine. Fulmina con le luci; e par, ch’ al Cielo Osi recar’ altissime ruine. E teme, e fassi qual tremante stelo De’ venti al soffio sù le balze Alpine. E ancor le guerre in lui spiran rinate, Amiche a’ Toschi Numi Aure danzate. LII Già manca il fiero, già languisce, e posa. Tutte hà tentate in van le vie de l’ira. Già l’alterigia in lui sì minacciosa Intepidirsi, e perdersi s’ammira. Non più dal suo venen vita sdegnosa Hà il rio Furore, e debellato spira. Trofei, con liete pompe, a l’aure amate Amiche a’ Toschi Numi aure spiegate. LIII E giovi scherzar, vinto è ‘l rubello, Giace sicuro il pelago da’ flutti: Non più, non più contra noi rechi il fello Annunzij miserabili di lutti. Il Cielo ne seconda con novello, E stabile sereno. Odansi tutti Ridir. Per bel trionfo ale odorate Amiche a’ Toschi Numi Aure spiegate. LIV Intanto da quei scogli a l’aure fuore Per bel trionfo replicar s’udiva; E in voci rispondeva ancor canore Aure la vaga, e ripercossa riva; E fin’ il Cielo per honor maggiore Toschi Numi nel suon dir si sentiva. E quasi fusse il Mondo un cavo speco, A honor de’ Toschi Numi era fatt’ Eco. LV Così lieti se n’ gian Zeffiro, e Flora; E risolcavan di Sicilia il mare, Catenato Aquilone ad hora, ad hora Havría mosso, fremendo, irate gare; Ma vano de l’ardir, ch’in lui dimora, Lo sforzo in lui sentía. L’Aure scherzare Veggonsi al Legno intorno; e ‘l Dio di Delo Coloría ‘l mare, e serenava il Cielo. Il fine del sesto Canto. Canto Settimo Argomento Aci ardendo per lei, ch’ è Dea de’ fiori, Galatea sprezza, ea cui spiega sua pena In darno Polisemo: Eolo incatena Borea; ed Aci ritorna a’ primi amori. I Tra le pompe del mare Aci il vezzoso Tutto se n’ giva de’ suoi pregi altero, E l’Idolo de’ scherzi dilettoso Sembrar poteva entro ‘l ceruleo impero. Il crine di fin’ or splende fastoso; E doppio hà ne le ciglia arco guerriero, Donde folgora dardi, e ‘n dolci ardori Saetta l’alme, e incenerisce i cori. II Paion le luci due rotanti giri D’un animato Ciel, ch’il tutto avampi, E felici sospiransi i martiri, Che nascon fuor da sì beati lampi. Chi fia, ch’intento quelle gote miri, Non vien, che da l’ardor sicuro scampi, Benche tra fresche rose in quel bel volto Primavera il suo regno habbia raccolto, III Vivi rubini son gli accesi labri, Che fra denti, di perle han lor ricchezze; Di dolce morte altrui vermigli fabri Tra vampe di delitie, e di bellezze. Ch’ avanzan de l’Aurora anco i cinabri, E sin di Citherea l’alte vaghezze: Alabastro è la fronte, avorio il collo, E sembra Ganimede, e vince Apollo. IV Questi di Galatea gran tempo acceso Ne la Sicania sol di lei languío. E con gli affetti a quelle luci inteso. L’adorava d’Amor novello Dio. Quand’ ei ver Flora il guardo suo disteso, Ed ogni hor più scorgendo in lui natío Il fior de la beltade entro il suo core Prende le fiamme, e concepisce amore. V Ah che non puote un legiadretto volio? Ah che non vaglion due vezzosi sguardi? È ‘l vecchio ardor da novo amor ritolto, E cruda piaga hà da novelli dardi. Và da la prima servitù disciolto; E son gli antichi affetti infermi, e tardi. Flora vagheggia; in Flora vive; e Flora Qual’ Idolo d’Amor con l’alma adora. VI E seco dice. Qual beltà di Cielo S’offre a’ miei lumi sovra ogn’ altra vaga? Avampo, bench’io sia nel mezo al gelo, E ‘l mio cor di tal Dea solo s’appaga. Felice me, se da sì dolce telo Mi vien’ a l’Alma salutevol piaga. Purch’ ella sia mia Diva, ed amor mio, O Ninfe a Dio, o Galatea a Dio. VII Non hanno i mari aspetto così degno, Che vaglia pareggiar di Flora i rai; E se potesse dal ceruleo regno Novella Citherea risorger mai, Ella sarebbe: se non c’hora il segno Di Venere ella avanza; e dirsi homai Potria, ch’ il mar due Veneri albergaro. Ò sol di questa Venere è ‘l mar chiaro. VIII Vili a me, Galatea, sono i tuoi crini, Che di cristallo sembrano, e non d’oro; E quelli, che stimai pregi marini, In costei son del Ciel ricco tesoro. E s’ in te vagheggiai coralli fini, In lei ricchezze d’alte gemme adoro. Galatea più non t’amo; arde il mio core Per lei, ch’ è nova Galatea d’Amore. IX Deh chi dicesse mai, che dentro il mare Fiore sì vago soggiornar valesse? E, dove tante Ninfe han lampe chiare, Quì l’Anfitrite de le Dee splendesse? E per Flora, c’ hà forme al mondo rare, Primavera nel mar fiorir potesse? Godete, ò flutti, a Nume sì gentile, Hà ‘l Mare ancora il suo vezzoso Aprile. X Fonte (ahi lasso) son’ io, ma ben conviene, Ch’ un’amator, ch’ in lagrime si stilla, Si scioglia per amore in flebil’ vene, E mista donde sia la sua favilla. E se ‘l provar per lei soavi pene, Si prezza del mio cor gioia tranquilla, Si dica. Aci di Flora arde al sembiante, Ed un Fonte d’un Fiore è fatto amante. XI Ma Flora punto non curava i lum De l’Amator, che lagrime sciogliea; Bench’ ei con cento torbidi volumi Del mar colmasse la campagna rea: Che sovr’ ogn’ altro Dio di fonti, ò fiumi Ella il core per Zeffiro accendea: E per Zeffiro in se godeva ardente Tranquillissimo il cor, lieta la mente. XII Sì che l’ Amante dispregiato, e schivo Più s’accendeva del suo novo foco; Ogn’ hor cresceva in lui l’ardor più vivo, E ‘l core a pena a tante fiamme è loco. A la Nave hor s’appressa, hor semivivo In dietro resta, e del mar fatto è gioco: E più, ch’ un fonte in mar, da doppio lume Versa d’interno duol gemino Fiume; XIII Nè men dolente si vedea la bella Galatea scompigliarsi il ricco crine, E fatta con le mani a se rubella Ama le gote lacerar divine. Crudel a’ voti suoi chiama ogni stella, E n’ode rimbombar l’onde marine. Poi dice. A che beltà più meco stai, Se freddi in te son di beltade i rai? XIV Vane (ah Destino) fur le notti spese Con te ne gli antri fra soavi amplessi, E quelle, che dicei, care contese, E gli scherzi tra noi d’amor sì spessi. Hai rivolte le gioie in aspre offese, E laberinti a me di cure intessi. Non sò, se Diva sono, ò se mortale; S’ in me duolo, od Amor scocchi lo strale. XV Fra queste cupe risonanti valli, Ove Nettuno hà d’ ogni mostro il nido, Siate lunge da me perle, e coralli, E ciò, che diemme del mar’ Indo il lido Indegni amori, detestabil’ falli D’ astro a miei voti gravemente infido. Aci imberbe garzone, Aci incostante; A par de gli anni tuoi legiero Amante. XVI Ah, che pria sovra il mar scender vedrassi Da gli alti giri il fulminante foco; Rapidi i fiumi al corso saran lassi, Sarà ‘l pesce de l’aria ignobil gioco: Lievi sù l’acque andran gli alpestri sassi, C’ habbia in cor giovinil fermezza il loco. E, dove in frale età son gli anni infermi, La fè si stabilisca, amor si fermi. XVII Io mi credea, ch’ Amor fusse una fede, Che stabil, qual colonna, in noi posasse, E che la fè, che saldo amor richiede, La sua fermezza a’ scogli egual serbasse. E che frà lor cangiando habito, e Sede, L’un ne l’altra vivesse, ed albergasse; Ma trovo, ch’ è la fè lieve, qual dardo; E Amor si cangia ad un girar di sguardo. XVIII Sembran gli augelli l’amorose voglie, Ch’erranti vanno dispiegando l’ale, La speme rassomiglia aride foglie Scosse da forza rea d’impeto Australe: E qual’ il pesce in acqua il guizzo scioglie, Tal’ è vario l’Amore; ed è sì frale La Pace, che ne’ cor stassi festosa, Ch’ è l’aura, ed il piacer tutta una cosa. XIX Ben veggio, che Cupido i vanni stende, E ch’ instabil non posa a’ voti altrui. Venere il suo natal dal flutto prende, Che variabil sempre hà i moti sui: E che la fiamma, ond’ ella i cori accende, Sempre incostante si dimostra a nui: Hora vuol’, ho disvol l’amante core; E l’Amore è de’ cori incerto errore. XX Ma, deh, che mento? Ah ch’ Aci mio sol’ amo, Ed hò crude per lui, ma dolci pene. Aci a’ miei prieghi dolcemente chiamo, Ch’ ei sol mi spiri al core aure serene. Aci chiedo, Aci spero, ed Aci bramo, Che di gioia d’Amor m’ empia le vene. Ecco pur Aci mio, stretto t’abbraccio, E con le man’ ne l’amor mio t’allaccio. XXI Ma folle, e dove sono? io stringo il flutto, E d’acqua il seno mio tutto è risperso: E ben sembrami un’ onda egli, ch’n lutto Hà quì nel mare ogni mio ben converso. Ah ch’ egli è per me gelo; e fatto è tutto Un flutto, ch’ ad un tempo erra disperso. Infelice vaneggio; e dentro il mare Son mare a me di turbolenze amare. XXII A questo suon radeva il sacro Legno De la Sicilia le famose sponde; Nel suo corso l’Italia havea per segno; Ed a pena il sentier segna ne l’onde. Quand’ ecco Polifemo, al cui sostegno La terra alza gran rupe: ed infeconde Eran’ al pianto suo l’herbe del monte, Erse le Ciglia, ed arrestò la fronte. XXIII Attonito è il Pastor, ch’ un pino in mare Stringe per verga, e ne la fronte hà un lume, E, se note dal sen suole snodare, Avanzar grave tuono hà per costume, Poiche rivede Galatea, ch’ amare Un tempo osò; ch’ addolorato Nume Ivi è fatta de l’onde; ed Aci il bello Era per Flora a gli amor suoi ribello. XXIV Sceso in riva del mar disse a la Diva, E fatigava in raddolcir gli accenti. Ah bella sì, ma cruda, hora, che priva Sei d’Aci, non sdegnare i miei lamenti. Che sdegnarli nè men l’estrema riva Suol, qual’ hora li rende al suon de’ venti. E da le tue miserie intender dei, Quanti miseri in me son gli amor miei. XXV Ancor’ ardo; ed al par di Mongibello Sono ineshauste del mio cor le faci; Ardor nudro per me sempre rubello, E turbate da te provo le paci. Tutte le greggi in questo lato, e ‘n quello A te riserbo, e i parti lor feraci: E colti havrai da’ rami, e tra le selve Rapidi augelli, e fuggitive belve. XXVI Ma non apprender già da’ doni miei D’esser ancor tu fuggitiva, e fera; Ma tu da loro ben comprender dei, Ch’ anco è raggiunta, e presa ogni alma altera. Sò già, che di bellezza il Sole sei, E i cor’ saetta la tua luce arciera; E la mia fronte ancora un Sol diserra, Ma tu fulmini il Mare, ed io la Terra, XXVII E s’ hai le stelle per tuo specchio in Cielo, Non men’ il Mare è specchio al mio sembiante: Ma s’ a te piace l’indurato gelo, Che nudre ne la cima Etna fumante, Io ardo co’ sospiri a l’aria il velo, E sono al’ Apennino egual Gigante. E s’ i membri hò di velli hirsuti, e foschi, Anco tra noi la Terra hirta è di boschi. XXVIII Sù questa canna, che di larghi cavi In cento lochi mirasi dischiusa, Spiriti infondo, e con le dita gravi V’ animo i carmi, ed a me son la Musa. Te piango al suon de’ versi miei soavi, La Reggia di Parnaso è in me rinchiusa. E se ‘l Fonte vi manca, al patrio monte Solo il mio piante è d’Helicona il fonte, XXIX Ma vè, ch’ella si duol, vè, che discioglie Al mio suon dal suo petto aspri sospiri, E da le luci sue vene hà di doglie Testimonij d’Amore, e di martiri. Stolto, e che veggio? sol per Aci accoglie Il duol, che dal sen versa, e da’ bei giri. Ah che vaneggio, e son nel salso chiostro Non men del mar, che di miserie, un mostro. XXX In più pezzi la fistola divido, Nè più risuoni stridula gli amori. Hor più d’un’ Etna nel ceruleo nido. Immortal desti più voraci ardori: Solo Pistrici, ed Orche accolga il lido, Austro v’ eterni procellosi horrori; Ed habbian contra i legni in lati vari Cento Cariddi, e cento Scille i Mari. XXXI Ah cruda, un, che si duol, riguarda almeno; E, se brami seguire un, che ti fugge, Scorgi, men’ aspra, chi per te vien meno, E perche non ti segue, egli si strugge, Vedi, ch’ al viver mio già lento il freno, E fatto il Mar per me pietoso mugge; E mira, chi con note di dolore Potè pria ‘l Mare intenerir, ch’ un core. XXXII Ma dove son, che parlo? ella è partita, E seco porta ogni mio bene a volo. A che tardate, o Mostri? amica aita Date, co’l divorarmi, a l’aspro duolo. E se la greggia mia da voi ferita Tal’ hor ristoro a voi fu vile, e solo; Sù me pascete ancora i desir vostri, E basti un Polifemo a mille mostri. XXXIII Sù me, sù me cadete antri, e dirupi, E dentro le voragini affamate Orse feroci, e insidiosi Lupi A le mie membra sepoltura date. Disse; e risposer da’ ricetti cupi I flebil’ Echi, e l’Agne addolorate. Languendo ei cadde; e tutta a la percossa L’Isola fù dal terremoto scossa. XXXIV Drizzava intanto la superba Nave Là, dove il Re de’ venti alza la Reggia; E fuor, che Galatea, l’amica trave Lieto il choro seguía, ch’ in mar festeggia. Spira l’istesso Zeffiro soave; E de’ cerulei Numi ivi pompeggia La corte à gara; e ver l’Eolia riva Con lo stuol di Nettuno il Legno arriva. XXXV Flora, e Zeffiro approda, e sù l’arena Conduce seco il rigido Aquilone, Che, bench’ avvinto, hà temeraria lena, E da perdite sue move tenzone. Pur segue; e dove l’altrui forza il mena, Và de gli oltraggi altrui servo, e prigione. E freme sì che d’Eolo in sin lo speco Fatto è di Borea formidabil’ Eco. XXXVI La roza d’Eolo horribile spelonca, Ove alberga de’ Venti la famiglia, Tutta è di pietre mal composta, e tronca, E l’uscio hà di macigni ombrose ciglia. Ond’ hedra fuori, non incisa, o monca, Ma folta serpe, e a’ sassi in un s’appiglia. E a quelli avviticchiata atroci, e spesse Con la ruina sua ruine intesse. XXXVII Entro a le cave pietre, in grave suono, Con dispietato, rigido fragore S’ode mugghiare strepitoso il Tuono, E vi mesce il Baleno ire d’ardore: E di quell’antro habitatori sono Terremoti del Mondo ultimo horrore: E sdegnosa tal’hora entro quel loco La Saetta vi spiega ale di foco. XXXVIII Eolo al romor si desta, e come suole Scote lo scettro con la man pesante; La sua famiglia da l’interna mole Con formidabil volo accorre errante. Ed ei, fremendo, a’ chiari rai del Sole Fuori se n’ viene in rigido sembiante. E già già dir volea. Chi verso mè Indrizza audace a’ regni d’Eolo il piè? XXXIX Quando visto la Dea, c’ ha i fiori in cura, Ed è Nume gentil di Primavera, Dice. E qual mi ti manda alta ventura, Ond’ a te serva la mia alata schiera? Vienne, ò Dea, che di Florida verdura Ornar puoi, qual’ hà rupe il suol più fiera: Nemica sei del tempestoso Verno, E destar puoi tra l’onde Aprile eterno. XXXX A cui Flora. E’ ragion, ch’ a te ne vegna, Ch’ è ‘l tuo Zeffiro à me consorte amato. E per commando di Nettun, che sdegna Sù ‘l caldo imperversar di Borea il fiato; Vuol, che quì di tua man la furia indegna Si ponga al giogo del rubel gelato. E chi fiero nel mar contra noi venne, Quì chiuda prigioniere al sen le penne. XXXXI Eolo co’l cenno ad Aquilone impone La carcere, e ‘l rubel frà lacci è stretto; E l’audacia deposta, e la tenzone, Humil’ hà ‘l volto, e mansueto il petto. Sì che l’aria si tempra, e la stagione Ivi di Primavera hà ‘l suo ricetto; Ch’ ov’ hanno Flora, e Zeffiro il soggiorno, E’ ‘l Ciel tranquillo, ed è ‘l Terreno adorno. XXXXII L’Aure intanto a le gioie ispiegan l’ale, Ed hor volando, ed hor danzando vanno; Altre son ratte più d’ardente strale, Ed altre maestà ne’ moti v’hanno: Chi si rivolge in giro al turbo eguale, Ed à chi gratia i salti agili danno. Chi gira, chi s’incontra, e chi si parte, E al suon de’ venti dilettosa è l’arte. XXXXIII Hora la man s’intreccia, hor s’abbandona, Ed hora il suol con grave piè si scote; Hor treccia, hor rassomigliano corona, Ed hor sembrano squadre, hor forman rote. Ed a rappresentare ogn’ un tenzona Arti d’industri laberinti ignote; E, intrecciando co ‘l piè giri novelli, Far vaghi Euripi, e far Meandri belli. XXXXIV Ove l’Aure ponean l’orme del piede, Ne la grotta nascean candidi Acanti, Ed in quei chiostri pullular si vede La porpora immortal de gli Amaranti. Di bel rubino, ch’ ogni luce eccede, La Rosa vi spandea pregi gemmanti; E ‘l Giglio, che parea sparso di brine, Di vive perle incoronava il crine. XXXXV De la beltà di Flora Eolo godea, Nè ‘l Mondo più con le sue furie sferza. E lieto a’ rai de la Toscana Dea Anch’ ei co’l volto, e con gli applausi scherza. Nè tempestoso più, come solea, Sovra la turba sua move la sferza: E, se ‘l Veglio potea raccorre ardori, Tutti gli spirti suoi foran’ amori. XXXXVI Vaghi di riveder l’Etruria intanto, Lunge da Borea catenato, i passi Volgon gli Amanti; e con più lieto vanto Inver le patrie lor contrade vassi. Poggian sovra la Nave; ella altrettanto Lieve, quanto felice da quei sassi Sù pe’l mar si dilegua; e per sua scorta Seco al viaggio i Dei de l’Arno porta. XXXXVII Sol Galatea da sì bei scherzi lunge Stette per Aci in mar grae, e pensosa. Pur s’ il corpo da lui, non già disgiunge Il cor, nè sdegni annida alma amorosa. Sempre a’ sospiri suoi gemiti aggiunge, E fatta è di martir Diva bramosa. Ed Aci visto al fin vano il suo voto, Più ‘l suo Core non ha per Flora immoto, XXXXVIII Anzi, bench’ egli a lei fusse rubello, Scorto, che pur costante Galatea Del rival Polifemo, odioso, e fello. Le preghiere, e l’amore spregiato havea, E ch’ altri, che lui sol, fra quel drappello Di Numi, vagheggiar non si vedea; Torna a gli antichi affetti; e vuol, ch’ emendi Ardor più vivo i tralasciati incendi. XXXXIX Onde con lei ristretta, a i dolci amplessi Accompagnando i baci, amante dice. Chi sempre hà nel’ amor gli affetti istessi; Hà nel regno di pace alma felice. Che l’union, che gli ordini hà connessi, Opra è tra noi divina; ed infelice. E’ lo stato di lui, ch’ in ira al Cielo Hor teme il caldo, ed hor paventa il gelo. L Fede, in crear, conservan gli Elementi, E cangiar qualitade hanno a disdegno: Serban l’istessa impressione i Venti, Ed han sempre una via ne l’alto regno. Ciò, che Giove ne’ campi suoi lucenti Una sol volta elesse, hà stabil segno, Che mai non si prverte; e quindi è nato A noi ‘l Destino, ed a le cose il Fato. LI Al variar, che fa l’Anno corrente, Ed hor l’Estate cangia, ed hor il Verno; Ogni cosa è nel Mondo egra, e cadente, E s’è fragil la Vita, è ‘l duolo eterno. Anzi la Vita, che di sangue ardente Si varia in tante età, di Morte è scherno. Ed ò stabil per noi sorte gradita, Se stesse in gioventù ferma la vita. LII Un, che può disamar ciò, ch’ amò pria, Quegli esser può nemico anco à se stesso; E chi mal cauto à se contrario sia, Più di follia, che di ragione, è impresso. Quand’ altri ha la ragione in sua balía, Fia di prudente il nome a lui concesso, Se tra spaventi posto, e fra perigli Hà stabile il parer, fermi i consigli. LIII Dunque à giusta ragion folle e tenuta Quell’anima incostante in fra mortali, Che spesso amori à se contraria muta, E serba nel suo sen tempre ineguali. Di saldo core la virtù rifiuta, Ed hor rade la terra, hor’ erge l’ali. Nè sà, che quel, che Giove in Cielo elegge, Di stabil mente è incommutabil legge. LIV Nè vanto sia d’Amor, ch’ egli sol possa, Come suol far l’adusta Rondinella, Del più cocente Sole a la percossa, Sotto Ciel mite amar stanza novella. Che, se ben sai, la Tortora hà rimossa Dal Cor sì varia fè, nè mai rubella Mirasi de l’amante, e a quello unita Pria, che manchi la fè, manca la vita. LV Più volea dir; ma Galatea non vale Più soffrir così teneri concenti. Trafitta il seno d’amoroso strale Sciogliesi in soavissimi contenti. Se non che l’Aure con virtù vitale Gli spirti lor temprarono languenti. E tanto più l’amor fra loro piacque, Quanto da sdegno van l’amor rinacque. LVI Così nel Verno rigido importuno, A l’hora, che tra nubi horribilmente Giuno con volto minaccioso, e bruno Scuote da l’urne sue più d’ un torrente, Se ‘l Sole a noi risorge; e raggio alcuno Rota fra l’ombre de la notte algente, Gioia riprende il seno, e pace il core, L’aria è diletto, e l’universo amore. LVII Sì che del salso mar gli Dei s’unirono; Vollero in queste note il suon diffondere, E con interni applausi a lor s’udirono Animati dal sen gli Echi rispondere. Sempre d’amor sù ‘l Cielo i Dei gioirono, Nè men tra l’ombre Amor si puote ascondere, Ch’ ei vaghe le caligini può rendere, E chiaro a par del Sole intorno splendere. LVIII Non più si vegga in noi lo spirto flebile Per gravi cure acerbamente gemere; Nè punta l’alto sen d’ira indelebile, Contra l’opre d’Amor l’anima fremere. Benche a gli affanni sembri infermo, e debile, Vittorioso Amor può ‘l tutto premere: Hà, nel perder, felice il suo dispendio, Gli è ‘l giogo libertà, vita l’incendio. LIX Poiche così le Stelle non sfavillano, Com’ egli chiaro de’ suoi lampi indorasi, Al suo sembiante l’aure si tranquillano, Zeffiro si serena, e Clori infiorasi. Del Sole i raggi a l’ardor suo scintillano, E de le sue bellezze il dì colorasi. A se Venere è foco, e refrigerio, E con Giove hà comune Amor l’imperio. LX Con tai pregi d’amor sù l’onda labile Correr Flora con Zeffiro rimirissi, Nè sotto estivo Ciel Borea dannabile Scoter l’ale di giel sù loro ammirissi. Ma sol fatto di se Zeffiro stabile, E de la Flora sua contento girissi: Non più sù lor procella ire solliciti, E nave à Giove sacra il Ciel feliciti. Il fine del settimo Canto. Canto Ottavo Argomento Inferma a’ rai del Sole avvampa Flora, Ma da Glauco hà ristoro; indi Tritone Canta l’opre Medicee; ed Arione Con alte lodi il vicin Parto honora. I Ripercoteva ancor da l’alto Cielo Sù ‘l Regno variabil di Giunone Con saette d’incendio il Dio di Delo, E di Teti accendea l’ampia magione. In fiamme Nereo distemprava il gelo: E più del caldo, che del mar, Tritone Sentia l’offese; ed i cerulei campi Avvampavan a’ raggi, ardean’ a’ lampi. II Parea, ch’ il Cielo tutto fusse ardore; E che ne’ spatij de l’eterno regno Da la sua chioma diffondesse fuore Ogni Stella alti folgori di sdegno. Giacea Nettun’ senz’ alga, e senza honore Fatto a se Nume di se stesso indegno; E de l’acque i ristori a quell’arsura Anhelante temea perder Natura. III Vedut e havresti (ò miserabil vista) Fin l’istesse Aure attonite; e focose Non più l’onda solcar di gelo mista, Ma spennacchiate haver l’ale di rose: E a se con vampa dolorosa, e trista In lento mormorío fatte noiose, Senza più spander’ i lor vanni a volo, Più, che d’amore, sospirar di duolo. IV Languir’ a un tempo, rimirossi il choro De’ Numi ondosi, ch’ a la vaga Dea (Fregiando i molli crin’ di gemme, e d’oro) Dilettosa di se mostra facea. Senza speme nel mar, senza ristoro Fervida a’ rai del Sol l’onda paréa. Nè respiro era in mar, ch’ entro quel loco Non somigliasse di Vesuvio il foco. V Così nel sen de l’Africane arene, Ov’ hà la piaggia sterile, infeconda. La sitibonda, languida Siene, Di fervid’ Austro ardente vampa abonda; E pur Etna mandar suole in amene Vampe da l’atra sua foce profonda; Ed Inarime anch’ essa alza a le stelle Di faville, e d’ardor nembi, e procelle. VI In fin Zeffiro cangia i fiati suoi, E par che, fiamme anch’ ei dal volto spiri, Nè più lieve (qual suol) ne’ moti a noi, Placidamente co’ suoi vanni giri. Flora il suo seno havea già grave; e poi. La vampa l’accrescea novi martiri, Sì che da pene è scossa; ed in dolori Le pompe si cangiavano, e gli amori. VII E mentre ancor la terza luna mira, Sotto cui nudre la feconda speme, Ansiosa d’ardori intorno gira, E del suo parto vacillante teme. E benche grave non si mostri d’ ira Sù i Numi il Cielo, pur la Diva geme, S’ange, s’estolle, si contorce; e vari Contra le noie sue tenta i ripari. VIII Ma già le vene han da novella face Bevuti incendi di nocente arsura, Lunge dal petto suo sen’ và la pace, E nel seno divin regna la cura. De le natíve rose in lei si sface Il color vivo, e l’eccellenza pura, Onde per farla sovra ogn’ altra bella Spogliò ‘l Ciel di virtude ogn’ alta stella. IX Inver l’Eolia Zeffiro sen’ riede, E ricalca la via, che già trascorse: Ed a lei, che mancar lassa già vede, Ne’ regni d’Eolo con aita accorse. Molt’ opra, molto intende, e molto chiede, E a l’egra Diva ogni rimedio porse, Ma quando avverse a noi son l’alte rote, Potenza d’arte contra il Ciel non puote. X E che non disse, e che non fé l’Amante? Per la sua Flora havea sonni interrotti, E trahea con sollecito sembiante Penosi giorni, e instabili le notti: E spesso discioglieva a l’Aura errante Dal mesto cor sospiri gravi, e rotti; E s’un Dio senza spirto esser potea, Zeffiro privo d’alma ivi parea. XI Ma lievi sono i suoi ristori, e l’opre, E per l’accesa Dea lo studio è vano; Che su quei vivi avori ecco si scopre Orma d’incendio temerario, e strano, Ch’ in varie parti di rossori copre Il bianco de la Dea corpo sovrano. E, come ardenti stelle in Paradiso, Sparge le macchie sù ‘l celeste viso. XII Ne’ caldi rai de la stagion cocente, Il sangue, onde la vita origin prende, A se ‘l natío calore accresce ardente, E fiamma a fiamma entro le vene accende. Sì ch’ arde infetto dal calor nocente, E sù l’estreme membra il foco stende; Bolle, e spumeggia; e sovra i corpi altrui Lascia i vestigi de gli incendij sui. XIII Nè contra foco sì spietato, e crudo Val da l’Aure sperar freddi ristori; Od offerire il petto infermo, e nudo, Ad agghiacciati, e cristallini humori; Ch’ il foco, fatto a se medesmo scudo, Più da’ contrari suoi riceve ardori; E quel, che stimi medicina al male, E’ ne’ suoi refrigerij opra mortale. XIV Dal mal trafitto mirasi il sembiante Lacera in noi lasciar l’estrema parte; E come aperto sia da stral volante, Vestigi haver di cicatrici sparte; Sì che di fori angusti l’anhelante Morbo minute imagini comparte; E teme l’egro core a la ferita Sperdersi la beltà, sciorsi la vita. XV Ma più scioglieasi in vene di dolore Zeffiro, e queste note a lei spandea. O’ de l’anima mia parte migliore, Poich’ in te sol l’eternità godea, Ah che lasso con te langue il mio core, Nè più gode spirar, come solea. Ma vario in ciò per amor tuo mi sfaccio, Che tu d’ardor languisci, ed io di ghiaccio. XVI O Stelle dispietate al nostro bene, S’ il vostro honor compensasi co’ danni. Io godeva in te Flora aure serene, E perpetui hor per te provo gli affanni. Tutto mi stempro in dolorose vene, Non più batto per duol tarpati i vanni. Nè più Zeffiro son, se non in quanto A me l’Occaso è Region di pianto. XVII Tu Flora un tempo fusti il foco mio, Ed hora a te medesma incendio sei. Ah ti struggi, ed io vivo; ah manchi; ed io Non discioglio per te gli spirti miei? Vita, che fai più meco? io d’esser Dio Odio i vanti, s’han duolo ancor gli Dei. Chi fia, ch’ eternità vantar presumi, S’ anco il Cielo è crudel contro i suoi Numi? XVIII Ma (folle) a che mi lagno? il mio lamento Accresce duolo a l’angosciosa Flora. Non più meco martir, non più tormento Faccia dentr’ il mio seno aspra dimora. Flora par, che nel duol prenda contento, Ch’ io scosso dal martir per lei non mora: Flora dolor non mostra; e tutta lieta, Perch’ io non peni, le sue pene accheta XIX O vana, e cieca imagin, che t’aggiri Solo per ingannar le luci mie. Ella di sensi è manca a’ suoi martiri, E preda è fatta di pene aspre, e rie. Ah che l’ hà tolto il duol fin’ i sospiri, E già socchiude i lumi a’ rai del die. Stolto che fai? ben Vento sei, che solo Suono è senz’ alma, e sperde i voti a volo. XX Eolo, a che Borea incatenar potesti, E lasciasti errar Zeffiro dolente? Deh Borea vienne, e refrigerio appresti Il tuo ritorno a incendio sì cocente. Ecco fremer già l’odo; ecco che presti I rimedij ministra a Flora ardente; Forsennato ah che senti? è ‘l mar, che freme; E de le tue follíe sospira, e geme. XXI Misero, da’ nemici attendo aita; Nè scorgo, ch’ al mio male il duol non giova. Se non hai, Giove, la pietà sbandita, Sovra me solo ogni tuo sdegno piova. Nè fia l’offender Diva opra gradita, Ma l’abbatter’ un Dio più degna prova. Io, io sol pera; e s’ un Amore è Flora, Pria, che manchi l’amor, Zeffiro mora. XXII A queste note del fedele Amante Flora sol con le lagrime risponde. Ed eloquente in lei fatto il sembiante Sparge interne d’amor voci faconde. Scendeva il pianto su le gote errante, Nè perle, che del Gange habbian le sponde, Son sì candide, e pure; e le focose Gote parean tra lor campo di rose. XXIII Punta da mal sì reo Flora languía, Ma non men bello il suo languir parea; E in mezo ad aopra sì nocente, e ria Era non meno dilettosa Dea. E s’alcun segno in lei pur si scopría, Segno di fiori somigliar potea; Sì ch’ ella mostra ne’ suoi danni ancora, Che, non meno del nome, opre ha di Flora. XXIV Per molti Soli contra lei fù dura La grave noia de l’ardor, ch’ avvampa, E del parto non men l’interna cura L’acrescea del calor la cruda vampa. Quando Glauco, ch’ in acqua ogni natura De l’herbe intende, e dentro il senno accampa, Quante il Mar ne le spiagge habbia virtudi, Tutti in se volve del saver gli studi. XXV E verso il seno del Carpathio ondoso Drizzo veloce, quasi vento, o strale, E parea sù le vie del mar spumoso Mover più, che le squame, a volo l’ale. Cedon le rupi, ed ogni scoglio algoso Del ratto Nume al saettar fatale. E i flutti ubidienti al suo desio Spianavan’ i sentieri al salso Dio. XXVI Herba v’ hà ‘l lido, che di Stella mostra Imago salutevole, e gradita; E accenna altrui ne la cerulea chiostra, Ch’ è Stella di virtude à l’altrui vita. Prendela il vecchio Glauco, e ver la nostra Italia il corso accelerando, aita (Con dilettosa, e fortunata scorta) A l’anhelar del caldo petto apporta. XXVII Sù ‘l cor de l’egra Flora applica l’herba, Ed aggiunge al rimedio occulte note; Sì che la doglia homai già manca acerba, E dal suo male la virtù si scote. Non più calde nel sen le fiamme serba, Prender da l’Aure il refrigerio puote; E dolcemente à Stella così lieta, Gli affanni tempra, ed i sospiri accheta. XXVIII Sì mentre nave fortemente scossa In mar, che d’ire torbido spumeggia, Spinta hor ne l’Orco è da l’Eolia possa, Ed hor s’inalza à la Stellante Reggia, Hora teme fra scogli aspra percossa, Ed hor tra Sirti di se dubbia ondeggia; Se di Castore à lei la Stella appare, Cedon’ i Venti, e senza flutti è il Mare. XXIX Dal seno a un tempo, e dal divino aspetto Il nocente calor partir si vede, Ma ‘l segno, ch’ ivi il male habbia ricetto D’ offese posto, rigido non cede. Onde il Veglio nel cor novello affetto Per Flora concepisce; e move il piede, Ove di Panacea potenti foglie Sparse di brine gran campagna accoglie. XXX Le brine ancor de l’Amaranto eterno, E quelle in un del Dittamo immortale, E d’ogni Pianta, che sprezzar può ‘l Verno, Accoglie in bianco vaso humor vitale. E poscia a’ primi rai del Dì superno Mesce in un le rugiade; e con fatale Virtù le stringe in cristallino vaso Contra l’ire de’ Secoli, e del Caso. XXXI Poscia aspetta, che Cinthia iscemi il corno De’ suoi maggiori, luminosi argenti, E di quel corpo di bellezze adorno Unge gli avori oltr’ ogni fè lucenti; E per quanto una Luna a noi ritorno Fà co’l suo carro, contro quei nocenti Livori sparge l’immortali brine, Di vita, e di salute opre divine. XXXII Sparve ogni macchia al fin dal leso volto, Ove con gratie a meraviglia belle Tutto lo splendor loro hanno raccolto Le serene del Ciel leggiadre stelle. E ‘l Sol parea, che da le nubi sciolto Fuori se n’esce, e con le su facelle Dal fosco di Giunone aéreo velo L’ombre scacciando, pinge d’oro il Cielo. XXXIII Manca in tanto sù ‘l Ciel la vampa accesa, Che facea ‘l Mondo sfavillar di lampi, E fin l’Autunno con nocente offesa Terminato il suo corso havea ne’ campi. Anzi nel suo principio il Verno stesa Havea la possa, e con sicuri stampi Dal saettar de l’Apollineo Nume. Spargea ne’ prati l’agghiacciate brume. XXXIV Onde al fin da l’Eolia i vaghi Amanti (Come vuol Giove) ritornando a’ loro Primier diletti, radon gli spumanti Regni, e de’ salsi Numi han seco il Choro. Di Seren novo tingono i sembianti Il Sol, l’Aria, e la Terra; e di tesoro Più fin di vaghe pretiose vene Il Mare indora le lucenti arene. XXXV E dopo giorni così mesti, alfine Riprendendo la gioia il suo colore, Mostran’ i Toschi Dei forme divine Miracoli di Venere, e d’Amore: Scherzan del mare i Numi; e peregrine Danze formando con industre errore Intrecciavan fra lor Meandri alteri Di giochi, di vaghezze, e di piaceri. XXXVI Quando s’udì Triton, da conca intorta Diffonder suono dolcemente altero. Il lido dentro il Mare il suon riporta, Ed Echo è tutto l’Elemento intero. E dice. Al vostro Varco illustre scorta Di perigli hà premesso il sommo impero; Che non senz’ ombre suol venire a noi Il chiaro Illustrator de’ regni Eoi. XXXVII A Zeffiro già diede il campo Acheo L’alto principio de l’antico germe: Chi di lor fra gli allori erse trofeo, E chi se n’ visse in fra gli olivi inerme. Questi già superò l’horrido Egeo E quegli d’Asia rese l’armi inferme. E degni di domar vie più d’un Mondo Di più Mondi ne l’Arme ersero il pondo. XXXVIII Contra l’Insubre Conduttier Visconte Giovanni armò la generosa mano; Forte sprezzò de l’inimico l’onte, E de gli assalti fè l’orgoglio vano. Cosmo rivolto ad opre illustri, e conte Alzò ricchi edifici, e di sovrano Padre de la sua Patria il nome ottenne, E la Pace hà per lui sonore penne. XXXIX Tra le congiure indomito fù Piero, E l’offese schernì de l’empia Sorte, E domator del Tempo più severo Non fù preda d’Oblío, se fù di Morte. Ma Giuliano da stuol grave, e fiero Di Cittadini giacque estinto; e forte Anche nel suo cader mostrò, che degno Era con l’opre sue giunger’ al Regno. XXXX Né te, Giulio, tralascio, a cui già diede Roma il sublime honor di tre corone, E in sostener la vacillante Sede Soffristi d’empia sorte aspra tenzone. Vincesti d’Arno la Cittade; e fede Ad Alessandro (d’alto honor Campione) Ella diè per tua prova, e per sua pace, Libera a l’hor, che più sogetta giace. XXXXI S’altri dir l’opre tue, Lorenzo, brami, Onde la fama per te chiara suona, Spanda l’alloro innumerabil, rami, Sia più d’un Pindo, e più d’un Elicona. Tu con la tua virtù perpetua trami A te la vita; e sol di te ragiona Febo, qual’ hor di pregi alti favella, E rende ogn’ alma a’ saggi detti ancella. XXXXII Ma di Giovanni, ch’ al gran soglio assunto Trattò de’ regni de la Terra il freno, Quai carmi adorno? poich’ in lui congiunto Fù, quanto il Ciel mai sparse, o diè ‘l Terreno. In dir sue lodi stancò i Cigni, e punto L’Arte non giunge a’ suoi gran merti, e meno Può la Virtudef con industri modi Adombrare il calor, tesser le lodi. XXXXIII Nè tra Medici Eroi copra l’Oblío Con fosco horror di tenebroso velo Ne la Regia del Mondo il quarto Pio, Che serrava, ed apría gli usci del Cielo. Nè di lui, che d’Undecimo sortío Il titol fra Leoni, io taccio il zelo: O di loro, ch’ ornar d’ostro la Chioma, Meraviglie del Tebro, honor di Roma. XXXXIV Alessandro, che Duca esser potéo De le genti de l’Arno, in fede stretto Fù co’l sangue de gli Austrij; e di fin reo Pur non vale schivar barbaro effetto. De’ suoi gran merti Hippolito già fêo Minore ogni gran premio; e pur l’affetto Non ben temprando de l’ardito core, Terminò di sua vita infauste l’hore. XXXXV Ma Giovanni sù l’Adda, e in Umbria prove Fà di se degne; ed al valore, a l’arte Rassembra in guise inusitate, e nuove De la guerriera Italia unico Marte. Nè fia, che di tacer Cosmo mi giove, S’ei di Grande hà ‘l suo nome, e per lui sparte Furon’ à terra d’anima guerriere Infide torme, e rubellanti schiere, XXXXVI Francesco, e Ferdinando anco fur vanto Di scettro sì sublime, e così degno. E non men chiaro un’ altro Cosmo il manto Sostenne anch’ egli del Toscano Regno. E sotto lor, più del famoso Xanto, L’Arno ad illustri glorie è fatto segno; C’han ne la Terra, e sovra il Mare eretti Di Cittadi, e di Porti opre, e ricetti. XXXXVII Ne tra sì chiari Eroi tacer degg’ io Il secondo Lorenzo, a cui d’Urbino Diede il valor magnanimo, e natío Posseder con man bellica il domino. Ond’ hor mercè de l’amoroso Dio L’Arno hà giunto al Metauro il suo destino: E, se non le Cittadi, il germe gode, De la Quercia di Giove ultima lode. XXXXVIII Disse; e del Veglio Araldo a’ gravi accenti Risponder gl’ antri concavi s’udiro: E ‘n conpagnia gli Scogli, a gara i Venti Il chiaro suon de’ Toschi honor ridiro. Sin l’arene in crear gemme lucenti, E in produr germi floridi gioiro. E al Sacro Legno intorno baldanzosi Sparser le glorie d’Arno i Numi ondosi. XXXXIX Scorrean’ intanto gli Amatori lieti L’ultima parte del Trinacrio mare, E vedean da la Destra in riva a Teti Star Città di lor fama altere, e chiare; E varij in un da gli antri lor secreti Fiumi ne l’ampio mar l’urna versare; E de’ pini volanti in molti lati. Correr le vie de’ flutti i remi alati. L Poi la Coppia da manca Isole mira, Ch’ in mezo a l’onde ripercosse stanno, Ed hora soffron di Vulturno l’ira, E sprezzan’ hor de le procelle il danno. Ed altra v’ hà, ch’ inhospite s’aggira, E crudi serpi i fieri nidi v’hanno, Ed altra sol di pomici, e di sassi Cavernosa nel mar distende i passi. LI Così più giorni drizzano felici Ver la paterna Reggia il fatal pino. De’ flutti l’ire disprezzando ultrici Rinchiudon la fortuna entro il lor lino; Ed al canto, ed al suon rive, e pendici Risonavan d’intorno; e del destino, Che seco havea la fortunata prora, Lieto era il Dio, ch’ il Ciel di raggi indora. LII Ma perch’ il Ventre de la Dea si scorge Ogn’ hor più grave sollevare il pondo, E più viva la speme a Toschi sorge Del parto felicissimo, e giocondo, Non sì tumido il lino il grembo porge A’ ratti-venti, ma nel mar profondo Lenta se n’ và la gloriosa Nave, E del parto invaghita anch’ essa pave. LIII In varie parti trapassando l’hore, E per non scoter de la Diva il seno, Van traendo gratissime dimore, E godon’ aura di gentil sereno. Quando alfin’ entran, dove il salso humore Principia del vaghissimo Tirreno; E tra fiorite, dilettose sponde Fini zaffiri han de l’Etruria l’onde. LIV Ed ecco a punto, donde a fronte mesce I suoi flutti nel mare il Terbo altero, E maggior di se fatto a l’onde accresce Un novello di flutti augusto impero, Da florid’ antro dilettevol’ esce Arion sù Delfino; e prigioniero Arrestando ne l’aria il volo a’ venti, Tai disciolse dal petto aure d’accenti. LV Vienne Zeffiro amato, e Flora bella, E non si tolga sì gran speme a noi; Che se l’una è d’amor placida stella, L’altro è Sol, che n’avviva a’ raggi suoi. Vieni, deh vieni, e non tardar, ch’ ancella Hà ‘l Cielo ogni virtude a’ pregi tuoi: Natura, e Amor suoi vanti in te raguna, E tu ne puoi de’ Mari esser Fortuna. LVI Ond’ hor di voi, con bellicosi legni Altri i Mari governa, e a l’onde impera; Altri fù Duce ne’ Germani Regni Di generosa, vincitrice schiera Questi il freno trattò di spirti degni, Che per insegna loro han Lupa altera; E quegli, a cui l’Iberia in cura è data, Porta d’Ostro Latin la chioma ornata. LVII Già di fede con voi giunto vegg’ io Chi frena l’Alpe d’alte nevi onusta, E de’ Farnesi il Giglio lor natío, Avvolto al vostro, far corona Augusta. E fin dove Germania hà ghiaccio rio, Di Medica beltà forma venusta Accenderà grand’ alma; e per amore Il Reno havrà da l’Arno onde d’ardore. LVIII Così Cinthia dal Ciel con sua virtude Nel vasto sen de’ campi si diffonde, E con le forze, che da’ rai dischiude, L’acqua, e la terra fà di se feconde. O’l Sol, con raggio, ch’ in se vita chiude, Illustrandno di se le piaggie, e l’onde, Dà spirto a l’alma, e dà vigore al frutto, E de’ gran germi suoi fertile è ‘l tutto. LIX Già de’ Medici i Mondi in ogni lato Di loro il Mondo fecondare i veggio. In loro han posto ogni più nobil fato Arno, Brescia, Verona, e ‘l Latin seggio. Prole a l’Insubria, ed a la senna han dato, E son gloria del Tago: e già preveggio, Che più non vanterà Monarchi il Mondo, Che di loro non sian germe fecondo. LX Onde, chi fia, che di voi degno canti Zeffiro, e Flora gli honorati pregi, Sovra ogni lode gloriosi Amanti, Alta speme d’Eroi, pompe di Regi? Per voi la Pace hà ne l’Etruria i vanti, La Giustitia vi regna; e in atti egregi Amor prodiga d’or la man distende, Ed il Valor con la Virtù vi splende. LXI Coppia amata, e felice, ove ripone Le sue grandezze il secolo languente, E rinova le antiche sue corone Italia tra le guerre homai giacente, Da te forte verrà più d’ un Campione, Che domo renda il Barbaro Oriente; E ‘l Sol, che spande i raggi suoi lucenti, A lo splendor de l’armi tue paventi. LXII Degno il tuo germe fia, ch’ a noi ritorni Il già smarrito secolo de l’oro; E trà soavi, e fortunati giorni Ad Honore, e Virtù rechi ristoro. Più, che de’ raggi suoi, Febo s’adorni Del tuo superbo, splendido tesoro: E quest’ onde che mute, e sorde sono, Per te formin di gloria altero suono. LXIII Fian de’ tuoi Figli i vanti, hora d’Alcide Schernir’ i segni, e l’Ocean varcare; Ed hor contra le schiere al Cielo infide Tinger di sangue miscredente il mare. Ch’ ogni periglio la Virtù deride, E l’Animosità forza hà da gare: Nè teme oltraggi di Fortuna il core, Ove arme sia ‘l Valor, campo l’Honore LXIV Vien dunque, ò Coppia di felici Dei, A far l’Arno per te di glorie pieno. E dov’ altri a la pace, altri a’ trofei Suol tra noi partorir fecondo seno, Solo a la Terra germogliar tu dei, Chi regger deve de la Terra il freno. Dice. E dal mano lato ardente face De’ veri annuntij è testimon loquace. Il fine del ottavo Canto. Canto Nono Argomento Venere, e Amore i Toschi Numi accoglie; Indi la Quercia frutti d’or produce: Poi Flora il Parto suo pone a la luce; Ed ogni Dio la gioia in carmi scioglie. I La Fama, ch’ apre infaticabil’ ale, Ne’ vanni hà d’occhi innumerabil lume; Và dal Polo di Borea al clima Australe, E da’ flutti d’ Atlante a l’inde spume. Veloce più di Mauritano strale Ne’ campi del seren batte le piume; E risonando altiera in ogni lato Eterno infonde a la sua tromba il fiato. II Questa si finse da le Cetre Argive Esser del vasto Encelado sorella, E che voci snodando ogn’ hor più vive Scioglia con cento lingue la favella: Empie de’ mari le remote rive, E del suo suono è termine ogni Stella. Ver l’Arno move; e de la fertil Dea Il ritorno in suon lieto a lui spandea. III E dice, come in Region’ diverse Habbia Flora varcato incontri vari; Ed hor provato amiche, ed hor’ avverse Fortune ne la terra, e dentro i mari: Ma le forze al Destin frante, e disperse Tra perigli sì dubbij, e sì contrari, Hor de l’Etruria la famosa Reggia Con trionfante piè fausta riveggia. IV Desti a gli accenti Venere, ed Amore Sovra conca di perle pretiose Vanno radendo del ceruleo humore Con fortunato col le vie spumose. La Dea, ch’ accende ogni più freddo core, Seco d’Amori hà schiere dilettose, E, rai di gioie scintillando intorno, Dà luce al mare, e dà splendore al giorno. V Per adornar la conca, e i sacri ammanti, Ond’ ella copra i membri suoi divini, L’Ermo votò da l’onde sue gemmanti I Zaffiri, i Chrisoliti, i Rubini; Diede il Pattolo i lucidi diamanti, E l’Alba le versò da gli aurei crini, Quanta già mai sù l’Eritree maremme Piove dal puro Ciel copia di gemme. VI Ondeggiavan’ al tergo, al crine i veli; E parean l’Aure dentro loro a gara Volgersi innamorate; e i loro geli Stemprar’ à sì bel Sol, ch’ arder’ impara. L’occhio a tal vista non invidia i Cieli, Ch’ essi non hanno Deità sì rara, Se non quanto frà gare di vagezza Vincer Flora la può con la bellezza. VII Sì ch’ a l’incontro de la Tosca Diva, Ch’ in compagnia di Zeffiro s’appressa, Venere lascia l’habitata riva, L’alma hà per Flora d’alte gioie impressa, E se ben nel rio Verno ella se n’ giva, Ov’ hà Cipro la Reggia, hor di promessa Quivi lieta attendendo il fin bramato, Vuol testimonio a’ Toschi esser del Fato. VIII Ama vanto sì bello, e vuol’ amica Per Zeffiro, e per Flora errar fra Toschi, Benche sia la stagione a noi nemica, E ‘l Verno i giorni d’altre nubi infoschi. Quasi a l’Etruria il volto suo predíca Ne l’ombre anco de l’Anno i dì men foschi. E ch’ ove Amore, e Venere soggiorna, Ivi di gioie è Primavera adorna. IX D’Amori il Choro a quella conca intorno Giva danzando per le placide onde. A suono d’Aure chi facea ritorno, E chi scorrea sù quelle vie profonde. Chi groppo ordía d’intrecciamenti adorno, Chi di salti mescea forme gioconde. Chi bei Meandri in giro ordir si vede, E chi ad arte scotea l’onde co’l piede. X Quà si scorgea con iterate prove Hor fugare, hor fuggir l’ondose schiere; Là ripartite in forme altere, e nuove Rappresentar’ imagini guerriere, Altri à gara sù lei tempeste piove Di floride odorate Primavere; Ed altri al ventilar de’ vanni loro, Forman lieta armonia di suon canoro. XI Quando Flora a la Dea del terzo Cielo Inanzi giunta, questo suon disciolse. Errammo è vero sù per ‘l salso gelo, E destin crudo in vario error n’accolse. De la ria Sorte paventammo il telo, E in perigli d’horrore il Ciel n’involse, Fin che poi variando ordine, e stato, In Corcíra n’addusse amico Fato XII Indi in Caonía dilungammo i passi Tra le selve di Giove al voto intenti, E quivi dubbia ancor la Sorte stassi, E par, che gravi in noi spiri i tormenti. Ma poi pentita a noi gioconda fassi, E la selva hà per noi dolci i contenti. Che come, ò Citherea, predir sapesti, Svelò Giove gli oracoli Celesti. XIII Ben le Quercie di lui ne fur cortesi, E liete a nostro honor voci spiegaro, Ed a nostro favore anco palesi Ivi le tue Colombe si mostraro. Sì ch’ il gran Giove, sol per farne illesi, Questa Nave ne diè, che la formaro Molti, che miri quì, Numi presenti, De le sacre di lui Quercie eloquenti. XIV Se ben, tra via, da tempestoso vento Soffrimmo scontri inusitati, e fieri, Poi, sotto aspro d’ardor grave portento, Con grave mal varcati hò mesi intieri. Sì che l’anima prova anco tormento, Ed hò del Parto mio dubbij i pensieri: Benche l’estrema Luna homai risplenda, Ch’ io de la Prole mia gli eventi attenda. XV Mà qual di fine sì bramato, e degno Deggio liete già mai sperar le prove? Poiche non puote così a pien l’ingegno L’Arcano penetrar del sommo Giove. Anzi fia, ch’ à quel suon de l’alto Regno Confusi l’alma i sentimenti prove. Da Quercia d’oro sorgerà gran Prole, Che stenderà l’imperio à par del Sole XVI Ciò non distinse a pien, quand’ ecco fuori L’Albero de la Nave i rami stende, E d’oro lucidissimi tesori Hà ‘l frutto, che da lor festivo pende: Spirto acquista la Quercia, e d’alti honori Con grave germe d’or degna si rende. Fertil’ è il tronco, e ad opra sì potente Fin’ ogni Nume meraviglia sente. XVII Onde Venere a l’hor , ch’ a Giove è figlia, Penetrando del Padre i gran secreti, Disciolse in questo suon la meraviglia, E al suon, da la sua Reggia applause Theti. A lo stupor non curvinsi le ciglia, Ch’ augurij il Ciel ne manifesta lieti. L’Arbor, che tronco steril’ si scorgea, Nuntio è co’ parti suoi fausto a la Dea. XVIII Il mio gran Padre, che nel sen raccolta Volle, che fusse la gran vostra Prole, Ecco egli annuntia, che dal sen disciolta Tosto uscir debba a rimirar’ il Sole. In gioia la speranza homai sia volta, Ch’ errar non puote il Re de l’alta molte, Solo à prò de’ viventi arde di zelo, E sono i cenni suoi leggi del Cielo. XIX Ond’ Arbore sì degna homai si toglia Dal vasto sen de la sacrata trave, E dentro a Tempio maestoso accoglia Contra la ferrea Età Fato soave. Il decreto del Ciel ne la mia voglia Comprendete, ò bei Numi; e questa Nave Più degna Argo vi sia, ch’ a Tosche sedi Di salute, e d’amor rechi mercedi. XX Contro lei d’ira il Ciel mai non scintilli, Nè ‘l Mergo i liti con le strida infesti: Od in fredda stagion Giuno distilli Da l’urna sua le pioggie, ò ‘l Mar tempesti: Ma tra sereni placidi, e tranquilli Sien’ a lei d’Alcioni i nidi intesti; E del Parto a l’avviso habbian gioconde In sen’ al Verno Primavera l’onde. XXI La danza a’ i lieti accenti replicaro Misti con gli Amoretti i Numi ondosi; E di lascivo error scherzi formaro Ne’ campi del Tirreno dilettosi. Così danza tal’ hora il Dio di Claro Tra i chori de le stelle luminosi, E tra quelle del Cielo erranti forme Lascia di lampi variabil’ orme. XXII Amorosi gli amplessi, ed iterati Fan con le Ninfe i Numi del Tirreno; Poiche gli Amor tra lor danzan meschiati, E sciolto in lor di libertade è ‘l freno. Tanti l’Hebro non hà flutti gelati, Quante scintille, e fiamme hà ciascun seno; E pur’ al suon de l’Aure, al mormorío De’ lor vaghi sospir danza ogni Dio. XXIII A terra il sacro Legno approda intanto, Ove l’Arno hà la foce; e l’alta d’oro Quercia i Numi honorando, in vario canto, Riempion l’aer muto, e ‘l mar sonoro. Zeffiro, e Flora a lei, che porta il vanto De la Madre d’Amore, e al salso choro Reser dovute gratie; e pregar lieti Amica Giuno, e favorevol Theti. XXIV Ed essi al Parto replicar felici Gli augurij de la vita, e de la pace. Poi ver l’alte di Cipro ampie pendici Se n’ và la Dea de l’amorosa face. E mentre seco con augurij amici Corre de’ salsi Dei l’ordin seguace, Con lor mille Colombe in aria vanno, E vaga a Citherea corona fanno. XXV A questi applausi fuor de l’acque sorse L’Arno di canne i crini incoronato, E da le rupi sue rapido corse Il selvoso Apennin co’l piè gelato. Quì Silvano il suo piè frondoso torse Da l’antro suo di tenebre gravato; La Napea con la Driade festante, E Fauno volse le selvaggie piante. XXVI Prendono l’Arno, e l’Apennino il Legno, E poderosi Dei sù per le rive Del Tosco Fiume il traggono; e sostegno A la mole anco son l’humide Dive, Quei Dei, c’hanno da’ fonti il natal degno, Ed albergano i Laghi, anch’ essi han prive Di se le sponde loro, e quivi addutti Fan la Nave immortal correre i flutti. XXVII Ed a la mole, ch’ è di Quercie intesta, Dicon’ a gara gloriosi carmi. Lunge, lunge da te suon di tempesta, Lunge, lunge da te rimbombo d’armi. Sovra te scenda in van saetta infesta, Nè l’ire contra te Giuno disarmi; E sovra te con infiammata mano Non fulmini il suo stral l’arso Vulcano. XXVIII Tu degna sei, che non di Mirto, o Lauro Incoronata sù per l’acqua vada, Ma ben di gemma pretiosa, e d’auro Quì del Fiume Tirren varchi la strada; E sovra te non stilli il suo tesauro La rigida Alba in gelida rugiada; Ma ‘l Sol tempesti da’ suoi ricchi crini Crisoliti, Topatij, Ambre, e Rubini. XXIX Tu porti Flora, che di fior Reina Incorona le chiome a Primavera; E vivo Sole di beltà divina Fà la Toscana sua lucente sfera. Per lei s’adorna d’imperlata brina L’Amaranto immortal, la Rosa altera; Il flessuoso, e cristallino Acanto, E ‘l Giglio, che d’argento hà ricco manto. XXX In te Zeffiro, scherza, Alma gentile, Lieto spirto del fertile terreno, Vago diletto del novello Aprile, Scorta fedel del placido sereno. Che rinovella à noi l’età senile Del freddo Verno, e sotto Cielo ameno Ambrosia piove, e nettare distilla, Le menti rasserena, e i cor tranquilla. XXXI E voi Numi felici, in sì bel Legno Non più tardate à renderne il dì vago, E co’l Regio del sen bramato pegno Fate di vostre glorie ogni cor pago: Nasca il Parto da voi, sol di voi degno, Di Zeffiro, e di Flora altera imago. Dal Padre i suoi costumi il Germe appigli, Ed i Padri germoglino ne’ Figli. XXXII E, come l’onda sopraviene a l’onda, Così nasca di voi Serie novella, Che ne’ Figli Reali ogni hor feconda Al numero pareggi ogn’ alta Stella. E del ferro l’età per lor gioconda Non invidij de l’or l’età più bella. Ma presagisca ne’ germogli loro Il bel secolo d’or la Quercia d’oro. XXXIII Così mai sempre pretiosi, e fini Distenda il sacro Tronco i rami suoi, E di presagij nobili, e divini Adduca nova meraviglia a noi. Sian di Flora, e di Zeffiro i destini Concepir Regi, e partorir’ Eroi. Dicean; e giunti son, dove di Flora La Reggia famosissima s’honora. XXXIV E benche a la Città Zeffiro imperi, Pur da la Dea de’ fiori ella hà ‘l suo nome. Erge a le Stelle gli edifici alteri, E coronate d’or porta le chiome. Non più nudre nel seno odij guerrieri, Che d’ogni cor rubel le forze hà dome. Lieve a se stima il vincer’ i perigli, E per corona hà i suoi nativi gigli. XXXV Scendon’ intanto da la Nave i Dei, E come disse il Nume de gli Amanti, Il Tronco memorabile da lei, Per piantarlo nel suol, prendon festanti. E vi disegnan Tempio, ove i trofei Stian de la Quercia d’or; nè fluttuanti I moti de la Terra unqua paventi, O Giove contra lei fulmini avventi. XXXVI Altri de’ Numi gli alberi recide, Per far le travi al Tempio; altri ne’ monti Con agevole man sassi divide, E gli ordigni con l’opre altri hanno pronti. V’ è chi da l’alto in giù rotar si vide Superbi marmi; e da le dotte fronti Altri sudor stillaro, in formar vari Frontispitij Colonne, Archi, ed Altari. XXXVII Questi l’arene ravvolgeva, e quegli Stemprati sassi, ed acque ivi mescea; Ed i marmi lisciar, quai tersi spegli, L’Industria, e la Fatica si vedea. Ma chi lavori così eccelsi, e begli Formar sapesse con sovrana Idea, Era sol l’Arte, e la Virtù, che sole Puon fabricar del Cielo anco la mole. XXXVIII V’ è chi da saldi fondamenti altrove Pilastri ferma; e di cornice intorno Fà ricorrer bell’opra; e a le sue prove Rende il gran Tempio di bei fregi adorno. Ivi fia, che d’ogni ordine si trove Compartitura altera; e a i rai del giorno Tempio non sorse mai sì degno in terra, Come hor questo la mole ampia disserra. XXXIX Può vincer de’ gran Dei l’opra sublime L’edificio, ch’ al sacro Ammone eresse Africa polverosa, e l’alte cime Di quel, che caro a Cinthia Efeso havesse. Del duol del Parto sofferenze prime Flora intanto sostiene; e ogni hor’ oppresse In lei le forze il pondo arcano rende, Se non, che dal Consorte alito prende. XXXX Flora in Zeffiro vive, e per lui spira, E da’ lumi di lui solo hà la pace. Poscia intorno a la Quercia ella s’aggira, E co’ bracci le fà nodo tenace. E dice, Ò Giove, i miei dolor rimira, Che solo da te spero aura vivace. Dice. E de l’aurea Quercia al piè si pone, E fausta il Parto a’ rai del Sole espone. XXXXI Ond’ ella volta à la gran Quercia disse; Hor sì ch’ a pieno hò ‘l dubbio suono inteso, Ch’ in Dodona il gran Giove à me predisse, Che fia da Quercia il Parto mio disceso. Quercia cara, e beata; ove son fisse De’ Toschi le speranze, ed è compreso, Quanto Zeffiro mai da l’alte rote Ad honore de l’Arno attender puote. XXXXII Accolsero le Ninfe il Parto amato, E in bagno d’odoriferi liquori Purgar le membra al fanciullin bramato, E nembi vi stillar d’Arabi odori. Onde Zeffiro dice. Hoggi è svelato Ciò, che Giove accennò: fertili honori La Quercia n’ hà predetto, e i frutti suoi Fur di felice Parto annuntij à noi. XXXXIII O da me tanto desiata Prole, Che disgravando de la Madre il pondo, Quasi raggio primier de l’alto Sole, Per me giungesti à serenare il Mondo. A te da’ Campi de l’eterna Mole Il Ciel piova di gratie ogn’ hor fecondo: Io spirto sia, tu refrigerio al Core, E s’io Zeffiro son, tu sii l’Amore. XXXXIV Disse. Ed à Giove consecrò l’Infante, E ‘l Tempio fù la Cuna a sì gran Nume. Indi a baciar del Fanciullin le piante Corse ogni vaga Ninfa, ed ogni Fiume. L’Arno a quei piè versò l’urna gemmante, E scosser l’Aure i fior da le lor piume. E co’ Fauni Silvan da Quercia incise Cuna, che di lavori hà belle guise. XXXXV Con dotte mani la Virtude, e l’Arte Ne l’opra consumando i proprij ingegni, Ivi scolpiron da la manca parte Di turrite Città lavori degni, Che quà ne’ campi lor veggonsi sparte, E là monti sublimi han per sostegni. E sonvi ancor quelle Città, che chiare Stendono i lor confini in seno al mare. XXXXVI V’ è Fiorenza, che nobile, e ferace, E d’Edifici alteramente vaga, Volta a l’opre de l’armi, e de la pace, Con le sue prove l’Universo appaga. Ogni Cigno per lei fatto loquace Voce d’eterno honor scioglie presaga. Come d’eterno merto anco in lei siede Valor, Prudenza, Maestade, e Fede. XXXXVII V’ è Siena, che di Palla a l’opre è volta E teatro di scienze esser si mira, E la Virtude in lei mirasi scolta, Che con aure d’honor vita le spira. Nè men’ è Pisa in altra parte accolta, Ch’ ancor essa di Pallade s’ammira Esser famosa Reggia, e de l’amene Parti d’Italia ella è novella Athene. XXXXVIII E v’eran’ altre, che la Terra accoglie Cittadi altere a meraviglie illustri, Che con la fama lor vittrici spoglie Han riportato da’ voraci lustri. E chi di forte il chiaro suon discioglie, E chi si vanta d’artificij industri. E quante son Cittadi, ivi son tante Reggie, ch’ offron tributi al Regio Infante. XXXXIX Ma poi ne’ mari si vedean distinte Gran moli rassembrar ne’ seni torti, Per non esser da’ fiati Australi vinte, O abbattute dal mar, rinchiusi Porti, Che di valor, come di muri, cinte Sprezzan, chi l’arme ivi nemiche porti, Ed habbia à rio furor vano ardir misto, E pensi far di sì gran moli acquisto. L Ma ben di te non taceran, Livorno, I miei deboli carmi, e ‘l frale ingegno, Poiche tu sol d’ogni eccellenza adorno Puoi meritar ne’ vasti mari il regno. Hà ‘l Valore, ed hà Marte in te soggiorno, A mille navi sei famoso segno: Ed a te drizza de’ volanti pini L’Oriente, e l’Occaso i curvi lini. LI Ivi in aspetti di terror graditi Vedeansi co’ lor liquidi volumi Lieti apparir sovra i Toscani liti Trecciati d’alghe i tributarij Fiumi. Ed a sì degna, e nobil pompa uniti Di bel piacere serenando i lumi Versavan perle; e d’oro havean corone L’Arbia, l’Era, la Chiana, Arno, ed Ombrone. LII Ma l’altra parte de la cuna hà scolti Di Zeffiro, e di Flora i primi amori, A l’hor, che dal Metauro ella quì volti I piè drizza, ed accresce i Toschi honori; E ne l’Etruria porta seco accolti Gli alti pregi, e i trofei de’ suoi Maggiori, Che dieder sotto a la gran Quercia d’oro A Valore, e Virtù campo, e ristoro, LIII V’ è Sisto, e di Giulio il viso impresso, Cui sovra il colle altier del Vaticano Fu di serrare, e disserrar concesso Lo stellante del Ciel Regno sovrano. E gli altri ancora, che del germe istesso Vestiron manti d’Ostro, e nel Romano Cielo splenderon, qual più chiaro suole Choro di stelle sù l’eterna Mole. LIV Vi sono i Leonardi, e i Rafaelli, Ed i Giovanni, ed i Giuliani insieme, C’han pregi di virtude ogni hor novelli, E di sé propagar sì degno seme. E chi mai s’udirà, ch’ a pien favelli De’ Franceschi, e de’ Guidi, onde supreme Vantan’ a l’ombra de la Quercia d’oro Così gran Semidei le glorie loro? LV Di Zeffiro anco ammiransi i gran pregi, Ond’ egli chiaro di se stesso splende. E non men, che co’ Franchi invitti Regi, Co’ fortii Austriaci Eroi stretto si rende. D’ Augusto a se congiunto i vanti egregi In ogni clima glorioso stende. E ne l’Italia con altera prova De’ Re Toscani i primi honor rinova. LVI Scorron’ i Legni suoi da l’Orto infido Sin’ a l’Occaso, e a mezo Giorno invitti. E da la man de’ suoi sovra ogni lido Miscredenti guerrier’ giaccion trafitti: Fin dove in stretto mar Sesto, ed Abído A’ nostri Legni i termini han prescritti, Van di Zeffiro i Legni in Guerra forti, A sperder gli empi, e seminar le morti. LVII Da’ rostri solo de le Navi avverse Ei fabricato hà bellici tormenti, E con l’armi lor proprie in mar disperse Hà mille schiere de le Maure genti. Hor’ in preda, hor’ in ceneri converse Hà d’Asia le Città, reca spaventi Sol del Giglio al gran segno; e rende dome De’ Barbari le forze anco co’l nome. LVIII Ma tra popoli suoi di pace amico, Quanto sia giusto, egli altretanto è pio. Contra le forze del Livor nemico, E contra gli odij del nocente oblío. A la Virtude inferma il fianco antico Ristorando l’è Medico, e l’è Dio. D’oro per lui le Muse hanno i velami, E nel crin Febo hà di Smeraldi i rami. LIX Giungon’ in tanto sù da l’aria à volo Con pretiosi ammanti; e ‘n foggie belle Al grand’ Infante scherzano dal Polo Ossequiose le Virtudi ancelle. E de gli eccelsi Dei lo scelto stuolo V’ accorre anco da’ regni de le Stelle. E chi l’ hasta, chi ‘l brando, e chi la clava Presagio di grand’ opre al Parto dava. LX Sol Giove in vece sua l’Aquila altera Mandavi amico, e a’ piedi de l’Infante Di vasto imperio degna messaggiera Vi depone la folgore tonante. A sì grand’ atto de l’eterna sfera, I Dei queste mandar dal sen festante Note d’honori; e l’aurea Quercia intanto Inchinò lieta i fertil rami al canto. LXI A così lieta, e fortunata Prole Il Ciel non neghi mai gioia, e sereno. Pronta ogni Stella da l’eccelsa mole A lei goda girar l’aspetto ameno. Per lei fiammeggi con bei lampi il Sole, E mostri i suoi candor Cinthia non meno: Nè l’ombra sorga da l’oscura Lete, Ma da gli Elisij a lei sparga quiete. LXII Sotto Parto sì degno in erma parte Fia, che co’l suo furor, co’l suo terrore Tragga sbandito, e condennato marte Tra ‘l freddo giel de gli Arimaspi l’hore; La Pace, a cui sue gratie il Ciel comparte, Quì lunghe faccia amabili dimore. E per fonte, e per colle habbia il divino Apollo, ed ogni Musa, Arno, e Apennino. LXIII Cresci a Regij magnanimi pensieri Fanciul, nato d’Etruria a’ primi honori: La Terra sol di te degna hà gl’ Imperi, Ma le lodi hà Virtù per te minori. Giove in Dodona diè gli Oracol’ veri, E Venere nel Mar spirò favori. E a questo suon la Quercia, e ‘l Parto ancor. Riveriron di Zeffiro, e di Flora. LXIV Gode la bella Etruria; e in mille lochi Con ingegnosi spiriti di polve, Formando scherzi, e variando giochi, Tra il gel de l’Aria lieti ardori involve. Altrove tuoni d’innocenti fochi Dal cavo sen de’ bronzi suoi dissolve. E l’Aria da le voci intorno franta Ferdinando risuona, e ‘l Parto canta. Il fine del nono Canto. Canto Decimo Argomento Giove il Bambino rapisce a l’alte Stelle; Duolsi, e si lagna Zeffiro con Flora, Ma Giove con presagij i Dei rancora, E promette d’honor Proli novelle. I Tra ricche fascie il Fanciullin Reale Entro l’Augusta cuna i dì godea; Tragge di cara luce aura vitale, E ogni alma Tosca al viver suo vivéa: La Fama spande a quei gran pregi l’ale, Che più bel Parto altrove non scorgéa. E ‘n dar le lodi, con la tromba fuori Mille sciogliea dal sen spirti sonori. II Da gli antri cavi geminar gli accenti Udiasi l’Apennino à mille, à mille, E l’Arno palesar ne’ suoi contenti Dal sembiante d’amor dolci faville. Le Dive, e i Numi a novo scherzo intenti Liete da gli occhi lor versan le stille: E sù la cuna Castore, e Polluce Spandon de’ suoi bei raggi ampia la luce. III Lo scherzo ivi fù visto ordir suoi balli, Scorrer co’l Gioco nel Real soggiorno; E in un le Ninfe de le Tosche valli Più d’un serto intrecciar di fiori adorno: I Fiumi da’ lor liquidi cristalli Versar gemme nel Tempio; e vago il Giorno L’Oriente spogliar de’ suoi tesori, Per crescer’ a la pompa aurei splendori. IV Del nato Achille non così gli Achei Le pompe celebrar con lieti aspetti; Nè sì per Bacco alzarono trofei Gli habitatori de’ Tebani tetti: Nè tante gioie sù pe’ flutti Egei Delo mostrò, quando al bel dì concetti I suoi Gemelli partorì Latona, E per lor risonar Cinto, e Elicona. V A sì gran plauso fin dal Cielo venne Giove de’ sommi Fati alto Rettore, E dibattendo l’Aquila le penne Formaron da quel moto aure canore. In mirar’ il Bambin Giove sostenne Attonito il suo ciglio per stupore; Poiche degna del Ciel vide la Prole, Ch’ era a la Terra un’ amoroso Sole. VI A tal Parto invaghisi il sommo Amante, C’ hà per amori suoi gloria superna, E scorse bene, ch’ il divin Sembiante Potea crescer’ al Ciel bellezza eterna. Tutto nel viso si mirò festante Rasserenar le luci; e da l’interna Parte per gli occhi il cor trasmise al volto, E’ l gran decreto in loro apparve scolto. VII Non sò, s’avido il Nume, od amoroso Di ritorre il Bambino a l’Arno elesse, Nè più goder’ in terra il dì gioioso Al pargoletto Regnator concesse. Di Giove al cenno (o Fato a’ Toschi odioso) Rapir sù ‘l tergo le Colombe istesse Di Citherea il Fanciullin Tirreno; E ‘l riposer sù ‘l carro a Giove in seno. VIII Due notti in concepir’ Hercole al mondo S’affaticò la dolorosa Alcmena, E poi ‘l Nume produsse al dì giocondo, Ch’ a gli Empi fù di morte acerba pena. E quivi non Hercol nato, il dì fecondo Ritolto è de la Terra a l’aura amena; E verso il Ciel con nobili trofei S’inalza a crescer numero a gli Dei. IX Qual chi tocco da’ fulmini si miri, Tal Zeffiro dal duol dubbio s’arresta, Muto non torce de’ suoi lumi i giri, E tra cura, e stupor gela, e tempesta. Alfin gli affanni suoi scioglie in sospiri Volto a la Prole, che partiva; e ‘n questa Guisa sfogò del cor l’occulto duolo, E del martir fù testimonio il Polo. X Zeffiro hor sì, ch’ in occidente regni S’apparve a un punto, e sparve ogni tua speme; Tanti in terra, ed in mar contrari segni Fur certi inditij à te di doglie estreme; E più, che amori concepisti sdegni, In sparger voti a Deità supreme. Ah pria, ch’ io provi da le Stelle aita, Giove è fallace, e Venere è mentita. XI Più non corra per me l’Arno al Tirreno, Che quest’ occhi potran con nembo ondoso A l’infelice, e lassa Etruria in seno Formar fiume più degno, e più famoso. Nè l’Apenin di selve atro, inameno Mostri più cigilo di terrori ombroso. A horror più grave questo sen dà loco, E de le selve hò gli spaventi a gioco. XII O come i mi fingea, ch’ Eroe Bambino Nascer dovesse da la Quercia d’oro A sollevar l’Italia; e ‘l suo destíno Fusse intrecciar’ il crin d’eterno alloro: Ed a Virtute l’adito divino In terra riaprendo, il suon canoro De’ Cigni ravvivar, che presso l’onde Albergan d’Arno le fiorite sponde. XIII E già credea, che sovra il fiero Trace Hor sù le navi saettasse strali, E dentro il seno de l’Egeo vorace Aprisse a gli Ottomani urne fatali; Ed hora in terra, colmo il sen di face, Che Marte spira a gli animi immortali, Di formidabil’ Mori, e d’empi Setti Empisse i campi, ed ingombrasse i liti. XIV Sì meritar poteva il grande effetto, Ond’ io ver la Caonia, e la mia Flora Drizzammo il volo a non vicino ogetto, E tra le Querce tue femmo dimora. A le tue voci era gioioso il petto, E n’ era lieta ogni sorgente Aurora; Ed altro Sol non desiai, che ‘l die, Ch’ era promesso a le speranze mie. XV O vana speme, ed o fallace giorno: Ch’ in ombre hai tramutato il tuo splendore; Fai nel Cielo per me fosco il ritorno, E gravi a Flora riconduci l’hore. (Lasso) credea, che nel divin soggiorno Non ritornasser mai voci d’errore, E che lunge da noi con bianco velo La Verità solo albergasse in Cielo, XVI A sì fiero destino io giunto sono, Che fin manca per me l’istesso Fato, Meglio a me fora, haver negato il dono, Che ritorre il Bambino a pena nato. Quando Flora dolente al mesto suono Ripiglia anch’ essa, e dice. E’ a noi mancato Prima, ch’ apparso, il desiato Infante, Di fragile desir speranza errante. XVII Ah ch’ infeconda ero delusa in terra, Ed hor, che fertil sono, infesto hò ‘l Cielo; Regio Bambino il seno mio disserra, Ch’ in beltade adeguar può ‘l Dio di Delo, E dove Morte gli altrui Parti atterra, E fiera squarcia il lor corporeo velo, Mi toglie il Ciel la Prole; e ‘n dure prove Gli uffici de la Morte usurpa Giove. XVIII O voti vani, ed ò desir fallace, Poich’ è ‘l regno del Ciel volto a rapina. Non è stabile in terra humana pace, E manca fin nel Ciel la fe divina. Sembra la gioia in noi rosa mendace, Ch’ in se crede haver perla, ed è poi brina; Ch’ in un momento nata, a un punto è scossa, E co’l giro del Sol perde sua possa. XIX Dunque era d’ huopo, per cammin sì grave, Scontar tante, e sì rigide contese; Ed hor sù l’aria, hor ne la sacra trave Patir’ incontri, e sostener’ offese; S’ ad un tratto passar l’aura soave Dovea de le mie gioie; e a un punto accese Ammorzarsi le glorie anche in un punto; E starsi co’l piacere il duol congiunto. XX Ah ch’ a la Terra, e non al Ciel produssi Il bramato dal Ciel Parto promesso; E se lui con rio duolo al giorno addussi, Perche goderlo a me non è concesso? Ah per me mal feconda io stata fussi, Se di torselo a Giove era permesso. La Sorte hà forze contra me rubelle, E invidia han de’ miei beni anco le stelle. XXI Tu pur’, o Giove, con la tua Giunone Potevi farti in Ciel fertile à gara, E de la Prole tua l’alta magione Render’ a voglie tue feconda, e chiara. E non rapire a me, chi le corone Del Regio sangue mio Bambin ripara; Ò pur con lui che non rapir me stessa, S’ è nel Figliol la Genetrice impressa? XXII E chi fia, che rapisca il corpo mio, E co’l mio Figlio il porti in aria a volo? Non tu Borea, ch’ a me contrario, e rio Tentasti sù per l’onde aggiunger duolo. E nè men da te, Zeffiro, desio Sù per le vie de’ venti alzarmi al Polo, S’ io di ristoro, e tu di ben sei privo; Tu senza spirto, ed io senz’ alma vivo. XXIII Parto concesso à me sol per mio male, Fatto a’ desiri miei gioia nocente, Che havesti, nel partir, del Padre l’ale, A l’hor più lunge, ch’ eri a noi presente. E, mentre apparve il pregio tuo sì frale, Che ne’ suoi primi dì giacque languente, Mostrasti in lieve, e così breve volo, Che de la Dea de’ fiori eri Figliolo. XXIV Ah fussi io stata fra selvaggie piante Una mal nata Rovere infeconda, Hor non sarei di flebil duol stillante, Nè verserei quest’ alma in tepida onda. Ahi che val, che d’honor Diva mi vante, S’ anco d’immortal duolo io son feconda? Figlio, s’ in Ciel la Madre tua non sdegni, Hanno horti anco di fiori i sommi Regni. XXV Ma che? raccolta fra quei campi alteri Potranno le mie lagrime cocenti I fiori inaridir de’ sommi imperi, E di pompe privar gli horti lucenti. Ah Madre infausta; e che mal nata speri, Se sol, mercè del Ciel, spirti hai dolenti? E ti diero esser Dea gli eccelsi Giri, Per far, ch’ eterna in te la pena spiri. XXVI Figlio, ove sei? dove te n’ gisti a un tratto, E la Madre a i martir lasciasti in preda. Ah torna, torna; nè per te disfatto In me lo spirto a tanti affanni ceda. Anzi, per te seguir, d’augello in atto A me, come l’amor, lo spirto rieda. O docle mia follía: del Cielo ei gode; E la Terra, e la Madre odia, e non ode. XXVII Infausti pregi miei; poich’ a me noce Haver’ in terra Deità produtto. Deh fosse stata la Sirena atroce In mare a me dolce cagion di lutto: O pur’ a danni miei Borea feroce Havesse in ghiaccio tramutato il tutto; E di macchie l’ardor spargendo il volto, M’havesse in fiamme, e ‘n cenere disciolto. XXVIII A pien ne’ danni miei sarei beata, E più, che d’esser Dea, mi vanterei. Ogni herba sia per me d’odori orbata, SIen vedovi di fiori i Colli Hiblei; Più non sorga di gigli incoronata L’Alba da’ lidi Eoi; nè più di bei Germi dipinti sù l’etherea mole Fiorito splenda il rinsacente Sole. XXIX Desti da’ centri suoi Dori cruciosa Contra gli abeti altrui procelle infeste, E ‘n travagliare i pini ogni hor sdegnosa Accresca flutti, e accumuli tempeste: Apra il Suolo voragin spaventosa, E inghiotta in un co’ monti le foreste; Ed arrechi a l’Etruria ultima sorte Lutto, danno, sospir, lamento, e morte. XXX Sì sì l’Inferno da l’oscura sede Quivi sorga a goder Cielo migliore, Che trovar l’alma mia ne’ Numi crede De la Stigia magion fede maggiore. Proprie de l’Orco non son più le prede, Ch’ anco Giove a rapine hà volto il core. Novi Dei sù le Stelle egli riserra, E già satio del Ciel, spoglia la Terra. XXXI Ah che dico, ò mio Parto? a Giove in seno Godi i fulmin’ trattar con destra imbelle, E ne le fascie stretto il mar Thirreno, E ‘l suol Tosco difender da le Stelle. Ah che divisa in due già vengo meno, Nè miro più del dì le luci belle. Oppressa dal martir lo spirto hò stanco; Gemo, anhelo, sospiro, agghiaccio, e manco. XXXII Cadde Flora a tai note; e parve rosa, Che tocca fusse dal vampar del giorno, Qual’hor sù noi da la magion focosa Vibra Apollo il suo stral di raggi adorno. Zeffiro accorre; e di cader dubbiosa Anch’ esso hà l’alma; ed ogni ogetto intorno A mostra sì spiacevole, e nocente Prende di lutto imagine dolente. XXXIII Quando Giove, ch’ à noi svela gli arcani, Con accento immortal tai note scioglie. Del sempiterno Rè gli honor sovrani Non soggiaccion a’ lai, nè mertan doglie. Pendon dal giusto Cielo i casi humani, E dal Ciel’ han virtù le basse voglie. Non sia, chi pugni al gran voler superno, Hà note di diamanti il Cielo eterno. XXXIV Feconda, qual’ io dissi, in terra Flora Prodotto hà Germe, ma di Stelle degno; Ond’ hora meco tra le Stelle ancora Ascenda, a posseder più nobil regno. E meco i fulmin tratti, onde tal’hora Giaccia lo stuolo de’ Rubelli indegno. Sien partite fra noi le nostre prove; Ed habbia la Toscana anco il suo Giove. XXXV Sorgon Zeffiro; e Flora a tali accenti, Ed in se riedon da la scossa acerba; Poi segue il gran Tonante. A’ vostri eventi Il Cielo amico miglior sorte serba, E ‘n terra fia de’ vostri Eroi potenti La Gloria chiara, e la Virtù superba. Poiche dal Ceppo lor, c’ honor diserra, Havran Numi le Stelle, Eroi la Terra. XXXVI La Quercia, che nel Tempio alta si mira, Fato vi sia di fortunate prove; Ch’ ov’ ella hà Regij rami, anch’ ivi spira Il ben del Cielo, ed il favor di Giove. Nata a gran Germi, de l’Invidia in ira, A l’Arno produrrà pompe ogni hor nuove; E dal suo Ceppo sorgerà, chi torni Del secol d’oro i fortunati giorni. XXXVII Porgete incensi a Quercia sì sublime, Ch’ ella di sì gran Tempio è degna in terra. E da lei penderan le spoglie opime De’ rubellanti soggiogati in guerra. Ed in vece di lui, c’ hor sù le cime A’ farsi Nume il volo suo disserra. Quanti rami la Quercia erge felice, Tanti Regi a l’Etruria il Ciel predice. XXXVIII Disse, e la Quercia raddoppiar si vide Dal vivo tronco un’ ordine fecondo Di rami, onde vie più d’ un forte Alcide Sorga in Etruria, a sollevar’ il Mondo; Sì che per loro contra torme infide Vanti Honore, e Virtù trofeo giocondo. E fertil de la Rovere il rampollo Più d’ un Marte produca, e d’ un’ Apollo. XXXIX Riprese Flora, e Zeffiro la speme, Che già languía ne’ sospirosi cori; E non più l’Apennin, nè l’Arno geme, Ma porge al novo Dio supplici honori. Con Giove intanto a le magion supreme Ascende il Figlio de la Dea de’ fiori; E sotto auspicij d’alta Quercia d’oro Speran l’Arno, e l’Etruria i Regi loro. XXXX Per farlo habitator del sommo Cielo, E consecrarlo Dio de l’alta parte; Al Fanciullino il Regnator di Delo I bei tesori de’ suoi rai comparte. Sparsel Giove di nettare; e co’l telo Segnò l’Infante il bellicoso Marte. Ed Hebe, che d’età fresca si vede, Eternitade al Tosco Nume diede. XXXXI Il Nume anch’ esso, ch’ a Cillene impera, E nel Tempio, ch’ in se la Quercia accoglie, Sceso è con gli altri Dei da l’aurea sfera, Desta co’l Caduceo placide voglie. Ed anche Alcide, c’hà la Clava altera, E nel tergo sostien selvaggie spoglie, Di quelle il Nume pargoletto copre, E spira a l’alma memorabil’ opre. XXXXII Lieta sin Giuno pe’l Toscano Infante Si vide serenar l’Auguste ciglia; E a tal’ aspetto fin la Regia amante De’ Numi in Ciel, gioì di meraviglia. Cangia il suo lutto in pace Arno festante; E Zeffiro speranza a pien ripiglia, Che germoglio novel per far gli sieno Di Giove il suono, e di sua Flora il seno. XXXXIII A le promesse del Tonante vaghi Frenan’ intanto i popoli le cure; Nè più rivolgon le lor luci in laghi Di pene, che nel cor serban più dure. Ma come il Sole fuor di nube appaghi La vista in terra con sue luci pure, E del chiaro splendor dispieghi i rai, Consolan’ i martir, temprano i lai. XXXXIV Miran il terzo Cosmo in alto acceso, Che ne l’Etruria nato, è ‘n breve tolto (Volando a’ pregi sempiterni inteso) Hora a la cura de’ Thirreni è volto; Con plettri armoniosi, onde sospeso Il Vento in aria stassi, in carmi sciolto Cantan’ hinno di lode; e dal suo speco L’Apennino a le lodi è nobil’ Eco. XXXXV Applaude il Tosco regno, ed ogni Fiume, Che mesto rivolgea torbide l’onde, Par, che sereni il lagrimoso lume, E di novelli fior vesta le sponde. Nè fia, ch’ in pianto gli occhi suoi consume Il Choro delle Dee, che tra feconde Selve gemean ne’ monti, e per le valli Crescean’ a ‘ fonti tepidi cristalli. XXXXVI Adoran Cosmo; e a la novella spene, Che loro diede il Regnator Tonante, Rivolgon l’alme, ch’ in gioir serene Tralucon dal lor placido sembiante; E mostran fra gli affanni ancor’ amene Aure di bel desir, che non errante Tempra in loro i pensieri, ed ogni noia, Vago tramuta in bel seren di gioia. XXXXVII Poscia volta a la Quercia ogni alma amica Accende i cori di gradite voglie; E contra l’ire de l’età nemica Voti al futuro Regnator discioglie. Depone il Verno rio l’asprezza antica, E verdi a’ preghi altrui veste le foglie; Ornasi il bosco di smeraldi intorno, E ‘l campo si colora a’ rai del giorno. XXXXVIII Pe’l futuro Regnante ogniun’ a gara Sù ‘l tronco de la Quercia i voti appende; E fatta la lor gioia ogni hor più chiara, Mostran, che speme in lor più certa splende. Chi sù la Quercia d’or, chi sovra l’ara Di più pregiati fior’ serto sospende; E chi d’Arabia, tra sacrati ardori, Al venturo Bambin diffonde odori. XXXXIX Altri un’ ammanto tempestoso d’oro Fisso nel tronco pretioso pone; Ed altri con finissimo lavoro Rilucenti di gemme erge corone; E chi di scettro nobile tesoro Sù i rami de la Quercia alto ripone. E del novello Parto a i Toschi Regi Ravviva le promesse, e accerta i pregi. L Dal novo Parto già l’Etruria attende Più fortunati de’ suoi giorni i lampi, A l’alta speme i pregi suoi riprende, E l’Etruria riveste i fertil’ campi: L’Italia anch’ essa a novo honor s’accende, Fia, ch’ orme in se di salda Pace stampi: E ‘l Mondo speri da’ Toscani Infanti D’Honore i pregi, e di Virtude i vanti. Il fine del decimo, & ultimo Canto.

Per non haver potuto l’Auttora ritrovarsi ogni volta presente alla correzzione delle stampe, in alcune Pagini del Poema vi è scorso qualche punto, o virgola di avantaggio, che verrebbe a mutare il senso, e come anco lettere false, o altro errore, tutto si lascia all’interpettatione del discreto Lettore.

A pagina 131. ottava terza. verso ottavo. Fra corretto. far A pagina 158. ottava terza. verso ottavo. lucenti corretto. paventi